mercoledì 22 settembre 2010

vedere oltre la morte


La morte è l’evento ineluttabile che pone fine alla vita biologica di tutte le creature. Molti animali percepiscono il suo avvicinarsi e ad essa si preparano appartandosi e scegliendo il luogo dove l’incontro avverrà. Anche alcune popolazioni umane, che l’uomo proggredito definisce primitive, hanno mantenuto questa sensibilità.
L’uomo civilizzato, invece, ha perso quasi del tutto questa capacità. Egli è ormai abituato a basare le proprie opinioni e le proprie azioni esclusivamente sul suo patrimonio razionale e va sempre più perdendo le facoltà di intuizione.
Egli si ritiene proggredito perché possiede e controlla strumenti che coltivano il suo senso di onnipotenza e di superiorità. In realtà, man mano che va acquisendo, rafforzando ed ampliando le proprie conoscenze tecniche, scientifiche, e conseguentemente il proprio benessere materiale, egli va, di pari passo, inaridendosi e perdendo la sensibilità percettiva dei fenomeni che regolano il funzionamento della natura e delle interrelazioni con essa e con gli esseri viventi, in generale, e con i propri simili, in particolare. Per garantire la propria onnipotenza egli tende ad occultare quei fenomeni che sfuggono ancora alle sue possibilità di intervento e di controllo e che per questo motivo generano in lui insicurezza e paura.
La morte è un evento che l’uomo civilizzato non metabolizza correttamente, è per lui un evento che genera incertezza e paura per l’incognito che è oltre di essa.
Egli tenta di aggirare il problema, mettendo a punto sistemi per prolungare la vita. Il suo sogno è sconfiggere la morte e raggiungere l’eternità.
Eppure la morte è un evento normale, che ha la stessa frequenza dell’altro evento, che è la nascita. Sono i due eventi che segnano l’arrivo e la partenza dal nostro mondo terreno.
Quest’uomo abituato ormai a credere solamente in ciò che vede o che è dimostrato razionalmente, ha difficoltà ad accettare credenze religiose, come l’esistenza dell’anima o l’eternità.
Questa difficoltà è dovuta proprio al mancato esercizio dell’intuizione.
L’intuizione, insieme alla fisicità, al sentimento ed al raziocinio, è una delle quattro caratteristiche peculiari dell’essere umano, che lo caratterizzano in un mix, che ha vario dosaggio da individuo ad individuo. Perdere l’intuizione significa perdere la capacità di volare. Significa perdere la fisica quantistica. Significa perdere il patrimonio scientifico di Nicola Tesla. Significa non capire Dio.
E’ l’intuizione che ci fa cogliere il senso della morte e dell’anima.
Il concetto ebraico di “anima” mi sembra bene sintetizzato dal capitolo “Neshamàh” del libro di Arthur Green “These Are the Words”, che qui di seguito richiamo con l’aggiunta di alcune mie osservazioni.
Il testo inizia dicendo che neshamàh è la parola comunemente usata nella lingua ebraica per “anima”. Essa fa riferimento alla qualità essenziale dell’individuo, la sua più vera identità. In yiddish “a gute neshomeh” indica “una persona di buon cuore”, “a teyere neshomeh” è un’anima bella, una persona dalla sensibilità non comune o di eccezionale pietà.
Secondo queste definizioni l’anima è identificata con l’”indole”, la naturale inclinazione di ogni individuo ad agire ed a reagire secondo proprie peculiari modalità. Quindi questa è la definizione di “come” è un’anima e non di “cosa” è l’anima.
Il testo prosegue affermando che nella Bibbia non vi è un concetto chiaro dell’anima come qualcosa distinta dal corpo. La parola neshamàh in realtà significa “respiro”, sostantivo derivato da n-sh-m “respirare”. Viene usata per la prima volta in Genesi 2:7, quando D-o “ispirò il soffio della vita (nishmàt chayyìm) nelle narici di Adamo. Essa venne perciò ad indicare “la forza vitale” o “lo spirito che dà vita” nei diversi contesti biblici.
Siamo arrivati ad una prima definizione di anima intesa come soffio vitale, qualcosa che serve a far vivere il corpo, ma non si dice ancora se l’anima abbia o possa avere una propria identità ove prescinda dall’unione con il corpo.
Nell’epoca rabbinica, prosegue il Green, in parte sotto l’influsso ellenistico, l’ebraismo sviluppò un concetto completo di anima. La neshamàh, un dono restituito giornalmente dall’”alto”, è inviata da Dio a dimorare nel corpo, la cui origine è terrena. Una preghiera recitata quotidianamente afferma la purezza originaria di ogni anima e dichiara che un giorno Dio la riprenderà e così terminerà la vita. Ma quella stessa preghiera afferma che l’anima sarà restituita quando i morti risorgeranno alla fine dei tempi. I rabbini credono che ogni anima sia contemporaneamente unica ed eterna. Tra la morte e la resurrezione (dopo un periodo di purificazione della durata di un anno, reso necessario se si è peccato) l’anima dimora nel “Giardino dell’Eden”, dove D-o si reca ogni sera “per trarre gioia dalle anime dei giusti”.
Neshamàh si alterna, nelle prime fonti, con altri due termini che indicano l’anima: néfesh, che significa “sé”, e rùach o “spirito”. Infine néfesh, rùach e neshamàh (che talvolta nella letteratura vengono raggruppate nell’acronimo NaRaN) finirono per essere considerate come tre dimensioni o “livelli” dell’anima. Nel Medioevo quest’idea venne collegata alle varie teorie neoplatoniche o aristoteliche della tripartizione dell’anima, con néfesh a rappresentare l’anima inferiore, seguita da rùach e da neshamàh.
I qabbalisti consideravano l’anima come una reale “parte del Dio superno”; ciò che Dio soffia in Adamo è la presenza del Sé divino. Niente di ciò che gli uomini possono fare sarà in grado di sradicare questa Presenza divina dai più profondi recessi del cuore di ciascun individuo. Alcune fonti cercano di limitare il possesso della neshamàh, o anima divina, agli ebrei, ma ciò è incompatibile con la fede in un’unica universale discendenza da Adamo ed Eva e pertanto contraddice gli insegnamenti basilari dell’ebraismo (tzélem Elohìm).
Con questa visione qabbalistica, quindi, l’anima lascia la posizione di subordine strumentale rispetto al corpo che la ospita, verso cui espleta un compito che ne consente la vita, quasi fosse il carburante necessario al funzionamento di una macchina, e diviene, invece, sede dell’identità dell’individuo, la cui vita corporea viene ora a connotarsi come una frazione temporale finita di un’esistenza che in quanto “parte del Dio superno” ha il connotato dell’eternità.

“…. in questo luogo avviene una modificazione divina: il Signore sottrae dal corpo mortale l'essenza spirituale, liberando il fanciullo lieto e leggero dal suo involucro pesante. Affinchè il fanciullo non vaghi e smarrisca, egli è condotto dal Signore nel guado purificatore e giunge all'altra sponda.”

Tutto questo è il frutto di credenze religiose, formatesi nei secoli, frutto di meditazioni ed esperienze di molte generazioni di nostri antenati, dotate di un livello intellettivo notevole e molto spesso superiore al nostro, per una questione, direi, di dimestichezza all’esercizio delle proprie facoltà. La dimensione intellettuale dei nostri progenitori non deve assolutamente valutarsi in proporzione agli sviluppi del progresso tecnologico o scientifico. La ricchezza del patrimonio intellettivo degli antenati più remoti è più facilmente percepibile dai componimenti poetici, che esprimono sentimenti immediatamente percepibili e che ci fanno sentire i loro autori così simili e vicini a noi.
Per potere rispondere alla domanda “cosa c’è dopo la morte?” dovremo usare, non il procedimento della dimostrazione, perché siamo al di fuori dell’ambito sperimentale dei fatti sensibili, bensì quello della verifica, che partendo dall’assunzione per vero degli asserti religiosi, ricerchi indizi sperimentali che risultino ad essi coerenti.
Ma questo fanciullo, chiede l’uomo razionale, esiste veramente? Quali prove abbiamo dell’esistenza dell’anima? Cosa c’è dopo la morte?
L’uomo razionale è scettico riguardo alla possibilità che possa esistere ancora qualcosa quando il cuore del nostro corpo ha cessato di pulsare.
Egli, si badi bene, non è agnostico per partito preso, anzi è sensibile a queste problematiche ultraterrene. E’ una persona di cultura medio-alta alla quale piace discutere di questi argomenti durante le pause delle sue usuali attività quotidiane. Ritiene però di dimostrare la prorpia saggezza con il mantenere sempre un atteggiamento di razionalità scientifica. Per lui è vero solo ciò che può essere scientificamente dimostrato o sperimentalmente verificato.
Ho vissuto personalmente l’esperienza di pre–morte, N.D.E. (Near Death Experience), sigla coniata dallo psichiata Raymond A. Moody.
Lo psichiatra, a seguito di una ricerca effettuata su alcune centinaia di persone dichiarate "clinicamente" morte per brevi periodi (ore o minuti) e ritornate alla vita, ha accertato, grazie ai loro racconti, una sequenza di fasi, analoghe pressoché in tutti i pazienti, che venivano riferite in modo associato o parzialmente o totalmente:
• la separazione dal proprio corpo;
• la capacità di guardarlo dall’esterno, dall’alto (autofania, visione del proprio doppio)
• la sensazione di pace e benessere più assoluti;
• il tunnel, o passaggio;
• l’incontro con esseri sconosciuti, a volte persone care;
• la visione di un "Essere di luce";
• l’esame di tutta la propria vita con particolare riguardo agli aspetti negativi
• la difficoltà a proseguire nel viaggio;
• il desiderio di rimanere;
• il ritorno alla vita con la volontà di approfondire la propria conoscenza e fratellanza
I racconti più sorprendenti, scientificamente parlando, riguardavano i riferimenti al soccorso medico cui, loro stessi, avevano assistito mentre si trovavano "fuori dal proprio corpo" pur essendo questo, adagiato in un letto d’ospedale.

Nel mio caso l’esperienza avvenne in occasione di un intervento chirurgico, cui fui sottoposto in anestesia totale all’età di ventuno anni. Durante l’intervento qualcosa non andò secondo le previsioni e sentii le voci di chirurgo ed anestesista dialogare in modo serrato e con tono di seria tensione. La palpebra mi venne sollevata più volte in questa fase concitata.
D’un tratto mi ritrovai fuori dal mio corpo, all’altezza del soffitto della stanza, e da lì osservavo, con un certo interesse, me stesso e cosa mi stessero facendo, con uno stato d’animo non di preoccupazione ma di semplice curiosità. Mi accorsi di non avere peso e percepivo che la mia individualità aveva una dimensione inferiore a quella del corpo che avevo abbandonato ed una forma diversa , come fosse una testa con qualcosa dietro. Mi sentivo straordinariamente felice, come mai ero stato, e cominciai a guardarmi intorno e vidi un’apertura in una parete della stanza , forse il sopraluce dischiuso di una porta, e decisi di andarmene perché quello che avveniva nella stanza ormai mi annoiava ed io provavo un grande desiderio di esplorare il luogo dove mi trovavo. Avevo appena iniziato il mio percorso di uscita quando sentii turbinare un violento risucchio, come un gorgo di un lavandino cui si sia tolto il tappo. Quasi istantaneamente mi ritrovai, con un certo disappunto, nuovamente all’interno del mio corpo. La mia esperienza era terminata quindi alla quarta fase delle dieci elencate dal Dott. Moody. Appena mi fu possibile chiesi al mio chirurgo se c’era stato qualche imprevisto durante l’intervento, accennando genericamente ad una sensazione che avevo avvertito, ma la risposta fu negativa.
Sono consapevole che la mia esperienza non costituisce una prova che quanto ho avvertito sia realmente accaduto e sono anche consapevole che un critico razionalista potrebbe imputare le mie sensazioni all’effetto delle sostanze anestetiche.
Ma io stesso ho affermato che in questo settore border-line non possono esserci prove ma indizi e nel mio caso gli indizi sono perfettamente allineati con le affermazioni della religione in cui credo ed inoltre l’esperienza vissuta mi ha fatto percepire la morte come evento di gioia e non di dolore.