mercoledì 28 marzo 2012

Tzav

(Le.6,1-8,36)

Anche questa parashà, come la precedente, tratta dei sacrifici che si compiono al Santuario. La differenza consiste nel fatto che Vaikrà è indirizzata all’offerente, mentre nella parashà di Tzav si tratta degli ordini rivolti ai sacerdoti.

La narrazione della parashà inizia con Il Signore che impartisce a Mosè la legge dell’olà, cioè dell’olocausto, del tutto bruciato. L’olocausto potrà ardere sull’altare dei sacrifici per tutta la notte fino al mattino, quando il sacerdote, indossati gli abiti di lino, provvederà a raccoglierne la cenere presso l’altare, per portarla poi, indossati altri abiti, fuori dall’accampamento in un luogo puro. Il fuoco dell’altare non dovrà spegnersi mai.

Molteplici quindi potranno essere le specie di sacrificio, diversi i motivi per cui esso si presenta, diverse le modalità con cui si offre, ma una cosa deve essere costante e immutabile, ed è il fuoco dell'altare su cui il sacrificio deve presentarsi. L’insegnamento personale sotteso da questa prescrizione è che diversi possono essere i nostri sentimenti, diverse le vie o i motivi che ci spingono a ricercare l’avvicinamento al Signore, ma la disposizione dell'animo deve essere sempre uguale.

Ripetutamente la Torà ci mostra il fuoco come l’elemento che avvolge la presenza del Signore o dei suoi messaggeri; in un fuoco appare il Signore a Mosè sul roveto; in un fuoco racchiuso in una nube Egli scende sul Sinai; in un fuoco si posa sul Santuario quando esso è inaugurato. Questo fuoco è anche quello che arde in noi quando ci sentiamo attratti verso il Signore e proviamo il desiderio di compiere il bene e amare i nostri simili. Sarà questo il fuoco che dovremo rinnovare ogni giorno della nostra vita a partire dal nostro risveglio quando ringraziamo il Signore per averci restituito la nostra anima, ancora una volta rinnovata e purificata.

Prosegue la parashà con il dettare la legge per l’offerta farinacea, della quale una parte sarà bruciata sull’altare, mentre ciò che resta sarà destinato al sostentamento di Aron ed i suoi figli. Ogni figlio maschio di Aron potrà mangiarla sotto forma di pani azzimi in un luogo sacro.

I sacerdoti presenteranno al Signore un’offerta farinacea che verrà interamente arsa. L’offerta sarà presentata quotidianamente dal Sommo Sacerdote mentre la presentazione da parte degli altri sacerdoti avverrà nel giorno della loro unzione. Faranno inoltre i sacerdoti il sacrificio di chattat, di espiazione, scannando l’offerta animale nello stesso luogo in cui viene scannato l’olocausto e il sacerdote che presenta il chattat ha diritto di precedenza nel mangiarne la carne, poi la carne viene divisa tra tutti i sacerdoti che sono di turno al Santuario nel giorno della presentazione del sacrificio.

Il sacrificio di asciam verrà compiuto scannando l’animale e spargendone il sangue intorno all’altare. Il grasso. La coda i due reni e la membrana del fegato saranno interamente arsi sull’altare. Il rimanente potrà essere mangiato dai sacerdoti di turno. L’asciam, che è come il chattat e ne segue le medesime leggi, appartiene al sacerdote che compie l’espiazione.

Le pelli degli animali offerti in olocausto restano di appartenenza dei sacerdoti che effettuano i sacrifici e dei sacerdoti di turno.

Per queste mitzvot l’ordine viene dato usando il verbo zav, cioè di comandare ai Coanim di fare una certa cosa in un certo modo. I Coanim eseguiranno quindi perché comandati e non per libera adesione e perciò con l’umiltà derivante dalla sottomissione al comando del Signore. I Coanim perciò sono privilegiati in mezzo al popolo d’Israele, ma devono essere consapevoli del fatto che il loro privilegio è rigorosamente finalizzato alla celebrazione del culto Divino. Il sacerdote è garante della continuità del servizio del Santuario ed affinché non insuperbisca per l’avere indossato le vesti sacerdotali, deve svolgere come primo compito un lavoro umile e cioè rimuovere dall’altare la cenere del giorno precedente. L’insegnamento è rivolto a tutti noi affinché non sia l’esteriorità a nutrire la nostra religiosità, ma le azioni, anche se costano sacrificio, così come rimuovere la cenere costa al sacerdote la perdita del candore delle sue vesti.

E questa è la legge del sacrificio cruento di shelamim che si presenti al Signore. Se qualcuno lo presenterà come rendimento di grazie presenterà oltre al sacrificio cruento di ringraziamento pani azzimi intrisi nell’olio e pani azzimi di forma allungata unti con l’olio e fior di farina ammollita in olio bollente, cotto in pani intrisi nell’olio. Insieme con pani lievitati presenterà il suo sacrificio, oltre al sacrificio di shelamim di ringraziamento.” (Le.7,11-7,13)

Shelamim sono le offerte di pacificazione, cioè offerte di animali compiute volontariamente. La radice verbale che dà il nome all’offerta viene dalla parola shalom, pace. Una parte dell’offerta viene arsa sull’altare e la rimanente viene consumata dal Sacerdote e dall’offerente. Si realizza così l’armonica pacificazione tra la Divinità e celebrante e offerente. Ma il termine shelamim viene però anche dalla radice shallem, integro, perché l’offerente non intende espiare una trasgressione, bensì vuole perfezionarsi e rendere partecipe il Signore ed il prossimo della propria gioia.

Nella categoria dei shelamim rientra l’offerta di ringraziamento korban todà. I Saggi hanno individuato quattro categorie di persone che sono tenute a presentare un korban todà: colui che è sopravvissuto ad un viaggio nel deserto (o ad un viaggio pericoloso), alla prigione, ad una malattia grave o ad un viaggio per mare. L’importanza di questa offerta e la sua attualità derivano dal fatto che il Midrash (Vaikrà Rabbà 9:7) sostiene che in futuro non ci sarà più bisogno di offerte espiatorie perché Israele non peccherà più. Continueranno però ad essere presentate offerte di ringraziamento. Le offerte di ringraziamento sono quindi il cardine del servizio del prossimo Santuario e lo studio delle loro regole è un’importante occasione di preparazione per il futuro oltre che di riparazione per il presente.

I Maestri hanno approfondito il concetto di ringraziamento rammentando che fu Leà la prima a ringraziare il Signore e lo fece in occasione della nascita del suo quarto figlio, cui fu posto il nome di Jeudà. Il nome Jeudà è formato da cinque lettere. Quattro sono le lettere del nome del Signore, più la lettera dalet (valore numerico quattro) che secondo i Maestri esprime i quattro punti cardinali e quindi tutta la terra. Jeudà è colui che porterà il dominio di D-o su tutti punti cardinali poiché da lui discenderà il Messia. Sembra quindi che ringraziare sia un operazione da compiersi quando riceviamo qualche cosa in più rispetto a ciò che speravamo o riteniamo di aver meritato.

La penultima benedizione della Amidà, che oggi sostituisce il sacrificio quotidiano, è la benedizione di modim (noi ti ringraziamo). Essa è l’unica per la quale l’officiante non può essere delegato dal pubblico: i Maestri hanno stabilito che mentre lo shaliach zibbur pronuncia tale benedizione il pubblico reciti il modim derabbanan, un apposita formula di ringraziamento. Questo perché il ringraziamento deve necessariamente essere personale.

Quando noi sapremo ringraziare il Signore quotidianamente, perché avremo compreso che tutto quello che Egli fa è solo bene allora apriremo le porte al mondo futuro. In questo senso il dominio del Signore e persino il Suo Nome non sono completi fino a che non ci sarà la redenzione finale. La redenzione, le cui radici si individuano nella nascita di Jeudà, progenitore del Re Messia, nasce da un atto di umiltà. Nasce dal fatto che Leà insegna a ringraziare.

giovedì 22 marzo 2012

Vaikrà

(Le.1,1-5,26)

E chiamò, con queste parole inizia il terzo libro della Torà, il Levitico. Il libro è formato da una sequenza di gruppi di capitoli che trattano argomenti che sono in successione logica coordinata e che in gran parte interessano i sacerdoti appartenenti alla tribù di Levi. I capitoli da uno sette trattano dei vari tipi di sacrifici che sono l’olocausto, il sacrificio incruento o oblazione, il sacrificio pacifico o di contentezza, il sacrificio di espiazione, il sacrificio di riparazione. I capitoli da otto a dieci riguardano l’inizio del culto e quindi la consacrazione degli arredi sacri, dell’altare e dei sacerdoti e narrano anche dei primi sacrifici e dell’errore commesso da Nadab e Abiu, figli di Aron, nell’offerta dell’incenso. I capitoli da undici a quindici trattano delle leggi della purità sia degli animali, sia delle azioni e di alcuni stati particolari della vita e danno le norme per la purificazione e la riammissione al cerimoniale di culto della comunità. Il capitolo sedici è dedicato al rituale del giorno dell’espiazione, mentre i capitoli da diciassette a ventisei trattano della legge di santità che contengono prescrizioni riguardanti il Santuario, prescrizioni morali, prescrizioni rituali in gran parte riguardanti i sacerdoti e poi prescrizioni liturgiche con le date delle feste religiose. Il capitolo ventisette infine reca prescrizioni riguardanti i voti e indica la misura delle tariffe e dei riscatti.

La parashà dunque compie l’elencazione e la descrizione dei vari tipi di sacrifici da presentarsi al Santuario, che potevano essere di olocausto e quindi consistenti in animali da ardersi completamente in offerta al Signore, ovvero di oblazione, che erano non cruenti e di tipo farinaceo dei quali una parte veniva arsa in offerta al Signore e la rimanente era di appartenenza di Aron e dei suoi figli.
Il sacrificio pacifico o di contentezza consisteva nell’ardere in offerta al Signore il grasso, la coda, le interiora, i reni, la rete del fegato. Mentre il sacrificio di espiazione per una mancanza commessa inavvertitamente avveniva, come per il sacrificio di contentezza, con l’arsura del grasso e delle altre parti , ma in più prevedeva l’arsura del resto della carcassa da compiersi in un luogo puro fuori dal campo. C’era infine il sacrificio di riparazione o di pentimento per essersi contaminati con impurità o per aver contravvenuto ad un giuramento o aver defraudato il prossimo o aver commesso una rapina, che poteva essere cruento, di aspersione del sangue intorno all’altare dei sacrifici o non cruento, come per l’oblazione, a seconda del tipo di peccato commesso.

La parola korban è usualmente tradotta in italiano con il termine “sacrificio”, che esprime l’atto con il quale ci priviamo di qualcosa e sottintende la sofferenza che questa azione provoca all’offerente. Analogamente il termine usato in italiano per tradurre la parola teshuvà è “pentimento”, e anche questo termine sottintende la sofferenza per avere avuto comportamenti ora giudicati, con il senno di poi, non più condivisibil . Ora è bene puntualizzare che i concetti di “sacrificio” e “pentimento” sono estranei allo spirito della Torà.

Korban e Teshuvà esprimono invece rispettivamente il desiderio di riavvicinamento ed il ritorno al Signore. I due termini pertanto non assumono una connotazione negativa che si prefigga di umiliare l’individuo ed i suoi comportamenti per rimarcarne la pochezza rispetto alla grandezza del Signore, bensì si propongono in modo positivo di esaltare l’aspirazione ed il ritorno dell’essere umano all’essenza divina da quale egli proviene.

Resta da comprendere la funzione del Korban , che è l’atto materiale e concreto con il quale l’offerente manifesta il suo desiderio e la sua volontà di ritorno alla santità. Ci si può chiedere per quale motivo questo atto materiale sia ritenuto necessario e perché non sia invece giudicato sufficiente l’intimo convincimento e desiderio di ritorno ad una condizione di condivisione della santità.

Segnalo al proposito la citazione riportata da Rav Jonathan Pacifici nel suo commento di questa parashà redatto nell’anno 5760. Il Sefer Hachinuch, a cui è caro il principio secondo il quale i cuori vanno appresso alle azioni, spiega che il processo del ritorno al Signore, come ogni altra cosa nella Torà non può rimanere fondato solamente sul piano delle idee perché queste come tali sono volatili: solo l’azione riesce ad incidere nel cuore dell’uomo quale sia la retta via.

Sempre il Sefer Hachinuch spiega che il corpo dell’essere umano e quello degli animali sono in pratica equivalenti e che è la ragione che distingue l’essere umano dall’animale:

…siccome il corpo dell’essere umano esce dalla categoria della ragione nel momento della trasgressione, egli deve sapere che entra in quel momento nella categoria degli animali … e per questo è stato comandato di prendere un pezzo di carne come lui e di portarlo nel luogo scelto per l’elevazione della ragione e cancellare il suo ricordo … affinché disegni nel suo cuore con forza che la sua questione di un corpo senza ragione è cancellata ed annullata completamente, e gioisca nella sua parte di anima raziocinante che gli ha concesso e che essa esiste per sempre.

Il Sefer Hachinuch afferma la coincidenza dell’anima umana con la capacità di discernimento. In particolare la volontà umana razon assume rilevanza nell’ambito delle Karbanot in quanto tendente al conseguimento della pacificazione. Con questo passaggio quindi il Korban diviene lo strumento di pacificazione tra l’uomo e il Signore.

lunedì 12 marzo 2012

Pekudè

(Es.38,21-40,38)

Questa parashà inizia con il resoconto delle quantità di oro, argento e rame impiegate nella realizzazione delle opere per il Santuario e prosegue poi con l’elencazione del vestiario sacerdotale confezionato ivi compreso il dorsale ed il pettorale con i loro castoni di pietre dure e preziose.

Erano stati impiegati in tutto ventinove kiccar e settecento trenta sicli, calcolati secondo il siclo del Santuario, per le opere in oro, vale a dire, poiché un kiccar corrispondeva a tremila sicli e il siclo del Santuario pesava circa dieci grammi, che l’oro impiegato era in totale pari a oltre ottocentosettantasette chilogrammi.

Il peso dell’argento utilizzato ammontava a complessivi cento kiccar e millesettecentosettantacinque sicli, vale a dire oltre tremila chilogrammi e per questo quantitativo venne impiegato la disponibilità proveniente dal riscatto dei primogeniti. Il peso del rame fu di settanta kiccar e duemilaquattrocento sicli, pari a oltre duemiacento chilogrammi.

I figli d’Israele presentarono a Mosè le opere realizzate ed egli constatò che queste erano state realizzate così come erano state ordinate:

Esattamente come il Signore aveva comandato a Mosè, così i figli d’Israele eseguirono tutto il lavoro. Mosè esaminò tutto il lavoro e constatò che essi l’avevano eseguito precisamente secondo quanto il Signore aveva ordinato; quindi Mosè li benedisse.

Il Signore disse a Mosè che l’erezione del Tabernacolo, utilizzando tutti i materiali già preparati nonché l’unzione di Aron e dei suoi figli sarebbe avvenuta nel primo giorno del primo mese dell’anno secondo dall’uscita dall’Egitto. Così avvenne e nel giorno indicato dal Signore furono collocate le basi, tirate su le colonne ed eretto il Tabernacolo.

Mosè collocò le tavole della Testimonianza nell’Arca e posizionò su di essa il coperchio e quindi l’Arca fu introdotta nel Tabernacolo, nel Santo dei Santi oltre la tenda della Testimonianza. Tutto fu collocato: la tavola con i pani di presentazione, il candelabro, l’altare dei profumi e fuori, davanti all’ingresso del Tabernacolo, l’altare degli olocausti e la conca delle abluzioni dove Mosè, Aron e i suoi figli si lavarono le mani e i piedi. Fu recintato il cortile e disposta la tenda d’ingresso:
Quando tutto fu terminato discese la nube divina:

Allora la nube avviluppò la tenda della radunanza e la maestà divina riempì il tabernacolo. Mosè non poté penetrare nella tenda della radunanza, perché la nube posava su di essa e la maestà divina riempiva il Tabernacolo. Quando la nube si ritirava da sopra il Tabernacolo, i figli d’Israele si spostavano da un luogo all’altro. Ma quando la nube non si ritirava, essi non si muovevano fino al momento in cui la nube si dipartisse. Poiché la nube divina era sul Tabernacolo di Giorno, e durante la notte vi era in essa fuoco agli occhi di tutta la casa d’Israele durante tutti i loro viaggi.

Termina qui il libro dell’Esodo, con il perdono quindi del Signore per il Suo popolo, che si era macchiato del più grave peccato contro cui era stato sempre ammonito: l’idolatria, manifestatasi in questo caso con l’adorazione del vitello d’oro. Termina però il libro con una prova superata dal popolo: la costruzione del Santuario che offre al Signore, perché con il Signore ha stretto un patto. E il Signore, constatato che i figli d’Israele hanno edificato il Santuario, rispettando tutte le mitzvòt costituite dalle minuziose prescrizioni che Egli ha impartito, la prima delle quali è il rispetto dello Shabbat, scende tra loro manifestando la Sua maestà per assisterli nel loro viaggio.

L’essere umano quindi, creatura facile alla dimenticanza, riuscirà ad accogliere il Signore dentro di sé ed ottenerne la guida solamente se riuscirà a costruire anch’egli, nella sua individualità, il Santuario da dedicare al Signore. In questo riuscirà eseguendo tutte le mitzvòt prescritte per regolare la sua vita, prima e fondamentale delle quali è l’osservanza dello Shabbat quale giorno di cessazione dalle attività umane e da dedicare allo studio, alla preghiera ed all’amore per il Signore. Questa disciplina di vita potrà apparire impegnativa e gravosa, e lo è sicuramente, ma è l’unico modo per impedire che l’essere umano, sia pure intimamente convinto della fedeltà al Signore, si smarrisca progressivamente perdendo ogni giorno un pezzo di questa fedeltà.

Vaiakel

(Es.35,1-38,20)

Esaurita la fase di progettazione del Santuario, siamo arrivati ora alla realizzazione dell’opera. Mosè chiamò a raccolta i figli d’Israele e per prima cosa riferì il comandamento del Signore relativo al rispetto del Sabato:

Ecco le cose che il Signore ha comandato di fare. Per sei giorni si lavorerà, ma il settimo giorno sarà per voi giorno di riposo assoluto, Sabato consacrato al Signore; chiunque faccia qualche lavoro in questo giorno, sarà fatto morire. Non accenderete fuoco in tutte le vostre dimore nel giorno di Sabato.

Il fatto che questo comandamento venga enunciato per primo non è frutto di casualità, ma serve per affermare il principio che il Sabato è stato la finalità della creazione, ricordiamoci che dopo aver creato l’uomo nel sesto giorno il Signore si riposò e benedisse e santificò il settimo giorno. Lo Shabbat è la principessa, la sposa che accogliamo il venerdì sera con il canto del Lechà Dodì:

Andate, andiamo incontro allo Shabbat, che è fonte di benedizione, dall’inizio dei tempi fu consacrato, fine della Creazione, ma presente nel pensiero fin dall’inizio.

La costruzione del Santuario avrebbe dovuto avvenire quindi rispettando come prima cosa la mitzvà dello Shabbat, perché il rispetto dello Shabbat doveva essere mitzvà dominante anche rispetto alla necessità di realizzare il luogo dove il Signore si sarebe manifestato al Gran Sacerdote. E se lo Shabbat viene rispettato allora può realizzarsi il Santuario, se invece lo Shabbat non sarà rispettato non ci sarà costruzione del Santuario per il Popolo d’Israele. Se l’ebreo non rispetta lo Shabbat non ci sarà santificazione per lui.

Mosè riferì quindi che tutti avrebbero dovuto fare un’offerta al Signore in oro, argento, rame, ma anche lana azzurra, porpora, scarlatto, lino e pelo di capra, pelli di montone tinte di rosso, pelli di tachash e legno di acacia e poi olio per l’illuminazione, aromi per l’olio di unzione e incenso, infine pietre d’onice da incastonare nel pettorale e nel dorsale dei paramenti sacri di Aron. Inoltre tutti coloro che avevano capacità tecniche e manuali si avrebbero dovuto presentarsi per contribuire alla realizzazione delle opere del Santuario.

Iniziò Mosè con l’elencare al popolo tutto ciò che era da realizzarsi e quindi il Tabernacolo, l’Arca, la tavola, il candelabro, l’altare dei profumi e quello per gli olocausti, la tenda di ingresso al tabernacolo, e poi ancora la conca, le cortine del cortile con le loro colonne di sostegno e la tenda d’ingresso al cortile. Disse anche dell’olio per l’illuminazione e dell’olio per l’unzione e dei profumi. Infine parlò dei vestiti sacri di cui occorreva provvedere Aron e i suoi figli.

Quando ebbe terminato di parlare, i figli d'Israele accorsero in folla, uomini e donne, recando le offerte di oro, argento e rame e lana azzurra, porpora e scarlatto e lino, pelo di capra e pelli di montone e pelli da tachash. Chi possedeva legname di acacia lo consegnò e tutte le donne che erano abili a lavorare la lana recarono filati di lana, di lino e di pelo di capra. I capi delle tribù recarono le pietre d’onice per il dorsale ed il pettorale.

Disse Mosè al popolo che il Signore aveva designato Betsalel della tribù di Giuda per concepire le opere artistiche in oro, argento e rame, per incastonare le pietre e per intagliare il legno. Betsalel avrebbe anche insegnato ad altri, come aveva fatto con Aholiav della tribù di Dan affinché insieme potessero concepire e portare a termine tutte le opere necessarie, compresi gli arazzi, la tessitura ed il ricamo delle stoffe.

Betsalel con Aholiav e gli altri collaboratori presero le offerte che il popolo aveva portato ed iniziarono a programmarne l’utilizzo, accorgendosi ben presto della loro sovrabbondanza. Di ciò avvisarono Mosè che disse al popolo di cessare dal portare offerte per il Santuario.

Accorse dunque il popolo a portare le sue offerte e qui accorsero tutti, uomini e donne, e questo avvenne dopo la punizione ed il perdono del Signore per l’adorazione del vitello d’oro. Questo fu il riscatto del popolo che portò le sue offerte avendo già ascoltato le parole con le quali Mosè aveva riaffermato il comandamento del rispetto dello Shabbat.

Cominciarono gli artisti e gli artigiani con la costruzione del Tabernacolo e lo portarono a termine con tutte le opere in legno in argento in oro e rame, compresa la tenda interna che separava il Santissimo e la tenda esterna di ingresso al tabernacolo.
Costruì quindi Betsalel l’Arca, corredata dalle stanghe e dal coperchio d’oro sormontato da due cherubini; fece la tavola in legno di acacia, anch’essa ricoperta d’oro e con le sue stanghe per il trasporto; fece il candelabro tutto d’oro e in un sol pezzo; e poi l’altare dei profumi e l’altare dell’olocausto; fece le cortine del cortile e le colonne di sostegno.

Betsalel della tribù di Giuda, intagliatore, ebanista, orefice, ideatore dotato dal Signore del genio necessario a concepire ed eseguire. Oggi a Gerusalemme c’è l’Accademia delle Arti e del Design che porta il suo nome, erede degli artisti ed artigiani che fecero il Santuario e ne curarono la manutenzione.

I Saggi si ispirarono a questa parashà, che comanda l’astensione dai lavori di realizzazione del Santuario nel giorno dello Shabbat, per definire le trentanove categorie di lavori dalle quali occorre astenersi il Sabato.

martedì 6 marzo 2012

Ki Tissà

(Es.30,11-34,35)

Siamo sempre sul monte Sinài e qui il Signore prosegue nell’impartire una serie di disposizioni a Mosè riguardanti gli adempimenti che egli ancora dovrà compiere e che a sua volta dovrà chiedere ai figli d’Israele.

Si comincia con il riscatto che i maschi in età superiore a vent’anni dovranno pagare in occasione del censimento. Pagheranno tutti in misura uguale, ricchi e poveri, e ognuno verserà mezzo siclo d’argento secondo il siclo sacro. La somma raccolta verrà impiegata a servizio della tenda della radunanza.

Dovrà essere fatta una conca di rame per le abluzioni, da collocarsi tra l’altare e la tenda della radunanza. Nella conca Aron e i suoi figli laveranno mani e piedi prima di accostarsi all’altare per officiare o per ardere i sacrifici.

Dovrà prepararsi secondo una precisa ricetta un olio profumato sacro per l’unzione. Con questo olio saranno unti la tenda della radunanza, l’Arca della Testimonianza, la tavola, il candelabro, l’altare dei profumi, l’altare degli olocausti e tutti i loro accessori, nonché la conca, che saranno così consacrati. Verranno unti anche Aron e i suoi figli, anch’essi così consacrati per il ministero sacerdotale.

Saranno presi degli aromi e dell’incenso in parti uguali e con essi verrà realizzato un profumo che poi verrà salato e macinato e la sua polvere verrà mesa davanti alla Testimonianza, nel luogo ove il Signore incontrerà Mosè.

Per realizzare tutte queste cose occorrenti per il Santuario il Signore designò Betsalel della tribù di Giuda, che possedeva l’abilità e l’inventiva necessarie per la lavorazione dei metalli, per l’incisione delle pietre, per l’intaglio del legno. Betsalel sarebbe stato aiutato da Aholiav, della tribù di Dan e da altri uomini dotati di ingegno e abilità.

Infine il Signore disse a Mosè di parlare ai figli d’Israele ricordando loro la necessità di osservare il Sabato, che era e sarà per sempre il segno della loro santificazione.

I figli d’Israele dunque osserveranno il Sabato, celebrandolo di generazione in generazione come patto eterno. Fra Me e i figli d’Israele è un segno perpetuo attestante che in sei giorni il Signore fece il cielo e la terra e che il settimo giorno cessò e si riposò.

Il Signore dette quindi a Mosè le due tavole della Testimonianza:

Ora il Signore dette a Mosè quando ebbe terminato di intrattenersi con lui sul monte Sinai le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra vergate per opera del Signore.

Ma nel frattempo era accaduto che il popolo, non vedendo tornare Mosè e non avendone nessuna notizia cominciò a perdere sempre più la fiducia che in lui riponeva finché si radunò attorno ad Aron ed a lui disse:

Orsù facci un dio che marci alla nostra testa perché di questo Mosè, colui che ci fece uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa ne sia avvenuto.

A questa richiesta Aron non fece una piega, forse per paura, non provò neanche a dissuaderli, e invece disse:

Staccate i pendenti d’oro che sono agli orecchi delle vostre donne, dei vostri figli e delle vostre figlie e portatemeli.

Aron, ricevuto tutto questo oro, lo pose in uno stampo e realizzò un vitello d’oro e il popolo fu contento e disse:

Questo è il tuo dio, o Israele, che ti fece uscire dalla terra d’Egitto.

Aron eresse un altare dinanzi al vitello e proclamò per l’indomani festa solenne:

Domani è festa solenne in onore del Signore.

La mattina seguente furono offerti olocausti e shelamim al vitello d’oro, dopodiché il popolo si mise a mangiare e bere e si abbandonò ai divertimenti più sfrenati.

Il Signore, vedute tutte queste cose, disse a Mosè di scendere da monte perché il popolo si era corrotto e gli confidò il proposito di distruggere questo popolo di dura cervice e di creare invece solamente dalla discendenza di Mosè una grande nazione. Ma Mosè supplicò il Signore di non accendere la sua ira contro quel popolo che Lui aveva prescelto facendolo uscire dall’Egitto:

Ricordati di Abramo, Isacco ed Israele Tuoi servi, ai quali Tu giurasti per Te stesso, dicendo loro: Io renderò la vostra discendenza numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese che ho promesso di darlo alla vostra posterità, essi lo possederanno in perpetuo.

Il Signore allora revocò la condanna che aveva minacciato d’infliggere al Suo popolo.
Mosè cominciò a scendere dal monte portando in mano le due tavole della Testimonianza, scritte da entrambi i lati, con caratteri incisi nella pietra, caratteri scritti dal Signore.

Quando giunto in prossimità dell’accampamento vide il vitello d’oro e le danze sfrenate del suo popolo, Mosè si accese d’ira e gettò in terra le tavole mandandole in pezzi.
Prese poi Mosè il vitello d’oro, ne bruciò le parti in legno e macinò tutta la parte in oro riducendola in polvere. Sparse questa polvere nell’acqua del torrente che discendeva dal monte e la fece bere ai figli d’Israele. Poi Mosè disse ad Aron suo fratello:

Che cosa ti ha fatto questo popolo ché tu l’hai indotto ad una così grave colpa?

Aron rispose dicendo della richiesta che il popolo gli aveva rivolto di fare un dio che li guidasse perché non sapevano cosa fosse accaduto a lui, Mosè, dopo un così lungo periodo di assenza e disse dell’oro che aveva chiesto e di come gli fosse stato consegnato e che egli lo aveva fuso ricavandone il vitello d’oro.
Si fermò Mosè sulla porta dell’accampamento e gridò:

Chi si è mantenuto fedele al Signore, venga presso di me.

Tutti i figli di Levi si raggrupparono presso di lui ed a loro Mosè disse di setacciare tutto l’accampamento e di uccidere tutti i peccatori, fossero anche i propri fratelli, i propri amici, i propri parenti. I figli di Levi eseguirono l’ordine ricevuto e in quel giorno morirono più di tremila uomini del popolo d’Israele. E allora Mosè disse ai Leviti:

Consacratevi da quest’oggi al Signore, poiché ciascuno di voi se ne rese degno, con la punizione inflitta anche al proprio figlio o fratello, e tale attaccamento al Signore merita oggi la benedizione divina.

A questo punto direi che Aron l’ha scampata bella. L’avrà pur fatto per pavidità, però è stato lui ad assecondare la richiesta idolatra del popolo, è stato lui a concepire e realizzare la statua d’oro del vitello, è stato lui a proclamare la festa per il giorno dopo ed a fare sacrifici all’idolo. Mosè l’ha risparmiato mentre ha ordinato l’uccisione di tutti coloro che avevano preso parte al culto idolatra. Aron è probabilmente l’unico primogenito fortunato della Torà. Di fronte a queste cose il nostro spirito razionale deve arrestarsi e prendere nota semplicemente del fatto accaduto e non pretendere di trovare la spiegazione di ogni cosa né tanto meno di sostenere un atteggiamento di critica. E' questo un atto di umiltà che riconosce il nostro limite di comprensione dell'operato del Signore.

Peraltro la severa e feroce punizione inflitta in quest’occasione ai figli d’Israele sarà la prima di una lunga serie di punizioni, di stragi, al termine delle quali per loro effetto e per effetto di tutte le traversie affrontate nel lungo viaggio la torma di sbandati fuoruscita dall’Egitto si sarà trasformata in un popolo con una propria identità e con precise regole religiose e sociali.

Il giorno dopo Mosè si rivolse al popolo dicendo:

Voi avete commesso un grave peccato, perciò salirò dal Signore nella speranza che io possa espiare la vostra colpa.

Salì Mosè e tornò presso il Signore. Implorò il perdono per il popolo, chiedendo altrimenti di pagare con la propria vita l’oltraggio che essi avevano commesso. Ma il Signore rispose dicendo che avrebbe cancellato dal libro della vita i colpevoli e che lui, Mosè, invece tornasse pure al popolo per condurlo alla meta stabilita. Il Signore poi punì il popolo che aveva adorato il vitello.

Ridiscese Mosè all’accampamento e disse al popolo di spogliarsi di tutti gli ornamenti poi prese la sua tenda e la portò fuori dal campo, lontana da esso e la chiamò tenda della radunanza. Ogni volta che Mosè entrava nella tenda in essa discendeva la Maestà divina ed egli parlava con il Signore. Poi Mosè tornava all’accampamento e Giosuè rimaneva di guardia nella tenda.

Aveva chiesto Mosè al Signore che fosse Lui stesso a guidare il Suo popolo nel cammino verso la terra promessa ed il Signore lo rassicurò ed accolse questa sua richiesta. Chiese poi Mosè di poter vedere l’essenza divina, ma il Signore gli rispose che nessun vivente ne avrebbe potuto avere la visione e poi però aggiunse:

C’è un luogo presso di Me, resta là sopra la roccia. Poi quando passerà la Mia gloria, ti nasconderò nella cavità della roccia, ti ricoprirò con la Mia mano, finché Io sia passato. Poi ritirerò la Mia mano e tu Mi vedrai per di dietro, ma la Mia faccia è invisibile.

Disse poi il Signore a Mosè di tagliare due nuove tavole di pietra uguali alla precedenti e di salire l’indomani mattina sul monte. Sul monte il Signore avrebbe scritto sulle tavole le parole, che erano già nelle precedenti, che Mosè aveva spezzato. L’indomani Mosè salì sul monte e qui il Signore gli disse dell’alleanza che si apprestava a concludere con il Suo popolo e delle condizioni che poneva perché l’alleanza permanesse. Egli li avrebbe condotti alla terra stillante latte e miele, ma il Suo popolo non si sarebbe contaminato con l’idolatria praticata dalle popolazioni che in quella terra erano stanziate, anzi ne avrebbe distrutto gli idoli e gli altari e sarebbe rimasto fedele al Signore. Avrebbe osservato il popolo la festa delle azzime, per sette giorni avrebbe mangiato azzime nel mese di Aviv in ricordo dell’uscita dall’Egitto. Le primizie agricole e i primi nati maschi, degli animali sarebbero stati proprietà del Signore e proprietà del Signore sarebbero stati anche i primogeniti maschi del popolo e come tali da riscattare. Lo shabbat sarebbe stato sempre giorno di riposo dedicato al Signore, perché il Signore per sei giorni lavorò alla creazione e il settimo giorno cessò da ogni opera e si riposò creando lo shabbat, finalità ultima della creazione. Sarebbe stata celebrata la festa delle settimane per il raccolto delle primizie e la festa autunnale al termine dei raccolti. Tre volte l’anno i maschi d’Israele sarebbero comparsi davanti al Signore, per le feste di pellegrinaggio: Pesah, Shavuot e Sukkot.

Il Signore quindi disse a Mosè:

Metti per iscritto queste parole, perché precisamente a queste condizioni io concludo un’alleanza con te e con tutto Israele.

Quaranta giorni rimase Mosè sul monte, senza mangiare né bere, e scrisse sulle tavole le parole del patto, i dieci comandamenti. Quando ridiscese dal monte recando le due tavole, Aron e i figli d’Israele videro che la pelle del suo volto risplendeva e non osavano avvicinarsi a lui. Mosè li chiamò e si avvicinarono per primi Aron ed i capi del popolo e ad essi parlò. Si fecero avanti quindi tutti i figli d’Israele e ad essi trasmise gli ordini del Signore. Terminato di parlare con loro Mosè si coprì il volto con un velo e quando si presentava al Signore nella tenda della radunanza lo toglieva e quando usciva fuori dalla tenda lo rimetteva e ripeteva ai figli d’Israele ciò che gli era stato prescritto.

domenica 4 marzo 2012

Purim: assimilazione o isolamento?

Esiste un popolo sparso e diviso tra i popoli, in tutte le province del tuo regno, e le sue leggi sono differenti da quelle di ogni altro popolo e non eseguiscono le leggi del re e al re non giova tollerarlo. Se al re piace si scriva che lo distruggano, e io peserò diecimila talenti d’argento agli amministratori dell’erario da versare nel tesoro del re.” (Ester 3, 8 e 9)

Con queste parole il perfido Haman tenta di ottenere dal re l’editto che ordini la distruzione del popolo ebraico.

Il resto della storia lo conosciamo: la regina Ester, mettendo a rischio la propria vita, intercede presso il re ed ottiene la salvezza del suo popolo e la condanna del perfido Haman.

Ricordiamoci che a Babilonia era stata deportata l’elite del popolo ebraico, quella parte cioè della popolazione che il vincitore aveva giudicata utile perché dotata nelle scienze, nelle arti, nei mestieri. Queste persone si erano quindi bene inserite nella società babilonese, che era una società multietnica in ragione della vastità dell’impero, arrivando a conseguire oltre che una certa agiatezza anche cariche pubbliche. Rammentiamoci anche del giovinetto Daniele che, cresciuto a corte, arriva a ricoprire l’incarico di capo di tutte le province di Babilonia (Dan.2,48).

La Meghillà di Ester ci dice che Haman fu indotto nel suo proposito di distruzione del popolo ebraico dal comportamento irrispettoso di Mardocheo, il quale si era rifiutato di prestargli omaggio inchinandosi davanti a lui. Ma , se andiamo ad analizzare le parole che Haman dice al re, troviamo altre due motivazioni: la prima, che serve a legittimare l’ordine di distruzione che il re avrebbe dovuto emanare, consiste nel fatto che il popolo ebraico non esegue le leggi del re, ma ne ha di proprie differenti; la seconda invece è la motivazione che ha spinto Haman a perseguire il suo perfido proposito ed è la prospettiva del saccheggio dei beni degli ebrei, dal quale egli avrebbe ricavato, oltre la propria fortuna personale, anche i diecimila talenti d’argento da versare alle casse del re.

Le vicende della Meghillà si ripeteranno più volte nella storia del popolo ebraico e delle persecuzioni cui sarà sottoposto. Qui le leggi emanate dal re e che gli ebrei non seguono , detto chiaramente, sono tutte quelle che contravvengono la normativa religiosa e che quindi assumono per l’ebreo la connotazione di idolatria. Idolatria però non è solo adorare altri dei, idolatria è anche contravvenire, ad esempio, alle regole alimentari, che sono espresse dalla Torà, idolatria è lavorare il Sabato, perché anche questo è comando del Signore. Gli altri popoli che vengono a contatto con il popolo ebraico non si spiegano queste diversità e le interpretano come volontà degli ebrei di non avere contatti con loro e di voler costituire come una lobby che cura i propri interessi culturali e di affari, tenendone fuori gli altri, i gojim.

Queste incomprensioni appaiono anacronistiche al giorno d’oggi, in un mondo dove la conoscenza e la comunicazione sono divenute in tutti i campi prerogative largamente accessibili a tutti. Viene da chiedersi se l’incomprensione sia dovuta esclusivamente a preconcetti da parte degli altri popoli o se anche nell’atteggiamento e nei comportamenti degli ebrei verso i gojim ci sia qualcosa che non funziona.

Che la religiosità del buon ebreo sia un fatto molto impegnativo e molto esigente nei suoi stessi confronti è un fatto noto. E’ una delle religioni più ossessive, che regola praticamente tutte le azioni dell’essere umano con una miriade di precetti positivi e negativi. I rituali ebraici risultano poi incomprensibili ai gojim a meno che non siano conoscitori della lingua ebraica nella quale sono celebrati. L’accesso stesso alle Sinagoghe non è semplice, ufficialmente per motivi di sicurezza, ma all’atto pratico è interdetto ai gojim.

Mi chiedo cosa veramente la Torà intenda per popolo ebraico e cosa rappresenti l’Esodo nell’esperienza di ciascun essere umano. Parlo di Esodo perché è in questo libro che nasce l’ebraismo come religione ed è ebreo chi, conosciuta la schiavitù della propria esistenza, intraprende il viaggio della propria vita attraversando le difficoltà e le crisi nel deserto per arrivare a vedere la terra promessa, la finalità della propria esistenza.

La Torà dice che si unirono agli ebrei nel viaggio verso la terra promessa anche degli Egiziani ed anche elementi di altre popolazioni. Peraltro la Torà parla anche di popolazioni che devono essere distrutte, massimamente quelle che occupano la terra di Canaan. Per comprendere esattamente cosa ci ha detto la Torà e non cadere in una interpretazione razzistica occorre tenere a mente che una cosa la Torà focalizza come pericolo mortale e quindi da distruggere: l’idolatria. Sono popoli da combattere quelli che esercitano il culto di falsi dei e sono da non frequentare per il pericolo che la loro idolatria possa contagiare il popolo ebraico. Si manifesta invece accoglienza verso quei soggetti che aderiscono all’ebraismo e ad esso si convertono, accoglienza totale al punto che non è consentito dopo la loro conversione rammentare la loro condizione precedente.

Si dice che l’ebraismo non faccia opera di proselitismo e questa è una realtà pressoché generale. Si dice quindi che l’ebraismo non bussa alle porte altrui per cercare proseliti, ma si dice anche che se qualcuno bussa alla sua porta questa viene aperta. Non mi pare però che questa accoglienza avvenga con ragionevole facilità.

Si ribatte a questa critica sostenendo la necessità di mantenere integre le proprie tradizioni al fine di non smarrire la propria identità. Non mi sembra una risposta centrata, giacché la perdita della propria identità si verifica a mio parere non quando un altro soggetto ne acquisisce una simile alla mia, ma quando io frequentando il mondo esterno, che non ha e non vuole avere la mia identità, la smarrisco.