giovedì 22 marzo 2012

Vaikrà

(Le.1,1-5,26)

E chiamò, con queste parole inizia il terzo libro della Torà, il Levitico. Il libro è formato da una sequenza di gruppi di capitoli che trattano argomenti che sono in successione logica coordinata e che in gran parte interessano i sacerdoti appartenenti alla tribù di Levi. I capitoli da uno sette trattano dei vari tipi di sacrifici che sono l’olocausto, il sacrificio incruento o oblazione, il sacrificio pacifico o di contentezza, il sacrificio di espiazione, il sacrificio di riparazione. I capitoli da otto a dieci riguardano l’inizio del culto e quindi la consacrazione degli arredi sacri, dell’altare e dei sacerdoti e narrano anche dei primi sacrifici e dell’errore commesso da Nadab e Abiu, figli di Aron, nell’offerta dell’incenso. I capitoli da undici a quindici trattano delle leggi della purità sia degli animali, sia delle azioni e di alcuni stati particolari della vita e danno le norme per la purificazione e la riammissione al cerimoniale di culto della comunità. Il capitolo sedici è dedicato al rituale del giorno dell’espiazione, mentre i capitoli da diciassette a ventisei trattano della legge di santità che contengono prescrizioni riguardanti il Santuario, prescrizioni morali, prescrizioni rituali in gran parte riguardanti i sacerdoti e poi prescrizioni liturgiche con le date delle feste religiose. Il capitolo ventisette infine reca prescrizioni riguardanti i voti e indica la misura delle tariffe e dei riscatti.

La parashà dunque compie l’elencazione e la descrizione dei vari tipi di sacrifici da presentarsi al Santuario, che potevano essere di olocausto e quindi consistenti in animali da ardersi completamente in offerta al Signore, ovvero di oblazione, che erano non cruenti e di tipo farinaceo dei quali una parte veniva arsa in offerta al Signore e la rimanente era di appartenenza di Aron e dei suoi figli.
Il sacrificio pacifico o di contentezza consisteva nell’ardere in offerta al Signore il grasso, la coda, le interiora, i reni, la rete del fegato. Mentre il sacrificio di espiazione per una mancanza commessa inavvertitamente avveniva, come per il sacrificio di contentezza, con l’arsura del grasso e delle altre parti , ma in più prevedeva l’arsura del resto della carcassa da compiersi in un luogo puro fuori dal campo. C’era infine il sacrificio di riparazione o di pentimento per essersi contaminati con impurità o per aver contravvenuto ad un giuramento o aver defraudato il prossimo o aver commesso una rapina, che poteva essere cruento, di aspersione del sangue intorno all’altare dei sacrifici o non cruento, come per l’oblazione, a seconda del tipo di peccato commesso.

La parola korban è usualmente tradotta in italiano con il termine “sacrificio”, che esprime l’atto con il quale ci priviamo di qualcosa e sottintende la sofferenza che questa azione provoca all’offerente. Analogamente il termine usato in italiano per tradurre la parola teshuvà è “pentimento”, e anche questo termine sottintende la sofferenza per avere avuto comportamenti ora giudicati, con il senno di poi, non più condivisibil . Ora è bene puntualizzare che i concetti di “sacrificio” e “pentimento” sono estranei allo spirito della Torà.

Korban e Teshuvà esprimono invece rispettivamente il desiderio di riavvicinamento ed il ritorno al Signore. I due termini pertanto non assumono una connotazione negativa che si prefigga di umiliare l’individuo ed i suoi comportamenti per rimarcarne la pochezza rispetto alla grandezza del Signore, bensì si propongono in modo positivo di esaltare l’aspirazione ed il ritorno dell’essere umano all’essenza divina da quale egli proviene.

Resta da comprendere la funzione del Korban , che è l’atto materiale e concreto con il quale l’offerente manifesta il suo desiderio e la sua volontà di ritorno alla santità. Ci si può chiedere per quale motivo questo atto materiale sia ritenuto necessario e perché non sia invece giudicato sufficiente l’intimo convincimento e desiderio di ritorno ad una condizione di condivisione della santità.

Segnalo al proposito la citazione riportata da Rav Jonathan Pacifici nel suo commento di questa parashà redatto nell’anno 5760. Il Sefer Hachinuch, a cui è caro il principio secondo il quale i cuori vanno appresso alle azioni, spiega che il processo del ritorno al Signore, come ogni altra cosa nella Torà non può rimanere fondato solamente sul piano delle idee perché queste come tali sono volatili: solo l’azione riesce ad incidere nel cuore dell’uomo quale sia la retta via.

Sempre il Sefer Hachinuch spiega che il corpo dell’essere umano e quello degli animali sono in pratica equivalenti e che è la ragione che distingue l’essere umano dall’animale:

…siccome il corpo dell’essere umano esce dalla categoria della ragione nel momento della trasgressione, egli deve sapere che entra in quel momento nella categoria degli animali … e per questo è stato comandato di prendere un pezzo di carne come lui e di portarlo nel luogo scelto per l’elevazione della ragione e cancellare il suo ricordo … affinché disegni nel suo cuore con forza che la sua questione di un corpo senza ragione è cancellata ed annullata completamente, e gioisca nella sua parte di anima raziocinante che gli ha concesso e che essa esiste per sempre.

Il Sefer Hachinuch afferma la coincidenza dell’anima umana con la capacità di discernimento. In particolare la volontà umana razon assume rilevanza nell’ambito delle Karbanot in quanto tendente al conseguimento della pacificazione. Con questo passaggio quindi il Korban diviene lo strumento di pacificazione tra l’uomo e il Signore.

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