martedì 25 ottobre 2011

Nòach

(Gen.6,9-11,32)

Questa parashà contiene due episodi per così dire “meravigliosi” della narrazione biblica: il diluvio universale e la torre di Babele.

La storia del diluvio universale appartiene anche a culture diverse dall’ebraica e molti studiosi sono inclini ad ipotizzare che effettivamente possa essere avvenuto in tempi remoti un cataclisma naturale di portata straordinaria e tale da aver severamente minacciato l’esistenza umana.
Anche al giorno d’oggi si verificano purtroppo calamità naturali con inondazioni, piogge torrenziali, maremoti, quelli che abbiamo imparato a chiamare tzunami, che evidenziano la fragilità e l’impotenza degli esseri viventi di fronte alla forza incontrastabile che le acque possono arrivare ad assumere.
Questa consapevolezza di impotenza può avere alimentato la diffusione ed il consolidamento del mito del diluvio universale.
Peraltro la narrazione biblica è una narrazione morale e quindi prospetta il diluvio come la catastrofe che viene scatenata per punire i mali del mondo. Dio infatti disse a Noè:

Ho decretato la fine di tutte le creature, perché per esse la terra è piena di violenza; ed Io le distruggerò con la terra stessa

E’ interessante evidenziare che non è solo per l’essere umano che si decreta la fine, ma per tutte le creature e più avanti si dirà:

Perì ogni creatura che si muoveva sulla terra; i volatili, gli animali domestici e selvatici, i rettili striscianti sulla terra; e tutte le persone

Tutti quindi accomunati dalla violenza della quale avevano riempito la terra. E la riprova che tutti siano colpevoli sta nel fatto che tutti saranno sostituiti perché nell’arca troveranno rifugio, non solo Noè ed i suoi familiari, ma anche gli esemplari animali di tutte le specie:

… di animali selvatici e domestici, tutte le specie di rettili striscianti sulla terra, tutte le varie specie di volatili, tutti gli uccelli, tutti gli animali forniti di ali;

Non ci sono i pesci nell’arca e quindi i pesci esistenti al momento del diluvio sembrerebbero proprio destinati a sopravvivere.

Il diluvio, questo gigantesco mikveh purifica tutto e da esso emergono i sopravvissuti mondati da colpe per ricominciare una nuova vita.

L’arcobaleno, qeshet, creato dal Signore, come un ponte scintillante di luce tra Lui e la terra è il segno tangibile del patto che Egli ha stretto con la terra:

Pongo nelle nuvole il mio arco che sarà il segno del patto tra me e le terra. Quando farò addensare le nubi sopra la terra, si vedrà l’arcobaleno nelle nubi; ed Io ricorderò il mio patto tra Me, voi ed ogni essere vivente, ogni creatura, né più le acque produrranno un diluvio per distruggere tutte le creature. L’arcobaleno sarà nelle nuvole, ed Io lo vedrò per ricordare il patto perpetuo esistente tra Dio e tutti gli esseri viventi, fra tutte le creature esistenti sulla terra.

Dio disse a Noè:

Questo è il segno del patto che fermo fra Me e tutte le creature esistenti sulla terra.

Per quello che riguarda la torre di Babele, al capitolo 10 si dice della discendenza di Noè ed in particolare dei figli di Jèfeth:

… si diramarono nelle loro terre le nazioni d’oltremare aventi ciascuna la propria lingua, diverse per famiglie nelle varie nazioni.

E più avanti:

Questi sono i figli di Cham per famiglie e linguaggi, nei loro paesi, nelle rispettive nazioni.

E ancora:

Questi sono i figli di Scem per famiglie e linguaggi, nei loro paesi, nelle rispettive nazioni.

Esisteva quindi, secondo il capitolo 10, una pluralità di linguaggi ma questo viene contraddetto al successivo capitolo 11 dove si dice:

In tutta la terra si parlava una lingua unica e si usavano le stesse espressioni.

Gli esperti biblisti dicono che la contraddizione va intesa come apparente, che la successione dei capitoli è stata fissata dopo molto tempo da quando furono scritti e che il loro ordine di successione può interpretarsi in senso inverso.
Oppure può intendersi che la narrazione della torre di Babele ci spiega nella sua sequenza come si sia arrivati al pluralismo linguistico.

Gli uomini, arrivati nella pianura di Scin’ar, si dicono:

Orsù fabbrichiamoci dei mattoni e facciamoli cuocere.

E dopo:

Orsù fabbrichiamoci una città e una torre la cui cima arrivi fino al cielo; ci faremo un nome e non accadrà che ci sparpagliamo sulla faccia di tutta la terra.

A questo punto il Signore scese a vedere cosa stavano facendo e disse:

Sono un popolo solo, parlano tutti la stesa lingua e hanno cominciato a fare questo! Niente impedirà loro di fare tutto ciò che proporranno. Orsù scendiamo e confondiamo la loro lingua, si ché uno non comprenda quel che dice l’altro.

Il Signore li disperse su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di fabbricare la città, alla quale fu dato il nome di Bavel (Babele), perché la il Signore confuse la lingua di tutta la terra.

Ci chiediamo quale sia stata la colpa dei costruttori di Babele, sempre che la molteplicità delle lingue e la dispersione siano da intendersi come provvedimenti punitivi.
Una corrente di pensiero infatti non attribuisce a questi due elementi i connotati di punizione impartita dal Signore ai costruttori, bensì quelli di una scelta operata dal Signore per conseguire la molteplicità della popolazione del mondo.
Volendo invece cogliere nelle parole del Signore la volontà punitiva è necessario individuare la colpa.
La colpa non è fare i mattoni, la colpa non è neanche costruire la città, anche se qui si comincia a vedere un’intenzione di accorpamento che in un certo senso contravviene al dettato del Signore, che invece comanda l’espansione:

Prolificate e moltiplicatevi ed empite la terra.

Neanche la costruzione della torre è di per sé la colpa, giacché la costruzione della torre potrebbe mirare a conseguire un avvicinamento al Signore, cosa di per sé naturale ed anzi lodevole da parte di una creatura nei confronti del suo creatore.

Se invece la torre ha lo scopo di dominare dall’alto la terra e chi è rimasto in basso, alimentando la propria autorità e la propria potenza sicché essi possano dire:

… ci faremo un nome e non accadrà che ci sparpaglino sulla faccia di tutta la terra.

In questo caso la torre rivela l’ambizione non già di avvicinarsi al Signore, ma di competere con Lui e la costruzione diventa così la colpa dei suoi costruttori, idolatria ancora una volta, perché espressione del culto non verso il Signore, ma verso la potenza umana.
Per questo motivo i costruttori sono stati confusi e dispersi.

Nòach

(Gen.6,9-11,32)

Questa parashà contiene due episodi per così dire “meravigliosi” della narrazione biblica: il diluvio universale e la torre di Babele.

La storia del diluvio universale appartiene anche a culture diverse dall’ebraica e molti studiosi sono inclini ad ipotizzare che effettivamente possa essere avvenuto in tempi remoti un cataclisma naturale di portata straordinaria e tale da aver severamente minacciato l’esistenza umana.
Anche al giorno d’oggi si verificano purtroppo calamità naturali con inondazioni, piogge torrenziali, maremoti, quelli che abbiamo imparato a chiamare tzunami, che evidenziano la fragilità e l’impotenza degli esseri viventi di fronte alla forza incontrastabile che le acque possono arrivare ad assumere.
Questa consapevolezza di impotenza può avere alimentato la diffusione ed il consolidamento del mito del diluvio universale.
Peraltro la narrazione biblica è una narrazione morale e quindi prospetta il diluvio come la catastrofe che viene scatenata per punire i mali del mondo. Dio infatti disse a Noè:

Ho decretato la fine di tutte le creature, perché per esse la terra è piena di violenza; ed Io le distruggerò con la terra stessa

E’ interessante evidenziare che non è solo per l’essere umano che si decreta la fine, ma per tutte le creature e più avanti si dirà:

Perì ogni creatura che si muoveva sulla terra; i volatili, gli animali domestici e selvatici, i rettili striscianti sulla terra; e tutte le persone

Tutti quindi accomunati dalla violenza della quale avevano riempito la terra. E la riprova che tutti siano colpevoli sta nel fatto che tutti saranno sostituiti perché nell’arca troveranno rifugio, non solo Noè ed i suoi familiari, ma anche gli esemplari animali di tutte le specie:

“… di animali selvatici e domestici, tutte le specie di rettili striscianti sulla terra, tutte le varie specie di volatili, tutti gli uccelli, tutti gli animali forniti di ali;”

Non ci sono i pesci nell’arca e quindi i pesci esistenti al momento del diluvio sembrerebbero proprio destinati a sopravvivere.

Il diluvio, questo gigantesco mikveh purifica tutto e da esso emergono i sopravvissuti mondati da colpe per ricominciare una nuova vita.

L’arcobaleno, qeshet, creato dal Signore, come un ponte scintillante di luce tra Lui e la terra è il segno tangibile del patto che Egli ha stretto con la terra:

“Pongo nelle nuvole il mio arco che sarà il segno del patto tra me e le terra. Quando farò addensare le nubi sopra la terra, si vedrà l’arcobaleno nelle nubi; ed Io ricorderò il mio patto tra Me, voi ed ogni essere vivente, ogni creatura, né più le acque produrranno un diluvio per distruggere tutte le creature. L’arcobaleno sarà nelle nuvole, ed Io lo vedrò per ricordare il patto perpetuo esistente tra Dio e tutti gli esseri viventi, fra tutte le creature esistenti sulla terra.”

Dio disse a Noè:

“Questo è il segno del patto che fermo fra Me e tutte le creature esistenti sulla terra.”

Per quello che riguarda la torre di Babele, al capitolo 10 si dice della discendenza di Noè ed in particolare dei figli di Jèfeth:

“… si diramarono nelle loro terre le nazioni d’oltremare aventi ciascuna la propria lingua, diverse per famiglie nelle varie nazioni.”

E più avanti:

“Questi sono i figli di Cham per famiglie e linguaggi, nei loro paesi, nelle rispettive nazioni.”

E ancora:

“Questi sono i figli di Scem per famiglie e linguaggi, nei loro paesi, nelle rispettive nazioni.”

Esisteva quindi, secondo il capitolo 10, una pluralità di linguaggi ma questo viene contraddetto al successivo capitolo 11 dover si dice:

“In tutta la terra si parlava una lingua unica e si usavano le stesse espressioni.”

Gli esperti bibliofili dicono che la contraddizione va intesa come apparente, che la successione dei capitoli è stata fissata dopo molto tempo da quando furono scritti e che il loro ordine di successione può interpretarsi in senso inverso.
Oppure può intendersi che la narrazione della torre di Babele ci spiega nella sua sequenza come si sia arrivati al pluralismo linguistico.

Gli uomini, arrivati nella pianura di Scin’ar, si dicono:

“Orsù fabbrichiamoci dei mattoni e facciamoli cuocere.”

E dopo:

“Orsù fabbrichiamoci una città e una torre la cui cima arrivi fino al cielo; ci faremo un nome e non accadrà che ci sparpagliamo sulla faccia di tutta la terra.”

A questo punto il Signore scese a vedere cosa stavano facendo e disse:

“Sono un popolo solo, parlano tutti la stesa lingua e hanno cominciato a fare questo! Niente impedirà loro di fare tutto ciò che proporranno. Orsù scendiamo e confondiamo la loro lingua, si ché uno non comprenda quel che dice l’altro.”

Il Signore li disperse su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di fabbricare la città, alla quale fu dato il nome di Bavel (Babele), perché la il Signore confuse la lingua di tutta la terra.

Ci chiediamo quale sia stata la colpa dei costruttori di Babele, sempre che la molteplicità delle lingue e la dispersione siano da intendersi come provvedimenti punitivi.
Una corrente di pensiero infatti non attribuisce a questi due elementi i connotati di punizione impartita dal Signore ai costruttori, bensì quelli di una scelta operata dal Signore per conseguire la molteplicità della popolazione del mondo.
Volendo invece cogliere nelle parole del Signore la volontà punitiva è necessario individuare la colpa.
La colpa non è fare i mattoni, la colpa non è neanche costruire la città, anche se qui si comincia a vedere un’intenzione di accorpamento che in un certo senso contravviene al dettato del Signore, che invece comanda l’espansione:

“Prolificate e moltiplicatevi ed empite la terra.”

Neanche la costruzione della torre è di per sé la colpa, giacché la costruzione della torre potrebbe mirare a conseguire un avvicinamento al Signore, cosa di per sé naturale ed anzi lodevole da parte di una creatura nei confronti del suo creatore.

Se invece la torre ha lo scopo di dominare dall’alto la terra e chi è rimasto in basso, alimentando la propria autorità e la propria potenza sicché essi possano dire:

“ … ci faremo un nome e non accadrà che ci sparpaglino sulla faccia di tutta la terra. “

In questo caso la torre rivela l’ambizione non già di avvicinarsi al Signore, ma di competere con Lui e la costruzione diventa così la colpa dei suoi costruttori, idolatria ancora una volta, perché espressione del culto non verso il Signore, ma verso la potenza umana.
Per questo motivo i costruttori sono stati confusi e dispersi.

giovedì 20 ottobre 2011

Berescith, i giorni della creazione

(Gen. 1,1 – 2,3)
Questa parashà dà inizio al nuovo ciclo annuale di lettura della Toràh, e viene letta in occasione della festività di Simchat Toràh. Nel primo capitolo si narra dei primi sei giorni della creazione, che si dice avvenne in questa sequenza:

1° Giorno - Sulla terra sterminata, vuota e immersa nelle tenebre Dio disse: Sia luce e luce fu. Egli vide che era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò giorno la luce e notte le tenebre.

2° Giorno - Dio disse: Sia una distesa in mezzo alle acque che separi le une dalle altre. Le acque furono separate e Dio chiamò cielo le acque al di sopra della distesa.

3° Giorno – Dio disse: Si riuniscano le acque che sono al di sotto del cielo in un sol luogo sì che apparisca l’asciutto. Così fu e Dio chiamò l’asciutto terra e mari l’ammasso delle acque. Dio vide che era cosa buona e disse: La terra produca germogli, erbe che facciano seme, alberi da frutto che diano frutti ciascuno della propria specie, contenenti il loro seme, sulla terra. Così fu e Dio vide che era cosa buona.

4° Giorno – Dio disse: Siano luminari nella distesa del cielo per far distinzione tra il giorno e la notte; siano anche indici per le stagioni, per i giorni e per gli anni. Funzionino come luminari nella distesa del cielo per far luce sulla terra. E così fu.

5° Giorno – Dio disse: Brulichino le acque di un brulicame di esseri viventi; volatili volino sulla terra, sulla superficie della distesa celeste. Ed Egli creò gli esseri viventi che popolano le acque e creò i volatili delle diverse specie. Dio vide che era cosa buona e disse: Prolificate, moltiplicatevi, empite le acque dei mari; il volatile si moltiplichi sulla terra.

6° Giorno – Dio disse: La terra produca esseri viventi di specie varie, animali domestici, rettili e bestie selvatiche di specie diversa. E così fu. Dio fece ogni specie di animali e vide che era cosa buona. Dio disse poi: Facciamo un uomo a immagine nostra, a nostra somiglianza; domini sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sugli animali domestici, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra. Dio creò l’uomo a Sua immagine; lo creò a immagine di Dio; creò maschio e femmina, li benedisse e disse loro: Prolificate, moltiplicatevi, empite la terra e rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare, sui volatili del cielo e su tutti gli animali che si muovono sulla terra. Dio disse: Ecco, Io vi do tutte le erbe che fanno seme, che sono sulla faccia di tutta la terra, tutti gli alberi che danno frutto d’albero producente seme; vi serviranno come cibo. Agli animali tutti della terra, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli striscianti sulla terra che hanno un afflato di vita, tutte le erbe verdi serviranno di cibo. E così fu. Dio vide che tutto quello che aveva fatto era molto buono.

Questo primo capitolo così denso di avvenimenti prodigiosi merita alcune riflessioni prima di procedere oltre nella narrazione. Ogni atto creativo compiuto dal Signore è preannunciato dalle parole: Iddio disse, che non significa semplicemente volle, perché altrimenti così sarebbe stato scritto al posto di questo reiterato disse, ripetuto tante volte affinché anche una dura cervice potesse percepire che la parola è questa e non un’altra. E questo disse è ogni volta seguito da e così fu. Perché è il disse che materializza la creazione, è al disse che segue sempre conseguentemente e così fu.

La parola è lo strumento che attua la volontà creatrice.
Quanto è importante la parola per il popolo ebraico, quanto per il popolo del Libro! La parola e la scrittura, la legge e la tradizione, La Toràh ed il Talmud, L’Aggadah e l’Halachah.

E ogni volta che crea il Signore giudica il risultato e constata che sia cosa buona prima di consentirne la proliferazione, come se il creato, una volta tale si fosse in parte sottratto al totale controllo della volontà creatrice, come se il creato, nel momento della creazione, una volta coagulatosi e separatosi dalla massa indistinta, avesse acquisito un certo grado di autonomia.

Il sesto giorno avviene la creazione dell’uomo, maschio e femmina, l’unico del quale si dice che fu creato ad immagine di Dio. Non poteva essere altrimenti se il Signore desiderava che questa creatura fosse in grado di accostarsi a Lui. Tutti i requisiti che l’essere umano possiede risiedono nel Signore, ma non tutti i requisiti del Signore risiedono anche nell’essere umano.

Si chiude il primo capitolo con l’affermazione che l’essere umano, così come tutti gli animali, si nutrirà di specie vegetali.

All’inizio del secondo capitolo si dice che il Signore, che aveva completato la Sua opera, nel settimo giorno cessò da tutta la Sua opera e benedisse il settimo giorno e lo santificò, poiché in esso aveva cessato tutta la Sua opera che egli stesso aveva creato per poi elaborarla.
Parrebbe di poter dire allora che i giorni della creazione sono in effetti sei perché è scritto che nel settimo giorno il Signore aveva cessato la Sua opera, opera culminata nella creazione dell’essere umano. Ma questa sarebbe una visione miope e completamente errata perché l’opera del Signore culmina nel settimo giorno con la creazione del Sabato, che viene benedetto e santificato. Il Signore, pur avendo posto l’essere umano in posizione di predominio sul creato, non benedice e santifica lui bensì il giorno del compimento, il giorno del non lavoro, che non è un giorno di riposo, ma il giorno dedicato al Signore: è la finalità della creazione.

Vezot ha-Berachà

Mosè sa di dover morire perché il suo compito è terminato ed il Signore gli ha detto chiaramente che egli non entrerà nella terra promessa. Ha fatto un ultimo tentativo chiedendo se alla fine non gli fosse consentito di entrare, ma non ha insistito più di tanto. Ha capito, non si è rassegnato, si è affidato al Signore ed alle Sue decisioni.

E’ consapevole della grandezza della sua impresa, di avere forgiato una torma di tgransfughi trasformandoli in un popolo, nel popolo del Signore; di avere con loro vissuto la sua vita nel viaggio, il viaggio che tra tanti tentennamenti, incertezze, ripensamenti, tradimenti ha prodotto alla fine un popolo, con un ordinamento religioso e civile, con una disciplina che gli ha conferito univoco carattere identitario.

Anche nell’accostarsi alla morte Mosè mantiene l’epica della sua figura: non un cedimento, nessun segno di logorio, è un uomo ancora integro nelle forze e lucido nella mente e si prepara alla morte come farebbe un buon padre. Un buon padre chiamerebbe i propri figli al suo cospetto per esprimere loro le sue volontà, ed egli chiama le sue tribù, con affetto e sentimento, connotando ognuna con una caratteristica che la individua e la differenzia e profetizzando per ciascuna di esse il filo conduttore del proprio futuro. A ciascuna delle tribù egli impartisce la propria benedizione.

Conclude Mosè pronunciando la benedizione per l’intero popolo di Israele:

Eccelso tuo rifugio è l’eterno Iddio e in basso sono le sue braccia eterne. Egli scacciò dinanzi a te il nemico e ti disse: Distruggilo. Israele se ne starà tranquillo ed appartato, la discendenza di Giacobbe sarà in una terra di grano e di mosto ed i suoi cieli stilleranno rugiada. Te beato, o Israele! Chi è come te, un popolo che viene salvato dal Signore, che è lo scudo della tua potenza e la spada che difende la tua nobiltà? I tuoi nemici ti mentiranno, ma tu calpesterai le loro alture.

Sale quindi Mosè dalle pianure di Moav fino sulla cima del monte Nevò, di fronte a Gerico. Dall’alto il Signore gli mostra tutto il paese ed i territori assegnati a ciascuna tribù e dice:

Questa è la terra che ho giurato ad Abramo, ad Isacco ed a Giacobbe dicendo: Alla tua discendenza Io la darò. Io dunque te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non potrai entrarvi.

Mosè morì là, nel paese di Moav, e nessuno conobbe mai il luogo della sua sepoltura.
I figli d’Israele lo piansero per trenta giorni e poi da quel momento in poi ubbidirono a Giosuè, come Mosè aveva loro comandato. Ma non sorse mai più profeta comparabile a Mosè, colui con il quale il Signore aveva trattato faccia a faccia.

Per la morte di Mosè così commenta Rav Riccardo Pacifici:
“Mosè si allontana da questa terra e nel momento del suo distacco, nessuno gli è vicino, nessuno né dei familiari, né dei discepoli, né del popolo; egli è solo come tutti i grandi spiriti, egli è solo al cospetto di Dio. Egli si diparte, ma i resti mortali del suo corpo, non sono raccolti e composti nella pace del sepolcro: non una tomba, non un mausoleo, perché nessun monumento terreno sarebbe stato degno di lui. Solo Iddio assiste al suo trapasso, solo Iddio si interessa della sepoltura di Mosè, nessuno sarebbe stato degno di tanto ufficio, ed ecco quindi che il monte e la valle sono la sua sepoltura, ecco quindi che nel teatro grandioso di questo spettacolo naturale, lì alle pendici del monte Nebo, all'ultimo corso della valle del Giordano, là dinanzi agli estremi limiti della terra d'Israele, là in quel quadro si chiude la vita terrena del grande condottiero: "Velò qam navi 'od be-Israel" (Deut., XXXIV, 10).”

Simchàt Toràh

Si celebra il giorno dopo Sheminì Atzèret, ovvero il ventiquattresimo giorno del mese di Tishrì. Questo è il giorno che conclude il ciclo delle feste autunnali ed esprime letteralmente la “gioia della Toràh”.

E’ in questo giorno infatti che si dà lettura dell’ultima Parashà del Deuteronomio Vezot ha-Berachà, che contiene la cronaca della benedizione di Mosè e della sua morte, e si procede subito dopo alla lettura della Parashà Bereshith con la quale inizia il libro della Genesi. Si conclude quindi un ciclo annuale e se ne inizia immediatamente un altro, stando a significare la continuità della presenza della Toràh nella vita dell’ebreo.

La lettura del passo conclusivo del Deuteronomio viene eseguita dal Chatàn Toràh, che significa lo “sposo della Toràh”. Alla lettura del primo capitolo della Toràh provvede invece il Chatan Bereshit, ovvero lo sposo della Genesi.

Alla vigilia di Simchat Toràh i rotoli sono estratti dall’arca per festeggiare e ballare con essi. L’atmosfera della festa è di grande allegria ed il ballo in circolo portando i rotoli esprime la ciclicità senza interruzioni della presenza della Toràh per l’ebreo, il quale sa che le letture saranno sempre le stesse, ma le riflessioni, le associazioni, i significati e gli ammaestramenti che da queste deriveranno saranno sempre diverse, come i momenti del tempo della sua vita.

Sheminì Atzéret

Oggi 20 ottobre 2011 e 22 Tishrì 5772 si celebra la festa di Sheminì Atzéret. E’ l’ottavo giorno di Sukkòt, la Sukkàh non viene più utilizzata, né lo sono il Lulav e l’Etrog.

Questo giorno esprime semplicemente il perdurare della gioia di Sukkòt. Un tempo, quando esisteva ancora il Tempio di Gerusalemme, Sukkòt era probabilmente la festa di pellegrinaggio più osservata. Per chi affrontava un lungo viaggio ed aveva eseguito i sacrifici previsti per i primi sette giorni di Sukkòt, questo era un giorno di sosta, un giorno in cui rimanere soli davanti al Signore.

Sheminì Atzéret, in quanto ultimo giorno delle festività autunnali, è il giorno in cui si prega per la pioggia nella preghiera di Musàf. Questa preghiera introduce la supplica quotidiana per la pioggia recitata nell’Amidàh, per tutta la stagione fino a Pésach. Oggi a Roma ha piovuto in modo torrenziale, dopo un lungo periodo pressoché asciutto.