giovedì 20 ottobre 2011

Vezot ha-Berachà

Mosè sa di dover morire perché il suo compito è terminato ed il Signore gli ha detto chiaramente che egli non entrerà nella terra promessa. Ha fatto un ultimo tentativo chiedendo se alla fine non gli fosse consentito di entrare, ma non ha insistito più di tanto. Ha capito, non si è rassegnato, si è affidato al Signore ed alle Sue decisioni.

E’ consapevole della grandezza della sua impresa, di avere forgiato una torma di tgransfughi trasformandoli in un popolo, nel popolo del Signore; di avere con loro vissuto la sua vita nel viaggio, il viaggio che tra tanti tentennamenti, incertezze, ripensamenti, tradimenti ha prodotto alla fine un popolo, con un ordinamento religioso e civile, con una disciplina che gli ha conferito univoco carattere identitario.

Anche nell’accostarsi alla morte Mosè mantiene l’epica della sua figura: non un cedimento, nessun segno di logorio, è un uomo ancora integro nelle forze e lucido nella mente e si prepara alla morte come farebbe un buon padre. Un buon padre chiamerebbe i propri figli al suo cospetto per esprimere loro le sue volontà, ed egli chiama le sue tribù, con affetto e sentimento, connotando ognuna con una caratteristica che la individua e la differenzia e profetizzando per ciascuna di esse il filo conduttore del proprio futuro. A ciascuna delle tribù egli impartisce la propria benedizione.

Conclude Mosè pronunciando la benedizione per l’intero popolo di Israele:

Eccelso tuo rifugio è l’eterno Iddio e in basso sono le sue braccia eterne. Egli scacciò dinanzi a te il nemico e ti disse: Distruggilo. Israele se ne starà tranquillo ed appartato, la discendenza di Giacobbe sarà in una terra di grano e di mosto ed i suoi cieli stilleranno rugiada. Te beato, o Israele! Chi è come te, un popolo che viene salvato dal Signore, che è lo scudo della tua potenza e la spada che difende la tua nobiltà? I tuoi nemici ti mentiranno, ma tu calpesterai le loro alture.

Sale quindi Mosè dalle pianure di Moav fino sulla cima del monte Nevò, di fronte a Gerico. Dall’alto il Signore gli mostra tutto il paese ed i territori assegnati a ciascuna tribù e dice:

Questa è la terra che ho giurato ad Abramo, ad Isacco ed a Giacobbe dicendo: Alla tua discendenza Io la darò. Io dunque te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non potrai entrarvi.

Mosè morì là, nel paese di Moav, e nessuno conobbe mai il luogo della sua sepoltura.
I figli d’Israele lo piansero per trenta giorni e poi da quel momento in poi ubbidirono a Giosuè, come Mosè aveva loro comandato. Ma non sorse mai più profeta comparabile a Mosè, colui con il quale il Signore aveva trattato faccia a faccia.

Per la morte di Mosè così commenta Rav Riccardo Pacifici:
“Mosè si allontana da questa terra e nel momento del suo distacco, nessuno gli è vicino, nessuno né dei familiari, né dei discepoli, né del popolo; egli è solo come tutti i grandi spiriti, egli è solo al cospetto di Dio. Egli si diparte, ma i resti mortali del suo corpo, non sono raccolti e composti nella pace del sepolcro: non una tomba, non un mausoleo, perché nessun monumento terreno sarebbe stato degno di lui. Solo Iddio assiste al suo trapasso, solo Iddio si interessa della sepoltura di Mosè, nessuno sarebbe stato degno di tanto ufficio, ed ecco quindi che il monte e la valle sono la sua sepoltura, ecco quindi che nel teatro grandioso di questo spettacolo naturale, lì alle pendici del monte Nebo, all'ultimo corso della valle del Giordano, là dinanzi agli estremi limiti della terra d'Israele, là in quel quadro si chiude la vita terrena del grande condottiero: "Velò qam navi 'od be-Israel" (Deut., XXXIV, 10).”

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