domenica 24 giugno 2012

Chuccath

(Num.19,1-22,1)

La Parashà si apre con la mitzvà della Parà Adumà, la Vacca Rossa. Questa mitzvà viene definita nel secondo versetto "statuto della Torà". Ricordiamo che “Chukim”, statuti, sono le mitzvòt per le quali non è possibile una spiegazione razionale, in quanto non si riescono a cogliere collegamenti con aspetti di utilità, di igiene, di opportunità, di moralità. Per queste mitzvòt ci si deve limitare a comprendere che il loro rispetto deve avvenire semplicemente perché così è comandato dal Signore nella Torà.

Di’ ai figli d’Israele che ti prendano una vacca rossa perfetta, che non abbia alcun difetto, e sulla quale non sia stato messo giogo. La darete al sacerdote El’azar; egli la faccia uscire fuori dall’accampamento e la si scanni in sua presenza. Il sacerdote El’azar prenda del suo sangue col dito, e spruzzi del sangue sette volte in direzione della facciata anteriore della tenda di convegno. Si abbruci la vacca davanti ai suoi occhi: la pelle, la carne, il sangue oltre alle feci. Il sacerdote prenda del legno di cedro, dell’issopo e della lana scarlatta e li getti dentro il fuoco che consuma la vacca. Il sacerdote si lavi le vesti, si lavi il corpo con acqua, e il sacerdote sarà impuro sino alla sera. Colui che abbrucia la vacca si lavi le vesti con acqua e si lavi il corpo con acqua e sia impuro sino alla sera. Un uomo raccolga la cenere della vacca e la deponga al di fuori dell’accampamento, in un luogo puro. Ciò sia per i figli d’Israele da osservare per fare dell’acqua purificatrice. E’ un chattat (cioè è un sacrificio offerto per purificarsi dal peccato). Colui che raccoglie le ceneri della vacca, si lavi le vesti e sia impuro sino alla sera. Ciò sarà statuito per sempre per i figli d’Israele e per il forestiero che soggiorni in mezzo a loro."

Seguono le prescrizioni per il rituale di aspersione con l’acqua della purificazione che verrà eseguito per eliminare l’impurità da chiunque sia venuto a contatto con un morto, nonché per purificare gli oggetti che si trovavano in un ambiente chiuso dove era stato un morto.

Perché proprio la mitzvà della Vacca Rossa è stata scelta per rappresentare l’intera categoria degli statuti dei quali fanno parte, tra l'altro, mitzvot di più frequente applicazione, come quelle relative al divieto di consumare contemporaneamente carne e latte, o la proibizione di effettuare incroci tra specie diverse, o ancora il divieto di radersi con una lama, ecc.? Perché la Torà si riferisce a questa mitzvà come allo statuto simbolo per l'intera Torà e non, più limitatamente, come statuto relativo alle leggi dell'impurità?

Premesso che una completa spiegazione razionale non è possibile proprio a causa, come già detto, della natura stessa degli “Chukim”, dobbiamo constatare come le norme di questa Mitzvà siano così misteriose che, secondo i maestri del Talmud, neanche il saggio re Salomone riuscì a comprenderle. Solamente Moshè, secondo i Saggi, ebbe questo merito, come è detto “a te rivelo la ragione della vacca [rossa]” (Midrash Bemidbàr Rabbà 19, 6). Possiamo però tentare di avvicinarci a cogliere o intuire le ragioni del primato di questa norma. L’essere in vita è il requisito che consente ad una persona di avere rapporti con il sacro, che si concretizzano con l’ingresso al Santuario, con lo studio della Torà, le tefillot di lode rivolte al Signore, l’attuazione delle mitzvot. Con questi atti, compiuti da vivente, l’individuo si sforza di avvicinarsi al Signore, che è la fonte della vita. La morte costituisce quindi un’interruzione di questo rapporto con il sacro: il cadavere è inerte, non può interagire e per questo motivo è sorgente di impurità ed il contatto con esso provoca impurità. In generale ogni contatto con la sfera della morte dà luogo all'impurità. Al contrario quindi un neonato è considerato la cosa più pura che esista, perché esso è la manifestazione più recente della creazione della vita. Ecco dunque la ragione del primato di questo statuto che quindi assume la dimensione non di un semplice statuto di purificazione ma di statuto della Torà in quanto connesso con l’avvicinamento al Signore.

Altro aspetto di difficile comprensione è la particolarità secondo cui , se è vero che il rituale purifica chi è impuro, è altrettanto vero che tutti coloro che hanno a che fare con la sua preparazione diventano impuri. A prima vista questa mitzvà sembrerebbe collidere con ogni logica razionale. Ma, anche per questa particolarità, si può tentare di avvicinarsi ad una spiegazione. Pensiamo ai Cohanìm coinvolti nella preparazione delle acque che venivano spruzzate sulla persona impura per purificarla, che diventavano a loro volta impuri per effetto di quelle stesse acque, con le quali loro purificavano gli impuri! I Cohanìm sono leaders spirituali-religiosi, che sono responsabili della purezza spirituale del popolo, con le cui impurità vengono a contatto, conoscendole ed, in un certo senso, facendosene carico, quasi novelli capri espiatori e quindi divenendo a loro volta impuri.

Un leader spirituale è uno che è disposto ad abbassarsi, a scendere al livello degli altri, pur sapendo che questo potrebbe avere un effetto negativo su di lui. Perché è così? Secondo il Midràsh c’è un nesso con la colpa commessa nell’episodio del vitello d’oro. “Venga la madre (la vacca) ad espiare per il figlio (il vitello d’oro)”. Nello stesso modo, sono i leaders spirituali, i Cohanim, a caricarsi dell’onere di purificazione del popolo affinché esso possa racquistare il proprio benessere spirituale.

La Parashà è densa di altri avvenimenti. Il popolo giunto nel deserto di Tsin nel capomese, si fermò a Cadesh. Qui morì Miriam, quasi in punta di piedi, perché la notizia della sua morte non occupa neanche mezza riga nella narrazione e non dà luogo ad alcun commento. Il popolo era stanco ed era assetato, perché nel deserto non aveva trovato acqua. Ed il Signore allora disse a Mosè:

Prendi la verga e raduna la congrega, tu e tuo fratello Aron, e parlate alla rupe davanti ai loro occhi, che dia la sua acqua. Farai uscire per loro dell’acqua dalla rupe e farai bere la congrega ed il loro bestiame.

Mosè eseguì quanto il Signore aveva comandato, ma non fedelmente, perché egli non parlò alla roccia, come gli era stato comandato, ma la battè con la verga e l’acqua sgorgò.
A causa di questa disubbidienza il Signore dirà poi a Mosè e ad Aron:

Siccome non avete avuto fiducia in Me sì da santificarmi agli occhi dei figli d’Israele, perciò voi non condurrete questa congrega alla terra che ho deciso di dare loro.

Mosè da Cadesh, dove si trovava, mandò ambasciatori al re di Edom, chiedendo il consenso perché potessero, lui e il suo popolo, attraversare il paese, ma ottenne un fermo rifiuto. Il popolo allora si spostò e giunse al monte Hor. Qui morì Aron, e la sua morte avvenne seguendo un rituale, che espresse l’investitura sacerdotale a suo figlio El’azar.

Qui il popolo d’Israele venne attaccato dal re cananeo di Arad, il quale però, grazie all’aiuto del Signore, venne pesantemente sconfitto.

Partito dal monte Hor verso la via del Mar Rosso, per aggirare il paese di Edom, il popolo divenne nuovamente impaziente e disse:

Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per morire nel deserto? Poiché non c’è pane né acqua, e noi siamo stanchi del pane leggerissimo.

Allora il Signore mandò contro il popolo i serpenti, serafim, i quali morsicavano il popolo e morì molta gente in Israele. Il popolo venne da Mosè e disse:

Abbiamo peccato poiché abbiamo parlato contro il Signore e contro te. Prega il Signore affinché tolga da noi il serpente.

Mosè pregò per il popolo il Signore, Che disse a Mosè:

Fatti un saraf e ponilo su una pertica. Chi sarà stato morsicato lo guarderà e guarirà.

Mosè fece un saraf di rame, cioè un serpente di rame, e lo pose su una pertica. Ed avvenne che se il serpente aveva morsicato una persona, questa guardava il serpente di rame e risanava.

Rashì fornisce questa spiegazione per la punizione dei serpenti. Il popolo si lamenta della manna, che è l’unico cibo che ha, ma che ha la prerogativa di assumere il sapore di ogni cibo che venga desiderato; quando viene inflitta la punizione ed il popolo viene aggredito dai serpenti, su di esso ricade la stessa maledizione del serpente dell’Eden, e quindi qualsiasi cosa verrà mangiata avrà un solo sapore, quello della polvere.

In effetti gli elementi di questo passo della Parashà hanno molti punti di contatto, sia pure in opposizione, con quelli dell'Eden. Nell’Eden ci troviamo di fronte alla possibilità di mangiare ogni tipo di frutto, tranne quello dell'Albero della conoscenza del bene e del male. Nel deserto abbiamo invece un solo cibo che rende inutile ogni altro cibo. In entrambi i casi è il Signore che procura il cibo. Vale a dire che la nostra unica occupazione è quindi lo studio della Torà, ed i Maestri dicono che la Torà non è stata data altro che a coloro che mangiavano la manna. C'è poi la presenza del serpente. Esso è considerato simbolo dello “yetzer harà”, l'istinto del male, in particolare per il suo modo subdolo di presentarsi, quando ci vuole convincere di essere nel giusto anche se trasgrediamo la Torà. Nell'Eden avevamo una sola mitzvà. La proibizione di mangiare dall'Albero della conoscenza del bene e del male. È interessante notare come l'Eden ed il Deserto siano legati da un rapporto inverso. L'Eden è un giardino, il deserto è un luogo arido. Nel Deserto abbiamo tante mitzvot ed un solo cibo, nell'Eden tanto cibo ed una sola mitzvà. L’unico cibo del deserto prende il sapore di tutti i cibi, l’unica mitzvà dell'Eden racchiude in sé tutte le mitzvot.

Per effetto della trasgressione del precetto dell'Eden, una nuova presenza, prima sconosciuta, appare nel mondo: la morte. E con la morte, di pari passo, l’impurità. Ciò che riabilita l'uomo dopo il contatto con la morte diventa il “tikun”, la riparazione per la trasgressione dell’unica mitzvà che reca in sé la potenzialità di tutta la Torà. Questo “tikun” deve essere fatto per mezzo di un “chok”, cioè una mitzvà la cui motivazione non è razionalizzabile. Questo è il “chok” dell'intera Torà, racchiusa nella prima mitzvà dell’Eden.

Il popolo riprese la marcia e giunse ai limiti dei territori degli Emorrei. Qui furono mandati ambasciatori al loro re Sichon per chiedere di poter attraversare il paese. Ma questi si oppose e dette battaglia. Gli Emorrei furono sconfitti pesantemente ed il loro paese venne occupato dal popolo d’Israele. Stessa sorte toccò ad Og, re di Bascian, che pure era sceso in battaglia contro Israele.



Haftarà di chuccat
(Giu.11,1-11,33)

Le vicende narrate nella Haftarà hanno come premessa quelle che nella parashà riguardano la sorte del paese degli Emorei occupato da Israele.

Gli Ammoniti, succeduti agli Emorei nel loro regno, rivendicavano i loro diritti sui territori occupati da Israele trecento anni prima e per questo motivo mossero in battaglia contro Israele nel paese di Ghil’ad. Gli anziani di Ghil’ad si recarono da Jefte, uomo notoriamente valoroso e capo di una banda di briganti, chiedendogli di combattere contro gli Ammoniti ed offrendogli in cambio di divenire capo di tutti gli abitanti di Ghil’ad.
Jefte accettò e prese dapprima contatto con il re degli Ammoniti, tentando di dissuaderlo dal suo proponimento di muovere guerra ad Israele. Così mandò a dirgli Jefte:

“Ora,dopo che il Signore D-o d’Israele ha scacciato gli Emorei da dinanzi al Suo popolo, Israele, tu vuoi possedere il loro paese? Certamente tu hai il diritto di possedere quello che ti dà in possesso il tuo dio Kemosh, e così noi abbiamo il diritto di possedere il paese di chi il Signore D-o nostro ha scacciato da dinanzi a noi.

Ma il re degli Ammoniti non desistette dai suoi proponimenti e dette battaglia. Jefte, pervaso dallo spirito del Signore, nel muoversi per contrastare l’attacco fece un voto al Signore dicendo:

Se mi darai in mano gli Ammoniti, quello che mi uscirà incontro dalla parte di casa mia quando tornerò incolume dal paese degli Ammoniti, sarà consacrato al Signore, ed io lo offrirò in olocausto.

Jefte attaccò gli Ammoniti nel loro paese e li sconfisse, secondo la volontà del Signore, in venti loro città ed essi furono sottomessi ai figli d’Israele.

domenica 17 giugno 2012

Kòrach

(Num.16,1-18,32)

Il viaggio verso la terra promessa era stato travagliato in altre occasioni da malcontento, sfiducia e ribellioni, ma questa volta la contestazione, capeggiata dal levita Kòrach affiancato da Dathan e Aviram ed, inizialmente anche da On, si era espressa in modo argomentato, prendendo di mira l’autorità stessa di Mosè ed Aron, ed era sostenuta da duecentocinquanta rappresentanti autorevoli delle tribù.

Si noti per inciso che il fatto che Kòrach fosse un Levita è espresso dalle stesse radici del suo nome, che sono “qof-resh-chet”, le medesime di radersi i capelli (cnfr. Lev.21,5), che danno luogo ad una immagine di testa rasata, prerogativa appunto dei Leviti per i riti di purificazione.

La contestazione di Kòrach, insomma, si connota come quello che noi oggi chiameremmo un tentativo di colpo di stato e non come una sommossa popolare. Ci sono tutti gli elementi del colpo di stato e cioè un’organizzazione dei congiurati, un’ideologia dichiaratamente egualitaria, come è normale che sia quando si ritiene che ci sia un tiranno da eliminare, sostenuta da una plausibile interpretazione delle parole del Signore, e con la precisa individuazione dei soggetti da abbattere, in questo caso i due fratelli Mosè e Aron.

L’argomentazione a sostegno della contestazione era così espressa:

Vi basti! Tutta la comunità sono tutti santi e in mezzo a loro è il Signore, e perché vi elevate al di sopra della congrega del Signore?

A questa accusa a lui rivolta di voler esercitare il proprio potere personale sul popolo Mosè ribattè sdegnato, dicendo che l’indomani il Signore avrebbe fatto conoscere chi fosse il prescelto. Cercò inoltre Mosè di rammentare a Kòrach ed ai Leviti l’onore loro concesso dal Signore per averli designati al servizio del Tabernacolo. Mandò anche a chiamare Dathan e Aviram per avere con loro un colloquio che potesse distoglierli dal loro proponimento, ma da loro ebbe la risposta più aspra, perché essi dissero:

Non verremo. Ti par poco di averci fatto salire da una terra stillante latte e miele per farci morire nel deserto, che vorresti ancora signoreggiare su di noi? Tu non ci hai portato in un paese stillante latte e miele per darci un possesso di campi e di vigne. Vorresti forse accecare gli occhi di questa gente? Noi non verremo.

Ci troviamo quindi davanti a due diverse motivazioni della ribellione, infatti mentre le parole di Kòrach esprimono la contestazione della leadership rappresentata da Mosè ed Aron, la posizione di Dathan ed Aviram è invece di sfiducia nella riuscita dell’impresa di poter giungere alla terra promessa e di nostalgia per la terra d’Egitto. Le due posizioni sono entrambe in contrasto con la volontà del Signore e quindi entrambe saranno condannate ed i loro sostenitori saranno puniti con la morte.

Si potrebbe operare una distinzione tra queste due posizioni, e potrebbe, a prima vista, ritenersi molto più grave quella di Dathan ed Aviram rispetto a quella di Kòrach, potendo apparire la colpa dei primi due doppia rispetto a quella dell’ultimo. Si potrebbe dire infatti che Dathan ed Aviram non solamente hanno perso la fiducia nella conduzione da parte dei due fratelli, ma hanno perso anche, e soprattutto, la fiducia nella possibilità di giungere alla terra promessa dal Signore.

E’ da tener presente infatti che, mentre l’obiettivo del viaggio non avrebbe potuto venir meno perché era stato promesso dal Signore, i due fratelli condottieri, invece e in linea ipotetica, avrebbero potuto essere sostituiti, anche in considerazione dei comportamenti di entrambi in occasione dell’episodio del vitello d’oro. Ricordiamoci che Aron non si era opposto, come avrebbe dovuto, alla richiesta del popolo di fabbricare l’idolo e ricordiamoci anche che Mosè, quando ridiscese dalla montagna, ordinò che fossero uccisi tutti coloro che nell’occasione non si erano mantenuti fedeli al Signore, e che quel giorno morirono perciò tremila persone, mentre a suo fratello Aron non toccò per l'occasione pena maggiore di un rimbrotto.

Però Kòrach, nel contestare il primato di Mosè ed Aron, non fa nessun riferimento ad errori commessi dai due, ed avrebbe potuto farlo come abbiamo appena evidenziato, e la sua critica in questo caso avrebbe assunto i connotati di una critica al loro operato umano, alla loro inadeguatezza nell’eseguire il disegno divino. Kòrach invece mette in dubbio la legittimità del primato loro conferito, perché a suo dire, e diversamente da quanto stabilito fin qui dal Signore, poichè tutto il popolo è santo, non è legittimo che esistano posizioni di preminenza .

Ma a tutte queste possibili disquisizioni pose termine il giudizio del Signore, per cui la terra si aprì ed inghiottì Kòrach, Dathan edAviram insieme alle loro famiglie. Un fuoco inoltre divorò i duecentocinquanta notabili che avevano sostenuto la rivolta.

Il popolo non comprese e non accettò la punizione, che il Signore aveva impartito, e ne dette la colpa a Mosè ed Aron. L’ira del Signore si accese nuovamente e si abbattè sul popolo e quando cessò, per l’espiazione compiuta da Aron, si contarono quattordicimilasettecento morti oltre quelli per i fatti di Kòrach.

A questo punto, allo scopo di far conoscere chi fosse prescelto per le funzioni sacerdotali, il Signore disse a Mosè di porre nella tenda della radunanza davanti alla Testimonianza dodici verghe, una per ogni tribù, e quella che fosse fiorita avrebbe indicato la scelta operata dal Signore. Così fu fatto ed il giorno dopo era fiorita la verga di Aron.

Qui finalmente il Signore, che generalmente parla solo a Mosè, parlò direttamente ad Aron ed a lui dette le istruzioni per il servizio di sacerdozio al Santuario, che egli avrebbe dovuto prestare con i suoi figli, e con l’aiuto dei Leviti, assegnati al servizio della tenda della radunanza. Vennero definite inoltre le spettanze sulle offerte presentate dal popolo in sacrificio, tenendo presente che i Leviti non avevano proprietà terriere e vivevano quindi dei proventi loro assegnati dai sacrifici.

Per quanto riguarda poi il sacrificio di spettanza dei Leviti, il Signore disse a Mosè di parlare così ai Leviti:

Quando prenderete dai figli d’Israele la decima che Io ho dato a voi da loro in retaggio, preleverete da quella il tributo al Signore: decima dalla decima. Il vostro tributo vi sarà calcolato come il grano dall’aia e come il vino dal torchio. In tal modo offrirete anche voi un tributo al Signore da ogni vostra decima, che prenderete dai figli d’Israele e da essa darete un’offerta del Signore al sacerdote Aron.
(I Sam.11,14-12,22)




Haftarà di Kòrach

Anche questa è una storia di contestazione, una contestazione avvenuta secoli dopo quella di Kòrach e che ora riguarda Samuele, giudice e profeta. E’una contestazione questa che non parte da una élite, come era avvenuto per quella di Kòrach, ma ha matrice più ampiamente popolare. Israele era circondato da popoli ostili con i quali era ripetutamente in conflitto. Siamo al tempo dei Giudici, che furono magistrati con ampi poteri civili e militari, ai quali in tempo di guerra era affidato il compito di guidare il popolo d’Israele nei conflitti sostenuti con gli altri popoli.

In queste guerre con i popoli vicini Israele aveva subito ripetute sconfitte sicché presso il popolo aveva preso corpo il convincimento che ciò fosse da attribuirsi al fatto che gli altri popoli erano guidati, diversamente da Israele, da dei re. Il popolo chiese allora a gran voce al vecchio Samuele di proclamare re Saul.
Dopo un vano tentativo di dissuadere il popolo da questo proponimento, rammentando loro che Israele aveva già un re e che questi era il Signore e che quindi nominare un uomo a ricoprire questo ruolo costituiva grave peccato, alla fine Samuele cedette ed unse Saul re d’Israele.

E disse Samuele al popolo:

Ma il Signore D-o vostro è il vostro re! Comunque ora avete il re che avete scelto dopo di averlo chiesto; vedete, D-o vi ha dato un re.

Vedete, siamo oggi nella stagione della mietitura del frumento; io invocherò il Signore perché mandi tuoni e pioggia, cosicché voi, ciò vedendo,riconosciate che avete commesso una gran colpa davanti al Signore richiedendo per voi un re.

E quando ciò avvenne ed il popolo impaurito riconobbe di aver peccato e gli chiese di intercedere presso il Signore, allora Samuele disse:

Non temete, voi avete bensì commesso questa grave colpa, ma ora non deviate dalla strada del Signore, e servitelo con tutto il vostro cuore.

Deviare, prosegue Samuele, li avrebbe condotti a servire altri dèi ed a perdere la propria salvezza.

Invece il Signore non abbandona il Suo popolo in grazia del Suo grande nome, dacché il Signore ha voluto fare di voi il Suo popolo.

domenica 10 giugno 2012

Shelach lechà

(Nu.13,1-15,41)

Si narra qui di come il popolo, già uscito dalla terra d’Egitto e messosi in marcia per raggiungere la terra promessa, sia arrivato alle soglie del suo traguardo, senza però raggiungerlo ed abbia ricevuto invece la punizione di dover vagare ancora per quarant’anni nel deserto.

L’abbiamo visto, questo popolo, ricevere la Legge, e sappiamo come abbia proceduto per l’edificazione del Santuario, e conosciamo l’ordinamento secondo cui fu stabilita la celebrazione dei suoi riti religiosi, il suo schieramento sul campo e la procedura e l’ordine adottati per i suoi spostamenti.
Tutto ciò darebbe l’idea di un popolo-esercito organizzato e disciplinato, ma sappiamo anche delle traversie di questa massa di persone in movimento, sappiamo delle lamentele, delle contestazioni, delle nostalgie per la terra di schiavitù, che sin qui hanno costellato il suo percorso.

Ora, arrivati alle soglie della terra promessa, il Signore dice a Mosè:

Manda degli uomini ad esplorare il paese di Canaan che Io sto per dare ai figli d’Israele. Un uomo per ogni tribù paterna, ognuno sia un preposto fra loro.

Gli esploratori designati partirono quindi con il compito di esaminare le ricchezze del paese, le sue risorse agricole, la fertilità della terra, ma anche per scoprire la consistenza e l’indole delle popolazioni abitanti, nonché la loro organizzazione e se le città esistenti fossero o meno fortificate.

Tornarono dopo quaranta giorni e riferirono che il paese era veramente stillante latte e miele, perché era fertile e produceva frutti in abbondanza, però le città erano fortificate e le popolazioni che le abitavano erano forti, e gli abitanti di quella terra apparivano fisicamente come giganti al confronto con loro, che invece sembravano come piccole locuste.

Solamente Caleb e Giosuè, che pure avevano fatto parte del gruppo degli esploratori, si espressero riguardo al possibile conflitto con gli abitanti della terra promessa dicendo che non bisognava nutrire alcun timore perché il Signore sarebbe stato con il popolo di Israele.

Ma il popolo mostrò di non avere fiducia nel Signore e di non avere il coraggio e la determinazione necessari per la conquista della terra promessa. Nuovamente cominciarono i lamenti ed i proponimenti di tornare nella terra d’Egitto, dove dopo tutto non avrebbero corso il rischio di essere passati a fil di spada da popolazioni agguerrite e di vedere le proprie donne ed i propri figli diventare prede di guerra.

A questo punto ci viene in mente una riflessione: ma chi mai potrà sperare di raggiungere una meta a lungo desiderata, se non è in possesso del coraggio e della determinazione necessari a superare gli ostacoli che si frappongono al suo raggiungimento? Come possiamo affrontare una prova che ci si presenta davanti se non abbiamo fiducia nella possibilità di superarla? Nella nostra vita quotidiana sono molte le “terre promesse” da conquistare, gli obiettivi al cui raggiungimento si frappongono ostacoli. Sono gli esami a scuola, i concorsi o le selezioni per le posizioni lavorative, gli obiettivi di lavoro nei quali crediamo e che vogliamo realizzare. Sono la famiglia, i figli, l’aiuto che riusciamo a dare loro. Ecco tutte queste cose vanno fortemente volute e vanno conquistate, quindi con fiducia e determinazione, e dobbiamo essere consapevoli del fatto che senza queste qualità tutto resterà affidato al caso nella migliore delle ipotesi ovvero tutto sarà alla mercé dei nostri concorrenti.

Il popolo d’Israele aveva l’organizzazione necessaria per compiere l’impresa, ma aveva perso il coraggio di battersi contro gli altri popoli e soprattutto aveva perso la fiducia nel fatto che il Signore, schierato dalla sua parte, lo avrebbe condotto alla vittoria.

Il Signore dispose allora la punizione per il suo popolo, stabilendo che nessuno degli uomini, dall’età di vent’anni in su, ad eccezione di Caleb e Giosuè, sarebbe mai entrato nella terra promessa e che il popolo avrebbe continuato a vagare ancora per quarant’anni nel deserto, prima di potervi accedere.

Il Signore dettò quindi le disposizioni riguardanti i sacrifici, che il popolo avrebbe dovuto effettuare, quando fosse finalmente entrato nella terra promessa. I sacrifici di animali e di farinacei, di olocausto e di shelamim, offerti sia da parte del popolo, sia da parte degli stranieri che, dimorando insieme, sarebbero stati soggetti alle medesime norme ed agli stessi diritti.
Molte volte la Torà fa riferimento a questi stranieri, che vivono in mezzo al popolo d’Israele e che perciò sono soggetti alle medesime leggi e questo ci fa pensare che la loro presenza doveva essere numericamente significativa, che molti dovevano essersi uniti al popolo d’Israele a partire dall’uscita dall’Egitto e durante il viaggio.

Ci viene da pensare anche, attualizzando il viaggio, al significato che esso assume di un percorso personale che dura tutta una vita, che è irto di ostacoli, ma che ci conduce ad una nuova condizione di consapevolezza della fiducia nel Signore e della forza che da ciò ci deriva. Ed è inoltre la presenza dello straniero che ci consente di connotare come universale tutta la narrazione, potendo sussistere altrimenti una visione limitativa connotante il popolo eletto esclusivamente limitato e circoscritto al solo popolo ebraico.

Segue poi l’episodio dell’uomo trovato di Sabato nel deserto a raccogliere legna e condotto davanti a Mosè ed Aronne. Per quest’uomo il Signore dispose la morte per lapidazione da eseguirsi fuori dall’accampamento. La punizione, che a prima vista potrebbe apparirci eccessivamente severa e feroce, deve giustificarsi considerando che il Sabato costituisce il Santuario d’Israele, il giorno del Signore, che ci ama, ed al quale dobbiamo la pienezza del rispetto, dell'obbedienza e dell'amore.

La parashà si conclude con i versetti che sono la parte finale dello Shemà: i figli d’Israele facciano delle frange agli angoli delle proprie vesti, affinchè vedendole ricordino ed eseguano tutti i precetti che il Signore ha dato loro, senza deviazioni per seguire il proprio cuore o i propri occhi, che li renderebbero infedeli.

Sto pensando ad un libro scritto da Susanna Tamaro qualche anno fa, che si intitolava “Va’ dove ti porta il cuore”, che parrebbe in chiara opposizione alla linea comportamentale che ci prescrive di anteporre ad ogni cosa il rispetto dei precetti dettati dal Signore. In realtà la Tamaro intendeva esprimere la preferenza che si deve assegnare al sentimento rispetto alle indicazioni del razionale, ma sicuramente intendeva che si dovessse seguire il cuore, senza lasciare a casa il cervello. Ma anche qui c’è da intendersi sul significato di sentimento e sul significato di razionale, parole al giorno d’oggi tanto inflazionate da averne smarrito il significato. "Sentimento" non è passione, sentimento è ciò che affiora di noi, quando, soli con noi stessi, allontaniamo ogni passione, ma anche ogni preconcetto, per scoprire quello che c’è di amore autentico, non quello inflazionato e mercificato con il quale oggi si etichettano narcisismi ed egoismi, ma quello che ci fa desiderare il bene dell’altro come preminente su ogni nostra esigenza personale, bene dell’altro che si realizza in silenzio anche con il nostro sacrificio e la nostra sofferenza, ma che pur così ci ripaga con la gioia immensa di attuare amore.
L’altro termine, la parola “razionale” si presenta a prima vista come asettica, parrebbe andare a braccetto con la parola “giustizia” e invece non è così. Quando diciamo che una data scelta o una data posizione è razionale dovremmo scavare per capire a che cosa risponde questo concetto di razionalità, se questo razionale sia in realtà il frutto di preconcetti sociali o di convenienza, e vada quindi a connotarsi più propriamente come frutto di un altro egoismo.

Ecco che allora il cerchio si chiude: il cuore e gli occhi di cui parla la Torà, sono le passioni, violente ed effimere, episodi sui quali non può costruirsi una vita, ma che invece causano deviazioni che allontanano dalla fiducia nel Signore. Ma il sentimento vero, quello profondo, duraturo, incrollabile , quello che costa sacrificio, quello che a volte sembra non premiare, ecco questo sentimento, liberato dal razionale di convenienza, questo è il distillato della vera natura umana, quella verso cui dovremmo tendere universalmente, nonostante le deviazioni numerose che nella nostra vita noi facciamo perché siamo umani e siamo fallibili. Ma la consapevolezza di quale sia la verità sarebbe già un grande risultato da raggiungere. E il sentimento, quello vero, quello maiuscolo, è allineato con la Torà.



Haftarà di Shelach

Gli uomini inviati da Giosuè in esplorazione a Gerico trovarono rifugio nella casa di una prostituta, alla quale prima di congedarsi dissero:

"Noi non vogliamo essere in colpa per questo giuramento che abbiamo fatto dietro tua richiesta. Quando noi entreremo nel paese, tu lega alla finestra per la quale ci hai calati questa matassa di filo rosso e accogli nella tua casa tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli e tutti i membri della tua famiglia. E allora sarà responsabile della propria morte senza nessuna colpa da parte nostra chiunque uscirà fuori dalle porte della tua casa, e noi saremo responsabili se qualcuno metterà la mano su chi si troverà dentro la casa. Se poi tu riferissi questo nostro discorso saremmo prosciolti dal giuramento che abbiamo fatto dietro tua richiesta."
(Gio.2,1-2,24)

domenica 3 giugno 2012

Behaalotechà

(Nu.8,1-12,16)

“Quando accendi”. Siamo nei capitoli da 8 a 12 di Bemidbar, il libro dei Numeri. In questa parashà c’è una trattazione ricca di molti argomenti che spaziano dal rituale alla narrativa storica d’insieme, e di dettaglio.

Si comincia con la prescrizione riguardante le luci della menorah, che devono illuminarne la parte anteriore verso chi guarda.

Segue la descrizione dei riti di purificazione dei Leviti, uomini in età da 25 a 50 anni addetti al servizio del santuario. La preparazione prevede la rasatura di tutto il corpo, la presentazione di offerte, la dimenazione davanti al Signore. Ne traiamo di questa dedicazione dei leviti una immagine efebica, del tutto opposta a quella dei nazirei, anch’essi dedicati al Signore ma di maschio aspetto selvatico perché irsuti di barba e capelli incolti, vigendo per questi ultimi il divieto di taglio e rasatura per tutto il tempo della dedicazione. Dunque i leviti accantonano la propria sessualità nel compiere il servizio al santuario, mentre i nazirei mantengono la sessualità con la quale però lottano per domarla e mantenere viva la propria dedica al Signore. A quest’ultimo proposito ci si richiama alla mente la figura di Sansone, nazireo, dedicato al Signore da sua madre, ed in eterna lotta con le sue pulsioni sessuali dalle quali sarà liberato solo dalla morte. A questo proposito segnalo il libro di David Grossman Il miele e il leone, edito da Rizzoli, dove Sansone è rappresentato con intensa umanizzazione.

Si istituisce infine Pesah shenì, una seconda occasione di celebrare Pesah per chi non abbia potuto farlo nella prima celebrazione.

Dopo questi aspetti rituali si passa alla narrazione degli spostamenti del popolo verso il deserto di Paran. Abbiamo visto stabiliti, già nelle precedenti parashot, il posizionamento del tabernacolo e delle tribù nell’accampamento, nonché quale fosse la sequenza prevista per la messa in marcia del popolo. Ora si stabiliscono i segnali che due trombe d’argento dovranno emettere per impartire gli ordini stabiliti di movimentazione.

Mosè volle provvedersi di una guida esperta per il viaggio, un conoscitore del deserto che essi avrebbero dovuto attraversare, e si rivolse per questo a Chovav, figlio del midianita Re’uel suo suocero, dicendo: “Noi partiamo verso il luogo del quale il Signore disse - Quello Io darò a voi - , vieni con noi e ti faremo del bene, giacché il Signore ha promesso del bene ad Israele”. Ma Chovav rispose: “ Io non andrò; ma al mio paese ed al mio luogo di nascita andrò”, E Mosè disse: “Deh! Non abbandonarci giacché tu hai conosciuto il nostro accamparci nel deserto, e ci sei stato quale guida. Se verrai con noi, tutto il bene di cui il Signore ci beneficherà, lo faremo anche a te”. Che senso ha questo dialogo, perché Chovav prima rifiuta e poi accetta?

Il nome di Chovav ha le medesime radici di chovev, dare e avere amore. La prima offerta di Mosè è “noi ti faremo del bene”, è un compenso che viene promesso dal popolo per la sua prestazione, ma Chovav rifiuta perché non è quello il compenso che egli desidera. La seconda offerta di Mosè è ben diversa “tutto il bene di cui il Signore ci beneficherà, lo faremo a te” e l’offerta qui è il bene del Signore e questo non può che essere in primo luogo l’amore.

Il viaggio ha inizio e strada facendo cominciarono a manifestarsi difficoltà crescenti, fino all’aperta contestazione. Insofferenza alla disciplina, stanchezza, fame resero sempre più frequente la necessità di interloquire, incoraggiando ed esortando il popolo a proseguire verso la meta prefissata.
Per svolgere questa opera Mosè istituisce un’assemblea di settanta anziani con il compito di svolgere per lui quest’opera di persuasione e stimolo nei confronti del popolo.

C’è poi l’episodio di Eldad e Medad, che pur scelti a far parte dell’assemblea, stavano “profetizzando” nell’accampamento per loro conto. Mosè, richiesto da Giosuè per l’adozione di un provvedimento punitivo, si mostrò invece indulgente e condiscendente dicendo “Magari tutti del popolo del Signore fossero profeti!”

La parashà chiude con la contestazione di Mosè da parte di Miriam ed Aronne. I motivi della contestazione sono:
- l’avere Mosè preso con sé una donna kushit , di pelle scura, cosa che l’avrebbe portato a trascurare i suoi doveri coniugali;
- il ritenersi Mosè l’unico abilitato a ricevere la parola del Signore.
A questo punto il Signore chiarì ai tre che Egli avrebbe rivolto la parola solo a Mosè, mentre agli altri due Egli avrebbe potuto apparire solamente in sogno o in visione.
Miriam per punizione venne colpita da lebbra e solo per l’intercessione del fratello Mosè potè rientrare guarita nell’accampamento dopo sette giorni, e riprendere la marcia con il popolo.

Haftarà di Behaalotechà

E l’inviato di D-o che parlava con me ritornò, e mi svegliò come uno che si desta dal suo sonno. E mi disse: ‘Che cosa vedi tu?’. E io risposi: ‘Ho visto, ed ecco un candelabro tutto d’oro con una sfera sulla sua cima, e sopra di questa sette suoi lumi e sette canali, uno per ciascuno dei lumi che vi sono sopra, e presso di essa due ulivi, uno a destra ed uno a sinistra della sfera.’ Ed io dissi all’inviato divino che parlava con me: ‘Che cosa sono questi o mio Signore?’ E l’inviato divino che parlava con me mi disse: ‘Non sai che cosa sono essi?’ Ed io risposi: ‘No, mio Signore.’ Ed egli mi disse: ‘Questo è quello che dice il Signore a Zerubavel. Non con la prodezza e non con la forza, ma con il mio spirito, ha detto il Signore Tsevaoth. Chi sei tu grande monte, davanti a Zerubavel? Diventerai pianura. Egli farà uscire la pietra fondamentale e si udranno acclamazioni: Favore, favore ad essa!
(Zac.4,1-4,7)

Il candelabro, con i suoi sette lumi, esprime la luce divina che si spanderà sul Tempio e sulla terra. I due ulivi sono Zerubavel e Yehoshùa, che furono, il primo, colui che ricondusse in Israele i primi ritornati dall’esilio babilonese e, il secondo, il sommo sacerdote, anch’egli rientrato da Babilonia. Non la maestria e non la forza, ma la fiducia nel Signore consentiranno a Zerubavel la ricostruzione del Tempio, che tutti acclameranno.