domenica 28 luglio 2013

Reè (Deu.11,26-16,17)

L'idolatria: un peccato antico, ma ancora attuale.

Reè”, vedi, guarda: Io pongo oggi davanti a te la benedizione e la maledizione. L’esortazione del Signore è a compiere un’azione elementare, semplice, un’azione che non implica impegno di tempo e d’intelletto. “Vedi” è come “Ascolta”, azioni semplici ma che implicano la circoncisione, l’apertura del cuore, per uscire fuori dal proprio egoismo e percepire ciò che il Signore ha posto intorno a noi e per noi. “Berakhah” e “Kelalah”, vengono prospettate da Mosè al popolo come conseguenze alternative dei propri comportamenti: benedizione se verranno ascoltati i precetti del Signore, maledizione se non lo saranno. Quando il popolo avrà attraversato il Giordano e sarà entrato nella terra promessa, giungerà in prossimità di due monti, “Gherizim” ed “Eval”, posti l’uno di fronte all’altro, il primo fertile e rigoglioso, il secondo sterile e brullo. Sul monte “Gherizim” verranno date le benedizioni, sull’”Eval” le maledizioni.

Anche in questa occasione Mosè, quando si riferisce alle maledizioni per non avere ascoltato i precetti del Signore, fa esplicito riferimento all’idolatria:

… per andare dietro agli altri dèi che non avete mai conosciuto.

L’idolatria è costantemente oggetto di anatema, di una maledizione cioè che implica “haherem” la distruzione, perché questa, l’idolatria, sarà sempre la colpa più insidiosa nella quale il popolo possa cadere, la colpa alla quale consegue la perdita della fiducia del Signore e che smarrisce l’identità del popolo eletto e lo distrugge in quanto disperso tra tutte le nazioni.

Voi distruggerete tutti quei luoghi dei quali verrete in possesso e che i pagani destinano al culto dei loro dèi…

Abbatterete i loro altari, spezzerete le loro stele, e le loro asheroth darete alle fiamme, le immagini dei loro dèi farete a pezzi e farete sparire il loro nome da quel luogo.

Il popolo d’Israele, prosegue Mosè, cercherà il luogo che il Signore avrà scelto per edificare il Suo Santuario e solamente in quel luogo potrà portare le offerte per i propri sacrifici, le decime, i tributi, i voti, i doni ed i primogeniti dei suoi armenti.

Gioirete dunque davanti al Signore vostro Dio voi, i vostri figli, le vostre figlie, i vostri schiavi e le vostre schiave nonché il Levita che è nelle vostre città, poiché egli non ha parte né possesso alcuno con voi. Guardati bene dunque dall’offrire i tuoi olocausti in qualsiasi luogo ti piaccia, perché solo nel luogo che sceglierà il Signore in una delle tue tribù, là dovrai portare i tuoi olocausti e là dovrai fare tutto ciò che io ti comando.

Mangiare è un atto che assume per l’ebreo valore sacrale, e più avanti di ciò se ne avrà conferma nell’enunciazione delle regole della “kasherut”, ma già qui il richiamo nel dire che questo si fa davanti al Signore e in allegria conviviale, con la propria famiglia e con il Levita addetto al servizio del Santuario, per analogia ci fa rammentare che anche noi oggi recitiamo la benedizione del pane con due “challot”, anche se siamo da soli, perché alla nostra tavola c’è il Signore che siede con noi, e per questo, anche qualora fossimo soli, la nostra tavola sarà sempre imbandita per due.

L’unicità del luogo prescelto dal Signore per l’offerta degli olocausti, che è quello sul quale sarà poi edificato il primo Tempio di Gerusalemme, ha fatto sì che gli avvenimenti succedutisi a partire dalla distruzione del secondo Tempio ad opera di Tito nel 70 dell’e.v. ed il successivo permanere della perdita della sovranità su questo luogo e per tutti i secoli seguenti, fino ad arrivare all’attuale intricata situazione della spianata del Tempio, hanno reso non più disponibile il luogo per l’effettuazione dei sacrifici, che sono stati quindi sostituiti dall’offerta delle nostre preghiere.

Chiarisce Mosè al popolo che per quanto riguarda il mangiare carne sarà consentito di farlo liberamente, macellando animali del proprio bestiame grosso e minuto e macellando anche daini e cervi, pur essendo questi ultimi animali selvatici e quindi non adatti ai sacrifici. In ogni caso non si dovrà mangiare il sangue in quanto veicolo della vita e quindi proprietà del Signore. Per quanto riguarda però gli animali consacrati e quelli votati al Signore, questi dovranno essere portati nel luogo scelto dal Signore e gli olocausti di carne e sangue si faranno sull’altare e la carne potrà essere mangiata.

Ammonisce Mosè il popolo a non essere preda di curiosità riguardo ai culti prestati dalle popolazioni sconfitte o, peggio ancora, di tentazioni di replicarli, significando l’abominio di detti culti, che, tra l’altro, giungevano a prevedere il sacrificio alla divinità dei propri figli, che venivano divorati dalle fiamme.

Non devi far questo al Signore tuo Dio perché essi hanno fatto per i loro dèi ogni sorta di azioni abominevoli che il Signore odia; infatti hanno arso nel fuoco per i loro dèi perfino i loro figli e le loro figlie.

Comanda ancora Mosè al popolo che, qualora dovessero sorgere in mezzo a loro profeti o sognatori, i quali, pur capaci di mostrare segnali o prodigi, esprimessero il proponimento di seguire altri dèi, tali profeti e sognatori debbano essere messi a morte. E se poi l’invito all’idolatria dovesse provenire da qualcuno della propria famiglia o dal proprio migliore amico, anche questi dovranno essere messi a morte per lapidazione. E ancora prosegue Mosè dicendo che, qualora si venisse a sapere che in una certa città si manifestano episodi di idolatria, dovranno farsi le opportune indagini ed in caso che da ciò ne venga conferma saranno sterminati tutti gli abitanti, compreso tutto il bestiame e la città verrà data alle fiamme e non sarà mai più ricostruita.

La durezza di tutte queste prescrizioni va intesa sempre come mirata specificatamente a distruggere l’idolatria, che si conferma così come la colpa più grave nella quale il popolo possa cadere. L’idolatria è il peccato fondamentale al quale sono riconducibili tutti gli altri elencati nelle tavole della legge. L’idolatria si sostanzierà ogni volta che verrà rimossa dal piedistallo, che abbiamo in noi, la fiducia nel Signore e l’obbedienza ai suoi precetti, e che al suo posto innalzeremo l’oggetto delle nostre passioni, dalle quali potrà scaturire il furto, l’omicidio, l’adulterio, la concupiscenza, la falsa testimonianza, tutto ciò insomma che si sarà ossessivamente impadronito del nostro cuore e dei nostri occhi, sostituendosi alla parola del Signore. L’idolatria si annida tuttora insidiosa nel nostro vivere quotidiano e sarà dunque idolatria la “lashon hara”, la maldicenza e la calunnia, colpe talmente gravi da essere equiparate dai rabbini all’omicidio, in quanto l’azione di distruggere la reputazione di una persona è ritenuta comparabile all’averla uccisa fisicamente. Idolatria sarà abbandonarsi al totale dominio del nostro egoismo al punto tale da non riuscire più a dare ascolto alle parole dell’altro.

Il capitolo 14 detta poi le norme per la “kasherut”, che in sintesi stabiliscono che sia consentito mangiare:
- tutti i quadrupedi che abbiano lo zoccolo spaccato in due e che siano ruminanti;
- tutti i pesci che siano provvisti di pinne e squame;
- tutti gli uccelli ad eccezione dei rapaci in genere ed altri che non sono solitamente ritenuti commestibili (è da segnalare come non consentito lo struzzo, del quale in questi ultimi anni sono stati realizzati allevamenti nel nostro paese).

Vige inoltre l’obbligo della decima di ogni prodotto dei campi che ogni anno dovrà portarsi nel luogo scelto dal Signore:

… e dovrai mangiare dinanzi al Signore tuo Dio nel luogo che Egli scelse per far ricordare il Suo nome la decima parte del tuo grano, del tuo mosto e del tuo olio e i primogeniti del tuo bestiame grosso e minuto, onde tu impari a temere per tutta la tua vita il Signore tuo Dio.

Se, a causa della distanza, non fosse possibile portare le decime, queste potranno essere convertite in denaro ed arrivati al luogo prescelto dal Signore si potrà acquistare sul posto bestiame grosso e minuto, vino, liquori e quant’altro si desidera per poter offrire i sacrifici e mangiare davanti al Signore. Questa prescrizione, incidentalmente, ci aiuta a comprendere quel passo del “Vangeli” cristiani in cui si dice che “Gesù” scacciò dal tempio i cambiavalute ed i venditori di colombe, e questo avvenne a Pesah. Occorre infatti considerare che durante le feste di pellegrinaggio (Sukkot, Pesah e Shavuot) la presenza di cambiavalute, di venditori di animali e di prodotti idonei per i sacrifici nelle immediate vicinanze del santuario era del tutto normale e ciò per dar modo a chiunque, specie a chi proveniva da lontano, di potersi procurare sul posto i prodotti necessari per le offerte del sacrificio. Insomma durante le feste di pellegrinaggio l’aspetto delle adiacenze del Tempio era quello di un grande mercato, peraltro lecito perché funzionale al culto e perché previsto dalla Torà.

Ogni tre anni la decima avrebbe dovuto lasciarsi nella propria città e sarebbe stata destinata al Levita, al forestiero, all’orfano, alla vedova.

Ogni sette anni sarebbe avvenuta la remissione dei propri crediti nei confronti dei debitori appartenenti al proprio popolo, mentre sarebbero rimasti esigibili solo quelli nei confronti dello straniero. Sempre ogni sette anni sarebbe avvenuta la liberazione dello schiavo ebreo, a meno che egli non esprimesse il desiderio di rimanere con il suo padrone.

Per quanto riguarda i poveri le parole di Mosè furono:

Quando in mezzo a te si trovi un povero, uno dei tuoi fratelli in una delle città del tuo paese che il Signore ti concede, non dovrai indurire il tuo cuore né chiudere la tua mano al tuo fratello povero.

Tu devi dargli ciò che ha bisogno e non deve dolersi il tuo cuore quando glielo darai perché proprio per questo atto ti benedirà il Signore tuo Dio in tutte le tue azioni ed in tutto ciò che tu intraprenderai. Poiché il povero non mancherà mai nel paese, io ti ho comandato: apri la tua mano al tuo fratello povero ed al misero nel tuo paese.

Questo precetto di soccorrere il povero fa il paio con quello della parashà “Ekev” della scorsa settimana, nella quale si prescriveva di soccorrere lo straniero. Sono precetti di attualità ancora al giorno d’oggi che ci inducono a distinguere il povero transitorio, occasionale, caduto in povertà per disgrazia e che vuole rialzarsi da questa condizione, dal povero stabile, che si è adattato a vivere in modo parassitario ai margini della società. Nel primo caso l’aiuto economico che possiamo offrire sarà efficace, nel secondo occorre un recupero sociale che non è limitato ad una questione economica, ma che si estende allo studio delle cause del disadattamento ed all’attuazione di complessi interventi correttivi.

Il capitolo 16 che conclude la parashà enumera le prescrizioni per le feste di pellegrinaggio. Per “Pesah” si offrirà il sacrificio pasquale di ovini e bovini nel luogo scelto dal Signore per il Santuario, sarà vietato per sette giorni di mangiare e detenere qualsiasi cosa lievitata, sarà vietato che la carne immolata il pomeriggio del giorno precedente la festa rimanga durante la notte e fino al mattino. Per sei giorni si mangerà pane azzimo e nel settimo giorno vi sarà una riunione in onore del Signore e non si lavorerà.
Per “Shavuot”, festa della mietitura, sarà recata l’offerta al Signore e si festeggerà con la propria famiglia, con gli schiavi, con il Levita, con il forestiero, l’orfano e la vedova.
Con modalità del tutto analoghe, ma per sette giorni, verrà celebrata “Sukkot” recando le offerte al Signore e festeggiando collettivamente.

Shavuà tov.
Danièl Siclari


Haftarà di Reè
(Is.54,11-55,5)

Trascrivo di seguito alcuni passi di questa haftarà di Isaia, che ne rendono percepibile la tensione emotiva.

“Sono Io che ho creato il fabbro che soffia sul fuoco di carbone e ne trae uno strumento per il suo lavoro; sono Io che ho creato il distruttore per devastare. Ogni strumento che sia fatto contro di te non riuscirà, ogni lingua che si alzi contro di te in giudizio tu la dimostrerai colpevole.”

“O voi tutti che siete assetati, venite all’acqua, anche chi non ha denaro: venite e rifornitevi e mangiate; venite e rifornitevi senza denaro di vino e di latte. Perché pagare denaro e non avere cibo? Perché dare il profitto delle vostre fatiche e non saziarvi?”

“Porgetemi orecchio, venite a Me, ascoltate e vivrete, Io stabilirò con voi un patto eterno, vi darò i favori duraturi promessi a David.”

“Gente che non conoscevi tu chiamerai, popoli che non ti conoscevano a te correranno, in grazia del Signore Tuo D-o e del Santo d’Israele che a te dà gloria.”

domenica 21 luglio 2013

Ekev

(Deu.7,12-11,25)

La parola ekev significa “per conseguenza” o anche “per ricompensa” quando sussista una prospettiva ottimistica di una conseguenza ad una azione positiva.

Mosè prosegue nel suo discorso, dicendo al popolo che, se eseguirà le leggi che gli sono state comandate, allora “per ricompensa” sarà amato, benedetto e si moltiplicherà, perché benedetto sarà il frutto del suo ventre, quindi i suoi figli, e benedetto sarà il frutto della terra, grano, mosto, olio, e benedetti infine i parti del suo bestiame, grosso e minuto.

Benedetto fra tutti i popoli, cioè distinto fra essi perché di lui si dirà bene, sarà allora il popolo d’Israele, che, grazie all’intervento del Signore, conquisterà la terra promessa, sconfiggendo gli altri popoli che la abitano, pur essendo questi al suo confronto molto più potenti.

Tu divorerai tutti i popoli che il Signore tuo Dio è per dare in tuo possesso, non avrai pietà di loro e non servirai i loro dèi perché questo sarebbe per te causa di rovina.

Il Signore tuo Dio manderà contro di loro il calabrone, finché periranno coloro che saranno scampati e coloro che si saranno nascosti davanti a te.

Il Signore tuo Dio scaccerà quelle nazioni dalla tua presenza poco a poco; non potrai distruggerli rapidamente affinché non abbiano a moltiplicarsi contro di te le belve della campagna.

“Divorare tutti i popoli” è una locuzione che rende molto bene l’idea del fagocitare, dell’assorbire, dell’assimilare, del rendere simili a sé, distruggendo i loro dèi ed i loro riti, perché nei loro dèi e nei loro riti si annida l’insidia più terribile, la più aborrita: l’idolatria e la perdita della fiducia del Signore. Il Signore sterminerà gli idolatri superstiti, anche quelli che si saranno nascosti, e ciò per impedire che possa sopravvivere con essi l’idolatria nella terra che il Signore avrà dato al popolo d’Israele.

La cacciata degli idolatri sarà graduale per dar modo al popolo d’Israele di organizzarsi nel soppiantare quelle popolazioni e con ciò sarà impedito che la terra, altrimenti abbandonata, impoverisca ed inselvatichisca. Naturalmente lo sterminio è riferito alle popolazioni che vorranno perseverare nei loro culti idolatri e non a coloro che, abbandonata l’idolatria, si uniranno al popolo d’Israele nella fiducia nel Signore.

Rammenta Mosè i quarant’anni di peregrinazione nel deserto, che costituirono una prova severa per conoscere se il popolo avrebbe osservato i precetti del Signore o se ne sarebbe allontanato. Ricorda Mosè anche la fame che il popolo dovette patire, ma anche la manna che Egli inviò da cielo perché essi avessero a sfamarsi.

Egli ti umiliò, ti fece provare la fame e ti dette da mangiare la manna che non conoscevi e che non avevano conosciuto i tuoi padri, per farti sapere che l’uomo non vive di solo pane, ma che egli può vivere di tutto ciò che esce dalla volontà espressa dal Signore.

Evidente è qui il connubio tra il significato reale e concreto di avere sfamato un popolo, rivelando loro le risorse che la natura offre per alimentarci quando vengano a mancare i cibi ai quali siamo tradizionalmente abituati, ed il significato simbolico di alimento costituito dalla fiducia nel Signore ed in quanto d’insolito, sorprendente, inaspettato Egli può porre sulla nostra strada per risolvere le più gravi difficoltà nelle quali ci troviamo ad imbatterci.

Ammonisce quindi Mosè il popolo affinché, quando esso verrà in possesso della buona terra che il Signore gli avrà dato e mangerà e si sazierà dei suoi frutti, non abbia ad insuperbirsi ed a dimenticare il Signore.

Ma ti ricorderai invece del Signore tuo Dio perché è Lui che ti concede la forza di procurarti il benessere per mantenere fede al patto che giurò ai tuoi padri, come avviene oggi.

Non dunque per la tua rettitudine e per l’onesta del tuo cuore tu pervieni a possedere la loro terra, ma per la malvagità di questi popoli il Signore tuo Dio li caccia davanti a te, al fine di mantenere ciò che giurò ai tuoi padri, Abramo, Isacco e Giacobbe, e Tu saprai dunque che non è per la tua rettitudine che il Signore tuo Dio ti concede questa buona terra in possesso, perché tu sei un popolo dalla dura cervice.

Quindi Israele non avrebbe mai potuto conquistare la terra promessa con le sole proprie forze, se non avesse avuto dalla sua parte il Signore. Ed inoltre il Signore avrebbe condotto il popolo alla conquista della buona terra non perché ne avesse ravvisato virtù meritevoli, semmai sarebbe stato per la malvagità dell’idolatria dei popoli che la occupavano. Ma soprattutto l’unico vero motivo per il quale il Signore condurrà il Suo popolo alla conquista della terra promessa è il patto giurato ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

Ed a riprova dei loro demeriti Mosè rammentò al popolo la vicenda del vitello d’oro, da loro fabbricato proprio mentre lui riceveva sul monte Chorev le due tavole di pietra scritte dalla mano del Signore. Ricordò come per lo sdegno e l’ira lui le avesse spezzate e come avesse trascorso i successivi quaranta giorni senza mangiare e senza bere in espiazione dei loro peccati e rammentò come li avesse salvati dall’ira del Signore.

Infatti io temevo per lo sdegno e l’ira concepiti contro di voi dal Signore che minacciava di distruggervi. Ma il Signore mi dette ascolto anche questa volta. Anche contro Aron si era sdegnato molto il Signore tanto che voleva distruggerlo, ma io pregai anche in favor suo in quel tempo.

Aron, fratello di Mosè, che abbiamo conosciuto come la voce di un Mosè balbuziente davanti al Faraone, primo Gran Sacerdote del Santuario, eppure così debole se privato della guida di suo fratello, il condottiero ispirato da Dio. La colpa di Aron era stata gravissima: quando il popolo, non vedendo tornare Mosè dal monte, gli chiese "facci un Dio", egli acconsentì e permise la fabbricazione del vitello d’oro e che venissero celebrati riti pagani.

Al ritorno di Mosè dal monte per la purificazione dalla colpa di avere adorato il vitello d’oro morirono tremila dei fuorusciti dall’Egitto, su delazione dei propri fratelli e dei propri compagni, ma Aron fu salvo. I sostenitori di Aron affermano che egli nella vicenda fu accondiscendente allo scopo di prevenire il manifestarsi di possibili disordini e magari la disgregazione del popolo, se ancora una volta avesse preso corpo ed avesse prevalso l’idea del ritorno alla terra degli schiavi.

Ma forse Aron non è stato accondiscendente per una questione di accortezza e di calcolo. Potrebbe essere invece, per la complementarità dei due fratelli, che Aron sia stato un debole, come se la personalità, la forza del fratello Mosè, alla cui ombra egli ha vissuto, avesse prosciugato anche le sue energie. E’ salvo Aron, forse immeritatamente se confrontiamo la sua colpa con la drammatica vicenda dei suoi due figli che verranno inceneriti non per una mancanza ma per un eccesso di zelo dovuto a palese inesperienza. Aron deve la sua salvezza unicamente all’intercessione di suo fratello Mosè. Così come tutto il popolo d’Israele deve a Mosè la salvezza, per avere placato l’ira del Signore, quando Egli avrebbe voluto distruggerlo sdegnato per le sue colpe. Eppure Aron ebbe una punizione molto grande, molto dolorosa, che l'avrebbe marchiato per tutta la vita: egli vide morire appunto i suoi due figli primogeniti che furono inceneriti dal Signore davanti ai suoi occhi.

Qui è la grandezza di Mosè, condottiero, guida, forgiatore del popolo, ma soprattutto capace non solo di ascoltare, ma anche di dialogare con il Signore, al punto tale di convincerlo, di legarlo nuovamente a sé ed al Suo popolo.

E qui è la grandezza del Signore d’Israele, che si rende accessibile all’uomo da Lui creato assumendo comportamenti che tanto sono simili a quelli della creatura, che Egli ha creato a Sua immagine e somiglianza.

Rammentato il taglio delle nuove tavole di pietra e la costruzione dell’arca della Testimonianza, Mosè ricorda anche la morte del fratello Aron e la nomina al sacerdozio di El’azar e quindi la designazione della tribù di Levi per il servizio del Santuario.

Infine egli dice al popolo quanto a lui stesso ebbe a dire il Signore:

Va’, passa in testa al popolo e va’ a conquistare la terra che giurai ai loro padri di dar loro.

Rivolge quindi Mosè una vibrata esortazione al popolo affinché apra il proprio cuore e si disponga per percepire ed eseguire i precetti del Signore:

Circoncidete il prepuzio del vostro cuore e non siate più duri di cervice, perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi ed il padrone dei padroni, Iddio grande, potente e terribile, inflessibile e incorruttibile, che fa la giustizia dell’orfano e della vedova e che ama lo straniero dando loro cibo e vestiti. Amerete lo straniero perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto. Temerai il Signore tuo Dio, Lo servirai, ti attaccherai a Lui e giurerai nel Suo nome.

Il riferimento allo straniero cui dare cibo e vestiti è di grande attualità in questa nostra Italia, che, flagellata da una severa situazione economica e consapevole di un dissesto sociale ancora in fase emergente, teme in modo preconcetto lo straniero e non stenta a distinguere tra gli emarginati lo straniero bisognoso della più elementare sussistenza dallo straniero che invece è alla ricerca di una ricchezza da trovare magari ai margini o al di fuori della legalità. Allo straniero bisognoso daremo assistenza senza temerlo, aprendo il nostro cuore, dando a lui quanto necessario perché possa risollevarsi e riprendere a procedere autonomamente, senza pretendere da lui alcuna restituzione: il Signore non ci farà impoverire per questo, al contrario saremo più ricchi, nel nostro cuore.

Segue al capitolo 11, versetti da 13 a 21, il brano che costituisce la seconda parte dello Shemà:

Se dunque ascolterete i precetti che Io vi comando oggi, di amare cioè il Signore vostro Dio e di servirlo con tutto il vostro cuore e tutta la vostra anima, Io concederò alla vostra terra la pioggia a suo tempo, quella autunnale e quella primaverile, e tu potrai raccogliere il tuo grano, il tuo mosto ed il tuo olio; farò crescere l’erba nel tuo campo per il tuo bestiame e tu potrai mangiare e saziarti. Guardate bene però che il vostro cuore non sia sedotto e vi sviate, servendo altri dèi e prostrandovi a loro. La collera del Signore divamperebbe contro di voi! Egli chiuderebbe il cielo, non ci sarebbe più pioggia e la terra non potrebbe più dare il suo prodotto e voi scomparirete ben presto dalla buona terra che il Signore sta per darvi. Ma voi porrete invece queste mie parole nel vostro cuore e nella vostra anima, le legherete come segno sul vostro braccio e saranno come frontali fra i vostri occhi. Le insegnerete ai vostri figli parlandone con loro stando in casa, quando cammini per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le scriverai anche sugli stipiti delle porte della tua casa e in quelle della tua città, affinché si prolunghi la vostra vita e quella dei vostri figli nella terra che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri per l’eternità.

L’essere umano che vivrà la propria vita seguendo con assiduità i precetti del Signore non avrà debolezze e non sarà colto alla sprovvista e saprà superare serenamente ogni difficoltà, come se simbolicamente la pioggia fosse sempre venuta a tempo debito ed i raccolti fossero stati sempre sufficienti, così pure il foraggio per il suo bestiame. Il precetto di porre queste parole nel proprio cuore e nella propria anima e di legarle al proprio braccio e porle fra i propri occhi conduce l’ebreo ad indossare giornalmente i “tefillìn”. Analogamente alla prescrizione di scrivere queste parole sugli stipiti delle porte si deve l’uso di affiggere la “mezuzàh” sullo stipite destro della porta d’ingresso della propria casa.

Si conclude la parashà con una predizione che appare andare oltre la fase più immediata della conquista della terra promessa, il cui territorio era stato già in precedenza definito come la terra che va dal Giordano al mare. L’ultima frase risuona come una profezia di più vasta portata temporale e territoriale che promette al popolo che amerà e servirà il Signore territori che si estendono dall’Eufrate al mare e dal Libano al quel deserto, che incontrarono dopo la traversata del Mar Rosso.

Poiché se voi osserverete tutti questi precetti che Io vi ho comandato di eseguire, amando cioè il Signore vostro Dio, seguendo tutte le Sue vie e rimanendo a Lui attaccati, il Signore caccerà da davanti a voi tutte queste nazioni e diverrete i dominatori di nazioni più grandi e più potenti di voi. Ogni località che la pianta del vostro piede calcherà sarà vostra dal deserto al Libano, dal fiume Eufrate fino al Mediterraneo si estenderà il vostro territorio.

Questa frase può essere intesa in senso letterale e quindi come una profezia che prevede la formazione di un super stato di Israele che arrivi a comprendere i territori che attualmente appartengono alla Siria, alla Giordania ed al Libano. Ma la frase può assumere una dimensione molto più imponente, qualora se ne compia un’interpretazione svincolata dal significato letterale. In questo caso per la sua interpretazione occorre tener presente che un territorio così definito corrispondeva praticamente a tutto il mondo all’epoca conosciuto, delimitato dalle due superpotenze esistenti, l’Assiria e l’Egitto, e dal mare e dal deserto. In questa ottica quindi la frase sottende un messaggio universale secondo cui, se Israele osserverà i precetti dettati dal Signore, così da costituire il riferimento certo per tutte le nazioni, in quanto popolo di sacerdoti, l’idolatria sarà sconfitta e la fiducia nel Signore si estenderà a tutto il mondo ed a tutti i popoli.




Haftarà di Ekev
(Sintesi da Is.49,14-51,3)

“Così dice il Signore: ‘Dov’è il documento di separazione di vostra madre, che provi che Io l’ho ripudiata? O chi è un Mio creditore a vantaggio del quale vi abbia venduti? Per le vostre colpe è stata ripudiata vostra madre. Perché, quando Io sono venuto, non c’era nessuno, quando Io ho chiamato, nessuno ha risposto? Forse che il Mio braccio è troppo corto per redimere, o forse che Io non ho la forza di salvare? Ma se Io posso, con il Mio grido, seccare il mare, trasformare i fiumi in deserto sicché ne muoiano di sete i pesci e imputridiscano per mancanza d’acqua, rivestire i cieli di bruno e dar loro per vestito il sacco!’”

“Ascoltatemi, o voi che andate dietro alla giustizia, o voi che ricercate il Signore, guardate alla roccia da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo vostro padre ed a Sara vostra genitrice. Io l’ho chiamato quando era solo, l’ho benedetto e l’ho moltiplicato. Certo il Signore ha deciso di consolare Sion, di consolarne le rovine, di rendere il suo deserto uguale all’Eden, la sua steppa uguale al giardino del Signore; là vi saranno gioia e letizia, inni di ringraziamento e voci di canto.”

giovedì 18 luglio 2013

Vaethchannan

(Deut.3,22-7,11)

Mosè prosegue la sua narrazione al popolo rammentando quando egli, alle soglie della terra promessa, chiese al Signore di consentirgli di oltrepassare il Giordano per vedere la buona terra che era al di là, i bei monti ed il Libano. Ma il Signore non dette il Suo consenso e si adirò, “per colpa vostra” disse Mosè rivolto al popolo, ma sapeva invece che la causa del diniego era da attribuire alla propria disubbidienza, verificatasi quando egli non eseguì il comandamento del Signore, che gli aveva detto di far sgorgare l’acqua parlando alla roccia e non battendola con il bastone, come invece egli fece. Se avesse parlato alla roccia, avrebbe potuto dire che il prodigio che egli comandava era volontà del Signore e non opera sua e che il Signore, per suo tramite, si serviva della parola, così come era avvenuto per la creazione, quando ogni giorno Egli aveva fatto precedere la parola all’atto creativo. Dunque il Signore confermò a Mosè che egli non avrebbe passato il Giordano e che invece alla testa del popolo nella conquista della terra promessa sarebbe stato Giosuè.

Mosè esortò gli Israeliti a rispettare gli statuti e le leggi che egli insegnava, affinché essi potessero pervenire a possedere il paese che il Signore intendeva dar loro: “Non aggiungete niente a quanto io vi comando e non togliete nulla osservando i precetti del Signore vostro Dio, che io vi comando”.

Rammentò Mosè ad Israele il giorno in cui il popolo si presentò al Signore, davanti al monte Chorev: “Egli vi espose il Suo patto che vi comandò di eseguire: dieci comandamenti che Egli scrisse su due tavole di pietra. In quel medesimo tempo il Signore mi comandò di insegnarvi statuti e leggi perché li mettiate in pratica nel paese che voi state per cominciare a conquistare”.

Poiché al monte Chorev, quando fu udita la parola del Signore, non fu vista alcuna immagine, per questo motivo il popolo non avrebbe dovuto fare alcuna raffigurazione, né di esseri umani, né di animali di qualsiasi tipo, né tanto meno avrebbe adorato il sole, la luna e le stelle della volta celeste.

“Io chiamo oggi a testimoni il cielo e la terra che se quando genererai dei figli e avrai dei nipoti e sarete divenuti vecchi nel paese e commetterete delle colpe facendovi immagini riproducenti qualsiasi cosa e farete ciò che è male agli occhi del Signore Iddio facendolo adirare, in breve sparirete da quella terra, per possedere la quale voi passaste il Giordano; non prolungherete i vostri giorni su di essa perché sarete distrutti. Il Signore vi disperderà fra i popoli e rimarrete una minoranza presso le nazioni verso le quali il Signore vi avrà condotto. Là voi servirete degli dèi opera delle mani dell’uomo, di legno e di pietra, che non vedono e non odono, non mangiano e non odorano. Di là voi ricercherete il Signore tuo Dio e tu Lo ritroverai quando Lo ricercherai con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima. Quando in avvenire ti troverai angustiato essendoti capitate tutte queste vicende, tornerai al Signore tuo Dio ed ascolterai la Sua voce. Siccome il Signore tuo Dio è un Dio pietoso, non ti abbandonerà, non ti distruggerà e non dimenticherà il patto che giurò ai tuoi padri”.

Qui si dice che se Israele farà adirare il Signore, per aver smarrito la fiducia in Lui, allora Israele sarà distrutto. Ma la distruzione che il Signore infliggerà al Suo popolo per punirlo dei suoi peccati non sarà la cancellazione dell’esistenza del popolo, non sarà la morte di tutto il Suo popolo, sarà invece la dispersione, la schiavitù, l’umiliazione, che durerà fintantoché Israele non si renda conto dei propri peccati e di quanto abbia perduto con l’allontanamento dal Signore. Allora Israele potrà ancora ritrovare il Signore, se lo cercherà con tutta l’anima e con tutto il cuore. Ed il Signore sarà pietoso verso Israele e non dimenticherà il patto giurato ai suoi padri.

Il popolo d’Israele durante i quarant’anni del suo peregrinare dalla terra d’Egitto fino alla terra promessa ha veduto il verificarsi di numerosi episodi di eresia, ribellione e sfiducia nella parola del Signore, ed ha visto morire i colpevoli numerosi, tremila, trentamila, ventiquattromila, per l’ira del Signore. Ma l’intero popolo no, l’intero popolo non sarà sterminato perché il Signore terrà fede alla parola data ai Patriarchi.

Mosè disse del patto stabilito dal Signore sul monte Chorev e ripetè al popolo le parole pronunciate dal Signore, che esprimono il Decalogo, le dieci Parole, i dieci Comandamenti:

1) Io sono il Signore tuo Dio, non avrai altri dèi.
2) Non fare e non venerare alcuna immagine.
3) Non pronunciare il nome del Signore tuo Dio invano.
4) Santifica il giorno del Sabato.
5) Onora tuo padre e tua madre.
6) Non uccidere.
7) Non commettere adulterio.
8) Non rubare.
9) Non fare falsa testimonianza.
10) Non desiderare né la moglie, né i beni di altri.


Già in Esodo era narrato che il Signore pronunciò sul monte Chorev le parole della Legge, i Comandamenti del Patto che intese stringere con i figli d'Israele. In quell’occasione questo, sinteticamente, fu l'elenco dei Comandamenti:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al Mio cospetto.Non ti farai alcuna scultura né immagine.
3) Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano.
4) Ricordati del giorno del Sabato per santificarlo.
5) Onora tuo padre e tua madre.
6) Non uccidere.
7) Non commettere adulterio.
8) Non rubare.
9) Non fare falsa testimonianza.
10) Non desiderare ciò che appartiene ad altri.


Notiamo in questo elenco alcune difformità rispetto a quello di Deuteronomio. Se ci soffermiamo sui primi due Comandamenti e confrontiamo le traduzioni dei due passi biblici secondo la Bibbia Ebraica a cura di Rav Dario Disegni, osserviamo una lieve differenza formale, che però può dar luogo a dubbi interpretativi.

Infatti in Esodo nel primo capoverso figurano unicamente le parole "Io sono il Signore Dio tuo" e nel secondo sono le parole "Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non ti farai alcuna scultura né immagine".

In Deuteronomio invece fanno parte del primo capoverso sia le parole "Io sono il Signore tuo Dio", sia le parole "Non avrai altri dèi al mio cospetto", mentre al secondo capoverso sono le parole "Non ti farai alcuna scultura nè immagine".

Il testo ebraico non ci aiuta a questo proposito perché, non esistendo la forma del punto e a capo non ci sono capoversi, ed esso è quindi costituito da una semplice sequenza di frasi.

In sostanza il dubbio che si profila riguarda la scritturazione dei primi due comandamenti e precisamente se, invece di quella sopra riportata non debba invece intendersi la seguente:

1) Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altri dèi al mio cospetto.
2) Non ti farai alcuna scultura nè immagine.


Questa versione, adottata in altre fonti, conferisce rilievo autonomo alla prescrizione contraria a sculture ed immagini e costituisce la radice della concezione iconoclastica.

Potremmo però ragionare ritenendo che il divieto di fare sculture e immagini sia stato espresso non di per sé, ma nel fondato timore che queste possano divenire oggetto di culto e adorazione, come del resto avvenne nell’episodio del vitello d'oro. Possiamo inoltre tener presente il fatto che il solo comandamento di riconoscere il Signore come proprio Dio non esclude di per sè il riconoscimento di altri dèi e perciò è impartito il secondo comandamento, sicché avremmo:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non ti farai alcuna scultura né immagine.


Ora se il divieto di sculture e immagini è impartito allo scopo di evitare che possano divenire oggetto di culto e adorazione, ecco che questo divieto è assorbito dalla prima parte "Non avrai altri dèi al mio cospetto" e in definitiva la scritturazione sintetica dei primi due Comandamenti diviene:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al mio cospetto.


conforme quindi alla formulazione riportata in Esodo.

Un'altra considerazione ancora merita di essere fatta a proposito del settimo Comandamento, per il quale altre fonti propongono la dizione "Non commettere atti impuri", come riportato, ad esempio, nel Decalogo in uso per la catechesi cattolica e cioè:

Ascolta Israele! Io sono il Signore Dio tuo:
1) Non avrai altro Dio all'infuori di me.
2) Non nominare il nome di Dio invano.
3) Ricordati di santificare le feste.
4) Onora il padre e la madre.
5) Non uccidere.
6) Non commettere atti impuri.
7) Non rubare.
8) Non dire falsa testimonianza.
9) Non desiderare la donna d'altri.
10) Non desiderare la roba d'altri.


In questo Decalogo il Comandamento, che nell'elenco da settimo è diventato sesto, non risulta in nessuno dei due passi biblici e pare fornire una visione non coerente con la finalità sociale che si intravede nei Comandamenti dal quinto al decimo. Pertanto resterebbe confermatala la validità della dizione:

7) Non commettere adulterio.

E’ da segnalare infine l'atipicità del decimo Comandamento, conclusivo della sequenza dei cinque comandamenti negativi, che prescrivono cioè le cose da non fare, perché quello che viene richiesto di non commettere non è in questo caso un'azione ma un pensiero, un desiderio, forse un’ossessione che è causa di deviazione dall’adorazione del Signore per chi lo prova, ma che certamente finché rimane tale non produce danno ad altri.

10) Non desiderare ciò che appartiene ad altri.

Con questa dizione si intende comprendere sia la donna, sia i servi, sia i beni materiali che agli altri appartengono.

Questo Comandamento, che condanna il pensiero e non l’azione, appare perciò il più severo e c’è da chiedersi la ragione di questa particolarità. E' un Comandamento verso sé stessi e non verso gli altri e trova giustificazione nella scelta che deve compiersi mirata alla disciplina del controllo e della repressione del desiderio, che ci conduca a dare valore a ciò che abbiamo e non a ciò che vorremmo avere.

La terza parte dello Shemà (Nu.15,37-41) recita:

“E parlò Adonai a Moshè, dicendo: parla ai figli d’Israele, e dirai loro di fare, per loro e per tutte le loro generazioni Tzitziòt sulle ali estreme dei loro vestiti, e porranno sulla Tzitzìt all’estremità un filo azzurro. E sarà per voi come Tzitzìt, e guardando ricorderete tutte le mitzvòt del Signore, e le osserverete. E non vi perderete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, perché vi prostituireste seguendoli. Affinché ricordiate ed osserviate tutti le mie mitzvòt e di distinguiate per il vostro Signore. Io, Adonai vostro Signore, che vi ho tratti dalla terra d’Egitto per essere vostro Signore. Io, Adonai, vostro Signore.”

Ecco allora la chiave che ci fa comprendere la ragione di questa severità. Avere desideri è una normale condizione umana, ma perdersi dietro ad essi al punto di farne un’ossessione o di essere indotti a compiere azioni conseguenti che ledono diritti altrui, è deprecabile soprattutto perché, ciò facendo, eleggiamo a idolo l’oggetto dei nostri desideri e deviamo quindi dalla linea direttrice che il Signore ha tracciato per noi.

L’idolatria quindi si conferma ancora una volta come il peccato principale, quello al quale sono in sostanza riconducibili tutti gli altri. L’idolatria, che non è solamente l’adorazione di una stele o di una statua, così come non è solamente argomento di culto religioso. L’idolatria ci insidia tutti i giorni, tutte le volte che lasciamo prevalere il nostro egoismo, tutte le volte che ci mostriamo sordi alle parole dell’altro. Ecco perché è stato posto questo freno, che non vuol conseguire l’annullamento dei nostri desideri, perché questi fanno parte della nostra natura umana, ma la loro moderazione, il loro controllo, affinché non assumano il sopravvento sui princìpi secondo cui intendiamo regolare la nostra vita.

A questo punto Mosè proseguì esortando il popolo ad ascoltare ed osservare gli statuti ed i precetti allo scopo di poter vivere felicemente nella terra stillante latte e miele:

“Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore, le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le legherai per segno sul tuo braccio e saranno come frontali fra i tuoi occhi e le scriverai sugli stipiti delle tue case e delle porte della città.”

Sono queste le parole con le quali inizia la preghiera dello “Shemah”, che ogni ebreo recita almeno due volte al giorno e da queste parole traggono origine anche i “Tefillin”, che si legano al braccio e sulla fronte, e le “Mezuzoth” affisse sugli stipiti delle porte.

Disse infine Mosè al popolo che, quando sarebbero entrati nella terra promessa e l’avrebbero posseduta, sconfiggendo con l’aiuto del Signore le popolazioni ivi esistenti e ben più numerose ed agguerrite di loro, avrebbero dovuto distruggerle completamente, senza scendere a patti, senza consentire matrimoni misti. Gli altari, le immagini, le steli e i legni consacrati di quelle popolazioni avrebbero dovuto essere spezzati e bruciati nel fuoco.

La preoccupazione è sempre la stessa: che il popolo, ancora una volta, possa essere contaminato dall’idolatria praticata da quelle popolazioni con le quali si viene a contatto. Si parla di distruzione di questi popoli e poi sappiamo che di fatto ciò non avvenne completamente, si parla di vietare i matrimoni misti ed invece sappiamo che dalla cananea Tamar, unitasi a Giuda, discenderà la stirpe di David. Allora questa distruzione va intesa non come eliminazione indiscriminata, ma circoscritta invece a coloro che perseverano nella professione dell’idolatria e certamente non a chi si dichiara disposto ad abbandonarla per unirsi al Signore ed al suo popolo.



Haftarà di Vaetchanan
(Is.40,1-40,26)

Il sabato in cui si legge la parashà di Vaetchanan è sempre il primo sabato dopo il 9 di Av. Per questo motivo le Haftarot di questo sabato e dei sei sabati successivi non trattano argomenti riconducibili alle rispettive parashot, ma hanno invece contenuto consolatorio, e sono tratte tutte dalla seconda parte del libro di Isaia, nella quale è annunciato il risorgimento di Israele dopo l’esilio.

“Consolate, consolate il Mio popolo, dice il vostro D-o. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che è compiuto il tempo del suo servizio, che è espiato il suo peccato perché essa ha ricevuto dalle mani di D-o il doppio del corrispondente a tutti i suoi peccati.”

domenica 7 luglio 2013

il nove di Av

Il nove di Av, Tisha Beav, è il giorno di maggior lutto del calendario ebraico. La tradizione colloca in questo giorno sia la distruzione del primo Tempio, avvenuta nell’anno 586 a.e.v. ad opera dei Babilonesi, sia la distruzione del secondo Tempio, avvenuta nell’anno 70 e.v. ad opera dei Romani. A questa data vengono collegate anche altre calamità che hanno colpito il popolo ebraico nella diaspora, compreso l’editto del 1492 di espulsione dalla Spagna (v. Arthur Green, Queste sono le parole, p.328), come pure il rogo dei libri talmudici avvenuto a Parigi nel 1244. Si ricordano anche, oltre la distruzione delle comunità sefardite di Andalusia ed Aragona, anche le distruzioni delle comunità aschenazite nella Germania e nella Francia (v. Yeshayahu Leibowitz, Le feste ebraiche, p. 104).

E’ una giornata di digiuno totale, dal crepuscolo della sera precedente fino al calare della sera, per un totale di venticinque ore. La sera la Sinagoga è oscurata e la Comunità siede su panche basse o sul pavimento. Vengono intonati i versi del rotolo delle “Lamentazioni” di Geremia, ai quali segue la lettura delle “kinot”, lamentazioni funebri per lo più di epoca medievale.

La mattina seguente proseguono le lamentazioni funebri e non si indossano i “tefillìn” in segno di estrema angoscia. L’obbligo quotidiano di indossarli verrà rispettato solamente nel pomeriggio per il servizio di “Minchàh”.

Le “Lamentazioni” di Geremia sono contenute nel terzo libro delle Meghilloth, che prende il nome di “Echà” dalla prima parola del testo, che significa “Come mai”. Si tratta di una raccolta di elegie ispirate al disfacimento del Regno di Giuda ad opera dei Babilonesi, e quindi alla distruzione del Tempio di Gerusalemme ed all’esilio del popolo ebraico.

Questi avvenimenti catastrofici sono trattati, spiegati e commentati non, come usualmente si farebbe al giorno d’oggi, sulla base di considerazioni politiche, economiche e militari, bensì conformandosi esclusivamente a considerazioni di tipo religioso. Ecco che allora non si fa un ragionamento, che parta dall’esistenza da sempre nella regione di due grandi potenze, che si contendono la supremazia, cioè l’Egitto e Babilonia, in mezzo alle quali è la terra d’Israele, che potenza non è, e che è esposta a subire le pressioni, le scorrerie ed il vassallaggio imposti dai due imperi.

Si dice invece che nel mondo tutto avviene, sia nel bene, sia nel male, per volontà del Signore, connotandosi gli avvenimenti come premio o come punizione per il popolo d’Israele in relazione all’osservanza delle leggi da Lui impartite. Perciò la sventura della catastrofe, verificatasi con la distruzione del Tempio e la sconfitta e dispersione di Giuda è dovuta alla punizione divina inflitta al popolo ebraico a causa dei suoi peccati.

E’questa una visione completa dal punto di vista religioso, ma fatalmente irrealistica dal punto di vista storico e politico, giacché i veri protagonisti della Storia, vengono trattati qui come comparse incidentali, strumentali, che hanno la funzione di contribuire alla realizzazione degli avvenimenti che acquisiscono significato esclusivamente nel rapporto tra il Signore ed il popolo ebraico. Questa è la visione che chiude la porta al mondo, ma che nel contempo protegge da esso, e questa stessa visione la ritroviamo nell’istituzione del ghetto, luogo dove gli ebrei venivano rinchiusi dai gentili, ma che era anche il luogo dal quale, reciprocamente, gli ebrei escludevano i gentili. E’ la teoria delle due chiavi: una era quella da fuori usata dai gentili; l’altra era quella da dentro usata dagli ebrei.

Ma è proprio questa visione strettamente religiosa è uno dei fattori che hanno consentito la sopravvivenza della peculiare identità ebraica nella diaspora. Avvenne invece per una setta ebraica deviante, cui verrà dato poi il nome di cristianesimo, che questa chiusura venisse scardinata e la concezione di popolo eletto assumesse connotati universali, sia dal punto di vista geografico, sia da quello etnico.

Ma torniamo alle Lamentazioni ed estraiamo quindi dalla loro lettura, non la Storia, come siamo abituati noi a intenderla, ma il significato religioso che risiede nel rapporto tra il Signore e il popolo, tra il Signore e l’essere umano.

Un grave peccato commise Gerusalemme, perciò è diventata immonda: tutti coloro che l’onoravano ora la disprezzano, perché han visto le sue vergogne; anch’essa sospira e si volta indietro. La sua impurità e persino nei lembi delle sue vesti, non si era preoccupata della sua fine e cadde in modo sorprendente; nessuno ora la consola” (Lam.1,8)

Il Signore divenuto nemico, distrusse Israele, atterrò tutti i suoi palazzi, abbattè le sue fortificazioni e fece dilagare in mezzo alla figlia di Giuda il pianto e la disperazione. Devastò la sua capanna come quella d’un orto; distrusse il luogo delle riunioni, il Signore fece dimenticare in Sion il giorno festivo e il sabato e rigettò nel furore della Sua ira re e sacerdote. Il Signore abbandonò il Suo altare, sprezzò il Suo santuario, consegnò le mura dei suoi palazzi in mano dei nemici; questi levarono la voce nella casa del Signore come in giorno di festa. Il Signore aveva deciso di distruggere le mura della figlia di Sion: prese quindi il regolo, non trattenne la mano dal distruggere, ridusse in luttuose condizioni bastioni e mura, che rimasero distrutti insieme. Le sue porte s’affondarono nella terra, Egli schiantò e spezzò le sue sbarre; il suo re e i suoi principi sono esuli tra le genti, non c’è più insegnamento sacerdotale e i profeti non trovano più visioni da parte del Signore.” (Lam. 2, 5-9)

“Il Signore fece ciò che aveva deciso, mise in atto la Sua parola che aveva decretato da tempo, distrusse senza pietà, fece gioire il nemico sopra di te, esaltò la forza dei tuoi avversari.” (Lam. 2, 17)

Questi passi confermano, come già detto, l’interpretazione religiosa degli accadimenti: la catastrofe è avvenuta a causa dei peccati del popolo ebraico, ma non solo essa è avvenuta per volontà del Signore, ma è il Signore stesso che ha distrutto le mura di Gerusalemme, servendosi come proprio strumento dei Babilonesi, è il Signore che ha abbandonato il Suo altare ed il Suo Santuario. Seguono poi dei passi dove si esprime la desolazione per l’abbandono da parte del Signore e si comincia ad invocarne il ritorno.

Segue poi un brano di massima crudezza nel quale si narra dell’abiezione durante l’assedio di Gerusalemme quando si verificarono atti di cannibalismo, che videro le madri nutrirsi delle carni dei propri figli. Il Signore adirato diede alle fiamme Sion distruggendola fino alle sue fondamenta e disperse con gli abitanti, re, falsi profeti e sacerdoti, resi impuri dal sangue innocente di cui si erano macchiati.

Togliesti la pace all’anima mia ed io dimenticai che cosa è il bene. Dissi: è perduta la mia forza, la speranza mia nel Signore.” (Lam. 3, 17)

“Chi mai stabilì una cosa e questa avvenne, senza che il Signore l’avesse comandata? Dall’eccelso non provengono forse il male e il bene? Perché dunque l’uomo si lamenta finché vive, ciascuno per i castighi dei suoi peccati?” (Lam. 3, 37-39)

Ti ammantasti d’ira e ci perseguitasti: uccidesti senza pietà. Ti copristi di una nube affinché non Ti giungesse la preghiera. Ci ponesti come spazzatura e rifiuto in mezzo ai popoli.” (Lam. 3, 43-45)

Invocai il Tuo nome, o Signore, dalle profondità del pozzo, e Tu hai certo sentito la mia voce; non chiudere l’orecchio ai miei sospiri e alle mie grida! Siimi vicino nel giorno in cui Ti invoco; dimmi: Non temere! Difendi, o Signore, la mia causa, rendimi la mia vita!” (Lam. 3, 55-58)

Mani di donne pietose fecero cuocere i propri figli, questi servirono loro da cibo durante la rovina della figlia del mio popolo. Il Signore diede sfogo alla Sua ira, riversando il Suo acceso furore, appiccò a Sion il fuoco che divorò le sue fondamenta. Né i re della terra, né tutti gli abitanti del mondo avrebbero mai creduto che il nemico, l’avversario sarebbe entrato per le porte di Gerusalemme. Ma questo avvenne per i peccati dei suoi falsi profeti, per le colpe dei suoi sacerdoti che avevano versato in mezzo ad essa sangue innocente. Essi barcollavano come ciechi per le strade, insozzati di sangue tanto che non si potevano toccare le loro vesti. Scostatevi!: un impuro! Si gridava. Scostatevi, scostatevi, non toccate!” (Lam. 4, 10-15)

La narrazione si conclude con la proclamazione della fiducia nel Signore e l’invocazione per il ritorno al Signore, così come fu un tempo.

Ricorda, o Signore, ciò che è accaduto a noi, osserva, guarda la nostra vergogna! Il nostro retaggio è passato nelle mani di stranieri, le nostre case sono in mano di estranei. Noi siamo rimasti orfani, senza padre, le nostre madri sono come delle vedove. Beviamo la nostra acqua pagandola, la nostra legna ci viene a caro prezzo. Ci perseguitano con un giogo sul collo, siamo affranti, non c’è dato di riposare. All’Egitto, all’Assiria stendemmo la mano per poterci saziare di pane.” (Lam. 5, 1-6)

Tu, o Signore, resti per sempre, il tuo trono esiste per tutte le generazioni. Perché ci vorrai dimenticare per sempre, abbandonarci per lungo tempo? Facci ritornare, o Signore, a Te ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come in antico. Poiché ormai ci hai veramente rigettato e ti sei grandemente sdegnato contro di noi.” (Lam. 5, 19-22)

La narrazione della meghillah presenta Babilonia come strumento della volontà del Signore. La catastrofe è originata dal peccato e si realizza per l’abbandono del Signore da parte di Israele. Le conseguenze del peccato e dell’abbandono del Signore sono la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. Il rimedio, allora, non è la riconquista di Gerusalemme e la ricostruzione del Tempio, bensì la purificazione ed il ritorno al Signore, che, una volta attuati, avranno come conseguenza la riconquista di Gerusalemme e la ricostruzione del Tempio.

Devarim

(De.1,1-3,22)

Alle soglie della terra promessa e secondo quanto il Signore gli aveva comandato, Mosè parlò al popolo, riepilogando le vicende che avevano vissute insieme lungo tutto il percorso dell’esodo, a partire dall’uscita dall’Egitto.

Rammentò in particolare la decisione della nomina dei giudici e quanto ad essi egli ebbe allora a raccomandare:

Ascoltate le questioni che sorgeranno fra i vostri fratelli e giudicate con giustizia fra un individuo ed il proprio fratello o uno straniero. Non abbiate riguardi nel giudicare, porgete ascolto al piccolo come al grande, non abbiate paura degli uomini poiché la giustizia appartiene a Dio. La cosa che vi sembrerà al di sopra delle vostre possibilità la sottoporrete a me ed io la ascolterò.

Parole sono queste. Parole che oggi lette d’un fiato sembrano così ovvie da non meritare un attimo di riflessione. Ma questo nella nostra epoca non significa che stiamo vivendo in un mondo dove regna sovrana la giustizia, significa invece che siamo ormai talmente avvezzi ad esercitare, o a convivere con l'ingiustizia, da arrivare ad innescare un meccanismo automatico di salvaguardia, che nega che nel nostro agire si sia mai verificata alcuna ingiustizia. Eppure ingiustizia è la nostra supponenza, ingiustizia è il privilegio del nostro egoismo, ingiustizia è il non ascolto dell’altro, ingiustizia è il disprezzo dell’altro, ingiustizia è il non amore.

Ingiusti perché aridi, ciechi, sordi. Oppure ingiusti perché intimoriti, plagiati, perché abbiamo rinunciato ad essere padroni del nostro pensiero e delle nostre azioni. Perché abbiamo perduto il senso della nostra responsabilità, quella responsabilità, che ha fatto di noi degli esseri umani e non delle belve.

Potremmo essere ingiusti anche per simulazione, per recita, per impersonare una figura che stimiamo forte a confronto con la debolezza e l’insignificanza che riteniamo sia la nostra reale connotazione.

A ben vedere la radice dell’ingiustizia è sempre nel peccato unico, fondamentale, matrice di tutti i peccati: l’idolatria. Perché abbiamo rimosso il Signore dal suo piedistallo ed al suo posto abbiamo innalzato egoismo e indifferenza, passioni e disprezzo, simulazione ed irresponsabilità. La giustizia, disse Mosè, appartiene al Signore ed a Lui renderemo conto, non agli uomini.

Proseguendo nella narrazione Mosè ricordò anche la mancanza di fiducia che il popolo ebbe a manifestare, al ritorno degli esploratori ed ascoltando il loro resoconto sulla terra che il Signore aveva promessa al Suo popolo. Questa perduta fiducia fu causa della punizione divina, che portò al protrarsi della peregrinazione nel deserto per altri quarant’anni ed all’esclusione di un’intera generazione dall’accesso a quella terra stillante latte e miele, così a lungo cercata e la cui immagine parve allora svanire dissolvendosi come l’illusione di un miraggio. Fu mancanza di fiducia, fu scoramento, fu fiacchezza. Come poteva un popolo così svuotato e demotivato conquistare un paese, senza credere né nelle proprie forze, né nel sostegno che il Signore avrebbe dato a queste forze? Che la mancanza di fiducia nel Signore non avrebbe consentito la conquista della terra promessa appare evidente quando si consideri che la storia del genere umano, non solo quella del popolo ebraico, è costellata di guerre sante, dove la presenza di Dio al proprio fianco è d’obbligo e genera il fanatismo che centuplica le forze e che conduce alla vittoria. Perfino i regimi che hanno perseguito la morte e non la vita, la distruzione e non l’edificazione, anche questi regimi hanno sostenuto di avere Dio al proprio fianco: i soldati delle armate naziste recavano sulle fibbie dei loro cinturoni la scritta “Gott mit uns”, Dio è con noi.
Questo popolo invece, il popolo del Signore, aveva perso la fede, la fiducia nel proprio Dio. E ad essi peraltro il Signore non aveva lesinato di mostrare prodigi, a partire dall’essere scampati in Egitto dalla strage dei primogeniti, che dimostrassero loro l’alleanza che Egli aveva inteso di stabilire.

Rammentò quindi Mosè la fase finale di avvicinamento alla terra promessa e gli attraversamenti dei territori dove erano insediati altri popoli. Attraversamenti richiesti generalmente con parole di pace, come furono quelle rivolte al re di Cheshbon:

Lasciami passare attraverso la tua terra, soltanto sulla strada io camminerò, non devierò né a destra né a sinistra; tu mi venderai per denaro il cibo ed io mangerò; acqua mi darai per denaro ed io berrò; soltanto lasciami passare a piedi, come fecero per me i figli di Esaù che abitano in Se’ir, ed i Moabiti che stanno in ‘Ar, fino a che io passi il Giordano, dirigendomi verso la terra che il Signore Dio nostro dà a noi.

Era un atteggiamento estremamente rispettoso della proprietà e della sovranità altrui, che trovava le sue radici nei comportamenti dei popoli di pastori, come fino a quel momento era il popolo ebraico, nei riguardi dei territori dei popoli agricoltori, nei quali è d’obbligo non produrre danni e quindi camminare esclusivamente sulle strade, senza esbordare verso i campi coltivati.

Anche questo è un insegnamento purtroppo va perdendosi nel nostro paese, dove ogni giorno dobbiamo constatare che la cosa comune è un concetto generalmente non percepito e la cosa dell’altro non è rispettata e, se non vigilata, è esposta al danneggiamento.

Infine la narrazione si riferisce all’assegnazione alle tribù di Ruben, Gad e parte di quella di Manasse dei territori ad est del Giordano ed a ciò che Mosè comandò loro:

Il Signore vostro Dio vi ha dato in possesso questa terra, voi passerete armati all’avanguardia dei vostri fratelli figli d’Israele, tutti uomini valorosi. Le vostre donne ed i vostri figli ed il vostro bestiame soltanto (io so che avete gran numero di bestiame) rimarranno nelle città che io ho assegnato a voi, fino a che il Signore vostro Dio concederà quiete ai vostri fratelli come a voi ed anche essi possederanno il territorio che il Signore vostro Dio è per dare a loro al di là del Giordano. Allora tornerete ognuno alla proprietà che io vi ho assegnato.

Il comportamento solidale di queste due tribù e mezza verso le altre tribù del popolo d’Israele sostanzia la prova che il popolo ormai costituisce una nazione e che la solidarietà nazionale ha assorbito e superato gli interessi delle singole tribù. Questo popolo litigioso e contestatore dimostra che nei momenti nodali della sua storia sa ritrovare la sua unità e la coscienza di costituire una nazione.



Haftarà di Devarim
(Is.1,1-1,27)

Nella settimana che segue la lettura della parashà di Devarim cade il 9 di Av, Tish’àh be-Av,che è giorno di lutto e di digiuno per Israele. Infatti la tradizione vuole che in questo stesso giorno siano avvenute sia la distruzione del primo Tempio nel 586 a.e.v. ad opera dei Babilonesi, sia la distruzione del secondo Tempio nel 70 e.v. ad opera dei Romani. Per questo motivo viene letta una Haftarà che contiene rimproveri e minacce.

“La vostra terra è una desolazione, le vostre città sono incendiate, quanto al vostro paese, stranieri ne godono il prodotto sotto i vostri occhi: esso è una desolazione, come luogo sconvolto da stranieri.”

“Che me ne faccio Io dei vostri molti sacrifici? Dice il Signore. Sono sazio di olocausti di montoni e di adipe di animali ingrassati; non desidero oltre sangue di tori, di agnelli e di capri.”

“Non continuate a recarmi offerte vane, incenso che Mi è in abbominio, a indire riunioni festive nel capomese e nel sabato.”

“Su, venite a Me e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati sono come stoffa tinta di scarlatto, potranno divenire bianchi come la neve, anche se sono rossi come porpora, potranno divenire come lana. Se acconsentirete ed ascolterete, godrete dei buoni prodotti del paese. Ma se ricuserete e disubbidirete, sarete divorati dalla spada. Sì, perché è la bocca del Signore che ha parlato.”

“Come mai si è trasformata in una prostituta la città prima onesta? Era piena di giustizia, il diritto vi aveva stabile dimora, ed ora omicidi.”

“Ricostituirò i tuoi giudici come prima, i tuoi consiglieri come da principio, e dopo di ciò tu sarai chiamata città della giustizia, metropoli onesta. Sion sarà redenta con il diritto, e i suoi abitanti con la giustizia.”

martedì 2 luglio 2013

Masè


(Num.33,1-36,13)

Siamo arrivati al termine del libro dei Numeri ed il capitolo 33 elenca tutte le tappe del viaggio e le soste del popolo ebraico da quando esso partì da Ra’meses, fino alle soglie della terra di Canaan, dove adesso è giunto. E’ per ordine del Signore che Mosè ha messo per iscritto l’elenco delle tappe di un itinerario, che per essere percorso ha richiesto quarant’anni di tempo: la vita di un’intera generazione.

Ci si può chiedere a cosa serva il lungo elenco di nomi delle località che hanno costituito le tappe, località di arrivo e di partenza del lungo viaggio. Sono paletti, sono le pietre miliari, che consentono di mantenere la concretezza del viaggio, che associano il racconto alla geografia del territorio, che faranno percepire, anche in futuro, quando i ricordi tenderanno a sfumare, che il viaggio non è stato un sogno, non è stato solamente un itinerario di maturazione spirituale, ma un avvenimento reale, e prova ne sarà l’elenco delle località toccate, che sono state località reali, che, semmai capitasse di rivederle, potranno richiamare alla mente l’epopea vissuta con una connotazione storica e non di leggenda.

Il capitolo 33 si conclude con le parole che il Signore disse a Mosè:

Quando avrete oltrepassato il Giordano e sarete entrati nella terra di Canaan, scaccerete dinanzi a voi tutti gli abitanti del paese, distruggerete tutte le loro pietre effigiate, tutte le loro immagini di getto e tutti i loro luoghi consacrati. Dovrete scacciare gli abitanti di quella terra, e abitarla voi, perché a voi ho destinato quel paese qual possesso. Spartirete la terra a sorte fra le vostre famiglie. Alle famiglie più numerose dovrete assegnare un possesso maggiore, a quelle meno numerose darete un retaggio minore. Dove gli sarà venuta la sorte, ognuno avrà il possesso presso la propria tribù paterna. Se non avrete scacciato dinanzi a voi gli abitanti del paese, allora quelli che ne lascerete, saranno come spine nei vostri occhi e come pungoli nei vostri fianchi e vi angustieranno nel paese dove abitate. Ciò che io pensavo di fare a loro, farò a voi”.

La narrazione ci dice innanzi tutto che la terra di Canaan è proprietà del Signore e che al popolo d’Israele è assegnato il suo possesso affinché la amministri, ne tragga il proprio sostentamento, e ne abbia, nel contempo, cura, direi amore di essa, proprio perché affidata dal Signore, assicurando il mantenimento di quelle doti naturali di fertilità, irrigazione e bellezza possedute al momento dell’affidamento, doti che non dovranno essere depauperate, ma semmai arricchite e migliorate ancora. Ma soprattutto queste parole ci dicono che il possesso è affidato in esclusiva al popolo d’Israele e che questo possesso dovrà realizzarsi scacciando tutti gli abitanti che troveranno insediati nel paese, tenendo bene a mente che coloro di questi abitanti che dovessero ancora restare costituirebbero una continua insidia ed una turbativa dell’esclusività del possesso del territorio.

Ovviamente questa cacciata dei popoli preesistenti va interpretata "cum grano salis" alla luce della stessa narrazione biblica, dalla quale abbiamo già ricavato che l'insidia costituita dalle altre popolazioni non è certamente dovuta a motivi etnici o razziali, giacché abbiamo incontrato storie di donne straniere, come la moabita Ruth o la cananea Tamar, le quali sono state le progenitrici della stirpe di re David. L'insidia è sempre la stessa: l'idolatria! Se le popolazioni stanziali si convertono all'ebraismo cessa ogni motivo di ostilità nei loro confronti ed esse vengono accolte e godono dei medesimi diritti degli ebrei di nascita, se invece vivono a contatto con il popolo d'Israele e mantengono i loro culti idolatri, essi rappresentano un'insidia, una continua tentazione per il popolo d'Israele che potrebbe smarrire la strada della fiducia nel Signore. In questo caso questi popoli dovranno essere scacciati, affinché con essi non vi sia contatto.

Questi avvenimenti si collocano agli albori della storia d’Israele, ma trovano tuttavia una potente eco nell’attualità, dove il conflitto, ormai perdurante da sessant’anni, tra il moderno Stato d’Israele e le popolazioni arabe circostanti assume connotati politici, religiosi e territoriali che richiamano le circostanze della narrazione biblica.

Al capitolo 34 il Signore descrive i confini della terra di Canaan assegnata, dettagliandone le località lungo tutto il suo perimetro. Mosè allora comandò ai figli d’Israele:

Questo è il paese che darete in retaggio a sorte, che il Signore ha comandato di dare alle nove tribù e mezzo. Poiché la tribù dei figli di Ruben e le sue case paterne, la tribù dei figli di Gad con le case paterne, e metà della tribù di Manasse hanno preso il loro retaggio. Queste due tribù hanno preso il loro retaggio sulla riva orientale del Giordano di Gerico.

Si chiude il capitolo 34 con l’indicazione, che il Signore fornisce a Mosè, dei nomi degli uomini che provvederanno all’assegnazione dei terreni. Gli incaricati furono: il sacerdote El’azar; Giosuè già designato a condurre la conquista della terra di Canaan; un capo per ogni tribù, ad esclusione delle due tribù di Ruben e Gad che avevano già avuto l’assegnazione dei terreni ad est del Giordano.

Il capitolo 35 tratta delle città da assegnare ai Leviti. Infatti, poiché alla tribù di Levi non spettava l’assegnazione di un determinato territorio, ogni tribù avrebbe dovuto provvedere ad assegnare ai Leviti delle città per abitarvi e dei recinti per il pascolo e doveva provvedere per i loro viveri. Le città da dare ai Leviti erano in tutto quarantotto con i relativi recinti e ciascuna tribù avrebbe partecipato a questa assegnazione in misura proporzionale alla quantità dei terreni a lei assegnati. Sei delle quarantotto città sarebbero state “città di rifugio”, città cioè dove chi avesse ucciso una persona per errore avrebbe potuto trovare rifugio, sottraendosi alla vendetta dei parenti dell’ucciso. Lo stesso capitolo esprime che, in ogni caso, l’omicida sarebbe stato sottoposto a giudizio ed indica le regole generali che potevano condurre ad esprimere un verdetto a seconda delle diverse circostanze nelle quali era avvenuto l’omicidio, che potevano variare dall’estremo più grave rappresentato dalla premeditazione fino al caso opposto sostanziato dalla involontarietà. L’uccisione premeditata, o ad essa assimilabile, poteva condurre all'estrema pena di morte, mentre l’omicidio involontario prevedeva la sottrazione dell’uccisore alla vendetta dei parenti dell’ucciso ed il suo rilascio, dopo l’emissione del giudizio di omicidio involontario, in una città di rifugio, ove egli avrebbe dovuto rimanere fino alla morte del Sommo Sacerdote, dopodiché sarebbe tornato libero.

Il capitolo 36, infine, torna ad occuparsi delle figlie di Tselofchad, che già avevano ottenuto di essere censite ai fini dell’assegnazione delle terre. Qui viene trattato un altro aspetto riguardante le limitazioni da porre in essere, nel caso in cui le ragazze intendessero sposare uomini appartenenti ad altre tribù. Tenuto conto della necessità di evitare situazioni che avrebbero potuto condurre a variazioni delle consistenze territoriali fissate per le diverse tribù, venne deciso che le ragazze avrebbero potuto sposare solamente uomini della loro stessa tribù.


Haftarà di Masè
(secondo i riti spagnolo e tedesco)

Ed ora che motivo hai di andare per la strada dell’Egitto per bere le acque del Nilo, che motivo hai di andare
per le strade dell’Assiria per bere le acque dell’Eufrate? La tua malvagità ti punirà e i tuoi atti di ribellione ti castigheranno e sappi e vedi che il tuo abbandonare il tuo D-o e il non avere tu timore di Lui vi sono causa di male e di amarezza.

(Geremia, 2,4-4,2)

lunedì 1 luglio 2013

Mattot

(Num.30,2-32,42)

Mosè parlò ai capi delle tribù per comunicare loro il comando del Signore secondo cui ciascuna persona del popolo d’Israele avrebbe dovuto rispettare voti e giuramenti fatti, impegnandosi per l’attuazione di quanto pronunciato dalle proprie labbra, e consentendo così di non profanare la parola data. E’ da notare che questo precetto non costituisce un precetto positivo, perché non esprime il comando di dover fare quello che si è promesso, è invece un precetto negativo, quello cioè di “non profanare la parola” data al Signore. La parola ha nell’ebraismo un valore sacrale, perché è con la parola che il Signore ha creato il mondo e con la parola ha comunicato a Mosè ed è la parola che éleva l’uomo al di sopra degli animali. Ma i Saggi, che si posero il problema se un voto o un giuramento potesse mai essere sciolto, arrivarono ad interpretare la frase “non profanare la parola” come abbreviazione di un’espressione più estesa: “tu non profanare la parola, ma altri potranno scioglierti dalla parola data”.

Su questa interpretazione si fonda, come spiega Maimonide nel suo Sefer haMitzvòt, il precetto positivo dell’annullamento dei voti, che può essere pronunciato dal Tribunale, dopo aver discusso e valutato la richiesta. Il Tribunale potrà procedere allo scioglimento del voto qualora abbia ravvisato che la sua espressione non sia stata conforme agli insegnamenti della Torà.

Con questa stessa interpretazione si comprende quanto viene detto nella parashà a proposito di voti e giuramenti fatti dalle donne. Infatti il capitolo 30 prosegue trattando in maniera estesa, dal versetto 4 fino al conclusivo versetto 17, dei voti fatti dalle donne e degli effetti sulla loro validità dei divieti espressi dal padre o dal marito. La regola assegnava al padre o al marito la potestà di vietare un voto o un giuramento fatto dalla donna, ma egli poteva esercitare questa potestà una volta sola e nel momento in cui veniva a conoscenza del voto o del giuramento. Qualora l’uomo, nel venire a conoscenza del voto o del giuramento della donna, avesse taciuto, egli avrebbe perso per sempre la prerogativa di poter esprimere il proprio divieto riguardo al quel voto.

L’esercizio di questa potestà al giorno d’oggi la ritroviamo solamente nella figura del padre verso i figli minori, e consiste nell’esercizio della cosiddetta “patria potestà”, mentre per quello che riguarda il marito direi che i tempi sono sostanzialmente cambiati, almeno in tutto il nostro mondo occidentale. I voti della donna per i quali il marito poteva trovarsi a voler esprimere il divieto erano evidentemente quelli che riteneva andassero a ledere i suoi interessi, diritti, o prerogative. Qui si tratta di voti che non sono evidentemente solo quelli banali,come ad esempio, quello di non voler cucinare il pollo per un certo periodo di tempo, ma può trattarsi di un voto di castità, che andava a colpire quello che l’uomo riteneva un suo diritto e ne intaccava la dignità. Il trovarsi davanti a voti femminili di questo tipo sono ipotesi non lontane dalla realtà, quando si ricordi, ad esempio, che il voto di “nazireato” poteva essere pronunciato sia da parte di uomini, sia da parte di donne.

Il capitolo 31 si apre con l’assegnazione, da parte del Signore, dell’ultimo compito a Mosè: “Vendica i figli d’Israele sui Midianiti, dopo verrai raccolto al tuo popolo”. Vennero armati, allora, mille uomini per ogni tribù, con loro era Pinchas, sacerdote figlio di El’azar, ed egli aveva in mano gli oggetti sacri e le trombe per impartire gli ordini. In esito all’attacco rimasero uccisi i cinque re di Midian ed anche il mago Bil’am, che si era rifugiato presso di loro. Tutti i midianiti furono distrutti e furono bruciate le loro città e le loro fortezze. Le donne, i bambini, insieme al bestiame furono catturati e portati davanti a Mosè, ad El’azar ed al popolo tutto nella pianura di Moav.

Mosè si adirò: “Avete lasciato in vita tutte le femmine? Erano ben esse che, per consiglio di Bil’am, sedussero i figli d’Israele a diventare infedeli al Signore nell’affare di Pe’or per cui scoppiò la mortalità nella congrega del Signore. Ed ora uccidete ogni maschio tra i bambini, e ogni donna atta a coabitazione con uomo uccidetela. Ogni bimba tra le femmine che non conobbe coabitazione con maschi, tenetela in vita per voi. E voi accampate fuori dall’accampamento per sette giorni. Ognuno che abbia ucciso una persona o toccato un caduto, fatevi aspergere il terzo ed il settimo giorno, voi ed i vostri prigionieri. Ogni abito, ogni oggetto fatto di pelle, ogni oggetto fatto di pelo di capra e ogni oggetto di legno farete aspergere”.

El’azar aggiunse quindi le istruzioni per la purificazione degli oggetti di metallo, che avrebbero dovuto essere aspersi con l’acqua della purificazione e poi essere passati per il fuoco. Il Signore diede quindi a Mosè le istruzioni per la divisione del bottino e per l’individuazione del tributo. Il bottino, ivi compresi i prigionieri, sarebbe stato diviso in due parti uguali, da assegnarsi una ai combattenti, l’altra al popolo tutto. Dalla parte assegnata ai combattenti avrebbe dovuto prelevarsi il tributo destinato al Signore, nella misura di uno su cinquecento, sia per le persone, sia per il bestiame grosso, sia per gli asini, sia per il bestiame minuto. Questo tributo avrebbe dovuto essere consegnato ad El’azar. Il tributo da prelevare dalla parte di bottino assegnata al popolo era invece fissato nella misura di uno su cinquanta di tutto il bestiame e doveva essere dato ai Leviti, che avevano la cura del Tabernacolo del Signore.

I comandanti ed i capi dell’esercito si recarono quindi da Mosè per portare gli oggetti e monili d’oro che ognuno di loro aveva preso come preda nel conflitto con i midianiti ed espressero che intendevano offrire tali oggetti al Signore in sacrificio di espiazione.

Passando ad altro argomento, al capitolo 32 si narra delle tribù di Gad e di Ruben che avevano molto bestiame e che, giunte ormai in prossimità del Giordano, giudicarono quelle terre adatte per loro e pertanto chiesero a Mosè: “Se abbiamo trovato grazia ai tuoi occhi, sia dato questo paese qual retaggio ai tuoi servi. Non farci oltrepassare il Giordano”. E Mosè così rispose: “Devono i vostri fratelli entrare in guerra e voi rimanere qui? Perché volete suscitare l’opposizione dei figli d’Israele al passare nel paese che il Signore ha dato loro?” Mosè inoltre rammentò l’ira del Signore, che aveva colpito il popolo con quarant’anni di peregrinazione nel deserto e l’esclusione dell’intera generazione uscita dall’Egitto dalla terra promessa, tutto ciò per non avere amato questa terra dopo la prima esplorazione.

Ma Ruben e Gad chiarirono che essi desideravano prendere le terre ad est del Giordano, ma che intendevano anche partecipare, insieme a tutte le altre tribù, alla conquista della terra promessa. Dopo questo accordo Mosè diede ai figli di Gad, a quelli di Ruben ed alla metà della tribù di Manasse, figlio di Giuseppe, il regno di Sichon, re degli Emorei, e il regno di ‘Og, re di Bascian, tutto il paese diviso in città con i confini tutt’attorno.

Teniamo a mente, perché ci torneremo in seguito, questa distinzione: le terre dal Giordano al mare sono assegnate dal Signore; le terre ad est del Giordano sono assegnate da Mosè.



Haftarà di Mattot
(secondo i riti spagnolo e tedesco)

“E la parola del Signore si volse a me dicendo: “Che cosa vedi tu, Geremia?” Ed io risposi:”Io vedo un bastone di mandorlo.” (Il mandorlo è simbolo di rapidità perché fiorisce presto). Ed il Signore mi disse: “Hai visto bene: infatti Io sto per affrettarmi ad eseguire quel che ho detto.
E la parola del Signore si rivolse a me una seconda volta, dicendo: “Che cosa vedi tu?” Ed io risposi: “Vedo una caldaia bollente, la cui parte anteriore è dal lato di settentrione.” E il Signore mi disse: “Da settentrione avrà inizio il male, che si abbatterà su tutti gli abitanti del paese.
(Geremia,1,1-2,3)