lunedì 26 dicembre 2011

Vaygash

(Gen.44,18-47,27)

Giuda, avvicinatosi a lui, disse a Giuseppe della situazione della sua famiglia e quindi che loro avevano un padre vecchio il quale aveva avuto dalla sua moglie più amata due figli, che uno di essi era morto, probabilmente sbranato da un leone e che era rimasto questo suo ultimogenito, Beniamino, cui era molto affezionato. Essi l'avevano portato con loro, riuscendo a superare la reticenza del padre, perché lui, il loro signore, l'aveva chiesto espressamente.
Giuda proseguì dicendo che egli si era fatto garante con il padre che Beniamino sarebbe tornato a casa sano e salvo.Detto tutto ciò Giuda si offrì a Giuseppe come schiavo in sostituzione del ragazzo.

Mentre Giuda parlava la commozione di Giuseppe andava sempre più aumentando finché, arrivati a questo punto, egli ordinò a tutti di uscire dalla sala dove si trovavano e, rimasto solo con i fratelli, si rivelò a loro dicendo:

"Io sono Giuseppe, mio padre è sempre vivo?"

E, accortosi che loro rimanevano fermi come storditi davanti a lui, disse loro di avvicinarsi e proseguì:

"Io sono vostro fratello Giuseppe che vendeste in Egitto. Però non addoloratevi, non vi dispiaccia di avermi venduto qui, perché Dio mi ha mandato avanti a voi perché rimaneste in vita."

E proseguì dicendo loro di andare dal padre e dirgli:

"Così dice tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha fatto padrone di tutto l'Egitto, vieni da me, non indugiare. Abiterai nel paese di Goscen, così sarai vicino a me, tu, i tuoi figli, i figli dei tuoi figli, il tuo bestiame ovino e bovino, e tutto ciò che possiedi. Là io ti manterrò, perché ci saranno ancora cinque anni di carestia, affinché non siate ridotti in miseria tu, la tua famiglia e tutto ciò che possiedi."

Si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse e Beniamino pianse con lui. Baciò piangendo tutti i suoi fratelli, i quali poi cominciarono a parlare con lui. La notizia si seppe nella casa del Faraone ed egli ed i suoi servi ne furono contenti. Il Faraone disse allora a Giuseppe:

"Di' ai tuoi fratelli: Fate così, caricate le vostre bestie, e tornate nel paese di Canaan, prendete vostro padre e le vostre famiglie, e tornate da me; vi darò il meglio della terra d'Egitto e godrete ciò che offre di migliore."

Giuseppe fornì ai fratelli dei carri seondo le disposizioni del Faraone e diede loro provviste e vestiario. Per suo padre fece preparare dieci asini carichi delle cose migliori d'Egitto e dieci asine cariche di grano e di pane.

Partirono i fratelli ed arrivarono in terra di Cannan. E là giunti raccontarono al loro padre Giacobbe che Giuseppe era ancora vivo e che dominava in terra d'Egitto, ma Giacobbe non ci credeva e si convinse solo quando vide i carri che Giuseppe aveva mandato. Allora Israele disse:

"Mi basta che mio figlio Giuseppe sia ancora vivo e di andare a vederlo prima di morire!"

Israele si mise in viaggio verso l'Egitto e giunto a Beer Scheva offrì sacrifici al Signore. Di notte il Signore gli apparve in sogno e disse:

"Io sono Iddio, il Dio di tuo padre; non aver paura di andare in Egitto perché là ti farò diventare una grande nazione. Io verrò con te in Egitto ed Io ti farò tornare qui; e Giuseppe ti chiuderà gli occhi."

Partì Giacobbe da Beer Scheva, e con lui tutta la sua famiglia, i figli, le mogli, i figli dei figli, le figlie proprie e quelle dei suoi figli, tutta la sua discendenza. Portarono con sé i loro armenti e i beni che avevano acquistato in terra di Canaan e si trasferirono in Egitto. Giacobbe mandò Giuda davanti a sé da Giuseppe perché gli indicasse la via per Goscen dove poi arrivarono.

Giuseppe andò incontro a suo padre e a Goscen gli si gettò al collo e pianse. E Israele disse a Giuseppe:

"Ora posso proprio morire dopo che ti ho veduto, che sei ancora vivo."

Giuseppe disse allora ai suoi fratelli ed alla famiglia di suo padre che egli avrebbe informato il Faraone del loro arrivo e del fatto che essi erano pastori di greggi ed avevano portato con sé i loro averi ed il loro bestiame. Disse ancora Giuseppe che, quando il Faraone li avesse chiamati e avesse chiesto la loro occupazione, essi avrebbero dovuto rispondere:

"Noi tuoi servi siamo sempre stati pastori di greggi dalla nostra giovinezza fino ad ora, tanto noi quanto i nostri padri."

In questo modo, proseguì Giuseppe sarebbe stato loro consentito di risiedere in modo esclusivo nel paese di Goscen, giacché per gli Egiziani i pastori erano una classe inferiore, con la quale non desideravano avere contatti.

Giuseppe informò quindi il Faraone dell'arrivo di suo padre, dei suoi fratelli e della loro gente. Poi presentò cinque dei suoi fratelli al Faraone il quale chiese quale fosse la loro occupazione. Essi risposero come Giuseppe aveva detto ed il Faraone acconsentì acché essi si stabilissero nella terra di Goscen ed anzi disse a Giuseppe che essi badassero anche al bestiame di sua proprietà. Giuseppe fece quindi venire suo padre Giacobbe e lo presentò al Faraone che lo intrattenne brevemente. Giacobbe i suoi figli e tutta la loro gente ebbero quindi il possesso di una terra in Goscen, nella terra di Raamses.

La carestia imperversava in terra d'Egitto come in terra di Canaan e la popolazione aveva ormai finito il denaro per acquistare i viveri da Giuseppe. Iniziò allora Giuseppe a dare viveri in cambio di bestiame. Ma l'anno successivo la popolazione non aveva più bestiame da dare in cambio dei viveri e cominciarono allora ad offrire sé stessi e le loro terre. Fu così che Giuseppe acquistò tutte le terre d'Egitto e tutte divennero proprietà del Faraone e le popolazioni, private delle loro terre, venivano trasferite da una città all'altra. Solo i sacerdoti mantennero la loro terra, perché essi ricevevano dal Faraone un determinato assegno con il quale vivere.

Così disse Giuseppe al popolo quando dette la semente in cambio delle terre acquistate:

"Ecco, io ho acquistato oggi voi e le vostre terre al Faraone; eccovi la semente seminate la terra. Dei raccolti darete un quinto al Faraone, e le altre quattro pari serviranno per seminare i campi, per il mantenimento vostro, di chi avete in casa e dei vostri bambini."

Il popolo acclamò Giuseppe perché lo aveva salvato dalla fame, e dichiarò ubbidienza al Faraone. Da allora restò stabilito che la quinta parte dei prodotti del suolo fossero proprietà del Faraone.

La gente d'Israele rimase nella terra d'Egitto, nel paese di Goscen, vi si stabilì, prolificò ed aumentò grandemente di numero.

Tutte queste vicende riguardanti la grande carestia hanno una straordinaria analogia con quelle che al giorno d'oggi affliggono il nostro paese e gli stati della comunità europea di cui appunto l'Italia è parte. La carestia trasposta al giorno d'oggi è la grave e generalizzata crisi economica che coinvolge tutti i paesi proggrediti.

L'Egitto in un mondo in cui le attività economiche primarie erano l'agricoltura e la pastorizia aveva certamente una ricca e forte economia agricola grazie alla fertile fascia dei terreni a cavallo del Nilo. Se però a questa potente potenzialità economica non si fosse unita l'accorta amministrazione di Giuseppe, l'Egitto non avrebbe superato la grave carestia. L'azione fondamentale di Giuseppe fu quella che lui compì nei sette anni di vacche grasse che precedettero la carestia. Fu il risparmio che Giuseppe volle. E il risparmio, l'ammasso delle granaglie salvò l'Egitto dalla morte per fame insieme ai paesi che da lui dipendevano.

Nell'attualità le economie degli stati della comunità europea presentano situazioni debitorie di varia consistenza, che per alcuni, generalmente situati nella fascia geografica settentrionale, appaiono controllabili e rientrabili ccon opportuni aggiustamenti gestionali, mentre per altri, generalmente appartenenti alla fascia meridionale, tra i quali è l'Italia, vi sono difficoltà e forse anche l'impossibilità di controllo e rientro della situazione debitoria sulla sola base delle risorse economiche correnti. Ecco allora che gli stati più deboli per uscire dalla situazione debitoria si trovano tre possibili strade da poter percorrere: aumentare le tasse; aumentare la produzione; indebitarsi con il leader economico della comunità. Supponiamo che le prime due strade non siano in grado di produrre risultati significativi in tempi accettabilmente brevi, non rimane allora che la terza strada: trovare qualcuno che paghi i loro debiti, che acquisti cioé i loro titoli di stato con i quali essi pagano gli interessi della massa di titoli in scadenza.

Non rimane quindi per gli stati fortemente indebitati che trovare un Giuseppe che possa fornire le derrate occorrenti per un prezzo pattuito, che gli paghi cioé i debiti e che dica quali siano le condizioni. Ed a questo punto, qui da noi, siamo nella fase dell'alzata degli scudi da parte degli indebitati, delle recriminazioni per la lesa autonomia dello stato, per l'ingerenza negli affari interni della nazione, come se qualcuno avesse l'obligo di regalare qualcosa e dovesse anche scusarsi per questo.

Giuseppe aveva accumulato abbondanti scorte che amministrò negli anni di carestia vendendole a chi gliene faceva richiesta dapprima per denaro, poi in cambio del bestiame ed infine in cambio della proprietà dei terreni degli acquirenti e della loro stessa libertà, divenendo quindi sia le terre sia le persone proprietà del Faraone. E il popolo accettava le condizioni che Giusepppe poneva per fornire loro le derrate di cui necessitavano e ne lodava l'opera perché li aveva sottratti alla fame.

Forse se al giorno d'oggi si riuscisse ad applicare il metodo Giuseppe, fissando regole comuni di sostegno e cooperazione, l'Europa potrebbe avviarsi ad essere una nazione.

martedì 20 dicembre 2011

Miketz

(Gen:41,1- 44,17)

Dopo la lettura di questa parashah è possibile che si affaccino nella nostra mente domande sia in relazione agli avvenimenti, sia alle modalità secondo cui questi avvenimenti si sviluppano.
E’ la vita del libro che necessita di stabilire con il suo lettore una tensione affinché egli sia coinvolto, assorbendone la sfera dell’intuizione, del sentimento, della razionalità, e pur anche della fisicità, per trascinare tutto l’insieme in uno stato di massima percezione, dove nei fatti del libro il lettore possa ritrovare la sua storia, le vicende che ha vissuto. Quanto più proverà emozioni, quanto più analizzerà razionalmente le vicende, quanto più scoprirà aspetti che non aveva colto in precedenza, quanto più soffrirà o gioirà nel percorrere il cammino, tanto più la lettura del libro avrà raggiunto la sua finalità.

Ma vedremo le osservazioni ed i commenti alla fine, dopo la narrazione delle vicende che qui vengono trattate.

Avvenne che il Faraone facesse due sogni nella stessa nottata e che, sentendosi turbato per il loro contenuto, interpellasse maghi e saggi del suo regno perché li interpretassero.
Nel primo sogno erano apparse al Faraone sette vacche grasse che pascolavano le erbe palustri in prossimità del Nilo. Dopo di esse risalivano dal Nilo sette vacche brutte e magre, che fermatesi presso le altre le divorarono rapidamente.
Nel secondo sogno il Faraone vide sette spighe grosse e piene che venivano su da un unico stelo. A fianco di queste germogliarono sette spighe sottili lì portate dal vento. Le spighe sottili in breve inghiottirono le spighe grosse e piene.
Nessuno dei maghi e dei saggi interpellati diede però la richiesta interpretazione.

E fu a questo punto che il capo dei coppieri si ricordò di Giuseppe e raccontò al Faraone che c'era un giovane ebreo, servo del giustiziere capo, che aveva appunto la capacità di interpretare i sogni.
Il Faraone, mandato a chiamare Giuseppe, gli chiese il significato dei sogni che egli aveva fatto.

Giuseppe, dopo aver precisato che la risposta sarebbe venuta non da lui, ma dal Signore in modo da tranquillizzare il Faraone, espose l'interpretazione dei sogni.
Il sogno era unico ed il fatto che fosse ripetuto due volte stava a significare l'imminenza di ciò che il Signore stava per compiere. Le sette vacche grasse, così come le sette spighe belle, rappresentavano sette anni di grande abbondanza per il regno. Le sette vacche magre e le sette spighe sottili indicavano sette anni di carestia che sarebbero susseguiti agli anni di abbondanza.

A questa interpretazione Giuseppe aggiunse le disposizioni che , a suo parere, il Faraone avrebbe dovuto impartire per far sì che con i prodotti dei sette anni di abbondanza si potesse far fronte alle necessità dei sette anni di carestia.

Il Faraone apprezzò a tal punto la risposta di Giuseppe che disse:

"Poiché Dio ha fatto conoscere a te tutto questo, non c'è uomo intelligente e saggio come te. Perciò tu sarai preposto alla mia casa e tutto il mio popolo obbedirà ai tuoi ordini; io sarò superiore a te soltanto per il trono."

Si tolse l'anello dal dito il Faraone e lo pose al dito di Giuseppe e gli fece indossare abiti di bisso e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece salire sulla carrozza dei viceré e lo prepose a tutta la terra d'Egitto.
Il Faraone impose a Giuseppe il nome di Tsafenath Pa'neach che significa colui che mostra ciò che è nascosto e gli diede in moglie Asenath figlia di Potifar, sacerdote di On.

L'amministrazione di Giuseppe negli anni dell'abbondanza risultò particolarmente efficace ed ogni città ebbe l'ammasso dei prodotti del circondario e l'accumulo del grano fu in particolare molto superiore ad ogni previsione.

Dice anche la parashah che prima che giungesse l'anno della carestia nacquero a Giuseppe due figli, perché Asenath gli partorì Manasse ed Efràim.

All’arrivo della carestia le previsioni di Giuseppe si rivelarono esatte ed egli riuscì ad graduare la cessione delle riserve dei suoi magazzini talché esse non solo furono sufficienti a fronteggiare le necessità degli egiziani, ma vi furono anche esuberi che egli vendette ai paesi vicini, anch'essi tormentati dalla grande carestia.

Quando Giacobbe seppe che in Egitto c'era disponibilità di grano chiese ai suoi figli di recarvisi per acquistarne. Dieci dei figli partirono mentre Giacobbe trattenne presso di sé il figlio minore Beniamino, per timore che potesse accadergli una disgrazia.

I dieci fratelli si presentarono insieme ad altra gente per comperare le provviste e giunto il loro turno si trovarono al cospetto di Giuseppe, colui che vendeva a tutta la popolazione, ma non lo riconobbero. Giuseppe invece riconobbe i suoi fratelli ma si finse estraneo e per di più si mostrò estremamente duro nei loro confronti, tanto da accusarli di essere delle spie venute a prender nota dei luoghi sguarniti del regno. A nulla valsero le parole che i dieci dissero per difendersi dall'accusa. I fratelli furono trattenuti come prigionieri per tre giorni ed al terzo giorno Giuseppe disse loro:

"Fate questo e vivrete; io temo Iddio! Se siete persone per bene un vostro fratello rimanga prigioniero qui dove siete detenuti e voi altri andate a portare i viveri necessari alle vostre famiglie. Portatemi il vostro fratello minore; così sarà provato che avete detto la verità e non morrete."

Giuseppe ordinò che i loro sacchi fossero riempiti di grano e che in ogni sacco fosse anche messo il denaro pagato e di mettere inoltre le provviste per il viaggio. Simeone fu trattenuto in ostaggio mentre i fratelli partirono. Ma già quando arrivarono al luogo dove avrebbero pernottato, uno di essi si accorse che alla bocca del suo sacco era anche il denaro. Lo disse ai fratelli che ne rimasero impauriti non comprendendo la ragione di questo fatto. Arrivarono dal padre Giacobbe, scaricarono i sacchi con le provviste e si accorsero che in tutti i sacchi era stato messo il denaro pagato. Giacobbe ascoltò il racconto dei suoi figli e seppe che Simeone era stato trattenuto in Egitto come ostaggio e che per la sua liberazione era stato chiesto che i fratelli tornassero portando con sé anche Beniamino.

Giacobbe, inizialmente impaurito dall’idea di veder partire anche Beniamino, alla fine si -convinse, anche per la risoluta presa di posizione di Giuda che garantì al padre che gli avrebbe riportato indietro il fratello. Giacobbe allora disse di portare a quell’uomo un regalo fatto con i più ricercati prodotti del loro paese e di portare anche denaro in misura doppia della prima volta in modo che fosse loro possibile restituire quanto era stato trovato nei sacchi e pagare le provviste.

Partirono e giunti in Egitto si presentarono davanti a Giuseppe. Quando Giuseppe vide che con loro era anche Beniamino, disse al suo maggiordomo di accogliere quegli uomini in casa e di preparare per pranzo perché essi avrebbero mangiato con lui. I fratelli esternarono al maggiordomo le loro preoccupazioni per la vicenda del denaro che avrebbero dovuto pagare e che invece avevano trovato nei loro sacchi, ma questi li tranquillizzò:

“State tranquilli, non abbiate paura! Il Dio vostro e dei vostri padri vi ha messo nei sacchi un tesoro imprevisto, il vostro denaro è pervenuto a me.”

Il maggiordomo mise quindi in libertà Simeone e accompagnò tutti i fratelli nella casa del suo padrone.

Quando Giuseppe venne a casa i fratelli, prostratisi a lui, gli presentarono il dono che avevano portato. Egli chiese loro notizie del padre, poi vide Beniamino e si commosse.
Andò in camera e pianse, poi lavatosi il viso tornò da loro e ordinò che fosse portato da mangiare. Mangiarono a tre tavoli: il primo solo per Giuseppe, il secondo per i fratelli, il terzo per gli egiziani.

Dopo pranzo Giuseppe ordinò al maggiordomo di riempire di viveri i sacchi dei suoi fratelli e di rimettere in cima ad ogni sacco il denaro pagato. Nel sacco di Beniamino disse di mettere anche la sua coppa d’argento.

Il mattino dopo i fratelli partirono con i loro asini e le provviste, ma furono presto inseguiti dal maggiordomo di Giuseppe che li raggiunse e disse:

“Perché avete contraccambiato male per bene? Dov’è la coppa d’argento nella quale beve il mio signore che da essa trae gli auspici. E’ una brutta azione quella che avete commesso.”

Ed essi risposero:

“Perché, signore, parli così? Lungi dai tuoi servi fare queste cose. Se ti abbiamo riportato dal paese di Canaan il denaro che abbiamo trovato alla bocca dei nostri sacchi, come avremmo rubato dalla casa del tuo signore, argento e oro? Quello dei tuoi servi presso il quale venga trovata la coppa sia messo a morte e noi pure saremo tuoi schiavi, o signore!”

I sacchi furono tirati giù e si cominciò ad aprirli, finché la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. I fratelli costernati e disperati per l’accaduto ricaricarono i sacchi sugli asini e tornarono in città da Giuseppe, che disse:

“Che azione è questa che avete compiuto! Non sapete che un uomo come sono io trae gli auspici?”

E Giuda replicò:

“Che cosa possiamo dire al mio signore? Che dire e come giustificarci? Dio ha trovato un mezzo per punire i tuoi servi; eccoci schiavi al mio signore, tanto noi quanto colui in possesso del quale è stata trovata la coppa.”

Ed a lui Giuseppe:

“Lungi da me far questo! Colui in possesso del quale è stata trovata la coppa mi sarà schiavo, e voi tornate in pace da vostro padre.”

In attesa della conclusione della storia, per la quale dovremo pazientare fino al prossimo Shabbat, soffermiamoci sugli aspetti della narrazione che maggiormente hanno attratto la nostra attenzione.

Molti commentatori hanno già evidenziato la figura di Giuseppe come quella di un ebreo in terra straniera che ha avuto successo e che partendo da una condizione di schiavitù è arrivato per suo merito e per volontà del Signore fino alle più elevate posizioni sociali ed economiche nel paese che lo ospita. E’ una storia questa che si è ripetuta più volte in un popolo che ha vissuto la diaspora nell’arco di duemila anni e che quindi sostanzialmente è sempre stato in terra straniera mostrando due fondamentali caratteristiche:
- l’ebreo in terra straniera è frequentemente arrivato ad occupare posizioni di rilievo nelle società ospitanti;
- l’ebreo è riuscito a mantenere in terra straniera l’integrità delle proprie tradizioni ed a conservare la propria lingua.

Ma le domande più stimolanti, a mio parere, sono le seguenti che riguardano il comportamento di Giuseppe nei confronti dei propri fratelli:

“Perché Giuseppe non si fa riconoscere subito dai suoi fratelli? Perché per due volte rimette il loro denaro nei sacchi delle provviste? Perché mette la sua coppa d’argento nel sacco di Beniamino?”

Giuseppe non aveva in realtà una approfondita conoscenza dei propri fratelli in quanto, finché era stato a casa del padre non c’era stato tra loro un rapporto di confidenza, bensì una contrapposizione generata proprio dalla preferenza che Giacobbe nutriva per Giuseppe. Inoltre il modo in cui i fratelli su liberarono di lui fu certamente traumatico, né Giuseppe ebbe modo in quella circostanza di poter distinguere le diverse posizioni da loro assunte nei suoi confronti. Egli sapeva solo che il piccolo Beniamino non era con i suoi fratelli quando lo gettarono nel pozzo e quando fu venduto ai mercanti.

Egli non vuole rivelarsi immediatamente ai suoi fratelli, perché così facendo li avrebbe persi, essi lo avrebbero adulato spinti a ciò dalla soggezione per la sua posizione economica e sociale e lui non avrebbe più conosciuto la loro vera natura, né le diversità di indole e di sentimenti. Pensò quindi di non rivelarsi e di metterli in seria difficoltà per vedere in quale modo avrebbero reagito.

Ed effettivamente nelle difficoltà venne fuori il carattere dei fratelli. Quando Giuseppe li accusò di essere spie e trattenne Simeone come ostaggio e disse loro di tornare portando anche Beniamino, egli pensava probabilmente di suscitare in loro proprio quei sentimenti di timore per l’incolumità del fratello più piccolo che essi non avevano nutrito a suo tempo nei suoi confronti.

Quando Giuseppe fece mettere proprio nel sacco di Beniamino la sua coppa d’argento, sicché una volta scoperto Benimino risultò passibile di morte, a questo punto i fratelli operarono solidali una scelta e si offrirono tutti, per bocca di Giuda che acquisì il ruolo di loro conduttore, schiavi a Giuseppe pur di aver salva la vita del fratello.

Giuseppe ottenne così ciò che desiderava: conoscere quale fosse la loro posizione quanto a solidarietà ed amore fraterno.

lunedì 12 dicembre 2011

Vayeshev

(Gen.37,1-40,23)

Giacobbe si era stabilito nella terra di Canaan con le sue mogli ed i suoi figli. Egli prediligeva tra tutti il figlio Giuseppe, forse perché maggiormente gli ricordava sua madre Rachele, che era morta e che era, tra le sue quattro mogli, quella che egli più di ogni altra aveva amato.
Il ragazzo che era consapevole della preferenza paterna, per mettersi ancora maggiormente in luce, ne approfittava per raccontare a suo padre tutto quanto di male i suoi fratelli facessero. Questo atteggiamento mentre da un lato rafforzava la fiducia e la benevolenza del padre, d'altro canto suscitava nei fratelli un crescente sentimento di odio, che, come vedremo, si svilupperà fino a produrre la sua violenta espulsione.

La responsabilità di questo deterioramento del rapporto tra i fratelli non mi sentirei di attribuirla a nessuno di loro perché a mio parere il nucleo originante di questa responsabilità non è in loro, ma è nel padre Giacobbe per avere egli seguito la voce del cuore quando manifestò la sua preferenza a Giuseppe, senza verificare se la voce del cuore fosse in linea di collisione con la voce della giustizia.

Se la corretta conduzione di una comunità familiare presuppone l'adozione di criteri di imparzialità e di giustizia, mentre, tornando alla nostra narrazione, abbiamo constatato che qui ciò non è avvenuto e perciò sussiste la colpa ed è altresì individuato il colpevole, allora, potremmo chiederci come mai Giacobbe, che pure aveva una certa dimestichezza nel dialogo con il Signore, non abbia ricevuto a questo proposito un'indicazione che avrebbe potuto evitare il verificarsi di tante sofferenze.
Ma partendo da questa domanda innescheremmo tutta una storia fatta di sè e di ma.
Se Giacobbe non avesse mostrato la sua preferenza per Giuseppe, questi non sarebbe stato odiato dai fratelli, che quindi non lo avrebbero gettato nel pozzo e non l'avrebbero venduto ai mercanti. Giuseppe non sarebbe mai stato in Egitto, e nessuno avrebbe mai chiamato la sua gente in quel paese e quindi non sarebbero avvenute tante cose e la narrazione biblica sarebbe stata un'altra.

Dallo sviluppo di questa ipotesi deduciamo quindi che, mentre è conveniente ragionare per capire gli avvenimenti accaduti, ragionare invece su ipotesi e sui loro sviluppi ci allontana dal nostro cammino.
Allora andiamo a ciò che avvenne. Giuseppe aveva avuto in dono dal padre una tunica a righe. Raccontò Giuseppe ai fratelli due sogni che egli aveva fatto:

"Ascoltate questo sogno che ho fatto: Legavamo i covoni nel campo, quando il covone mio si alzava e si ergeva diritto; i vostri gli si facevano intorno e gli si prostravano."

E i fratelli a lui:

"Sarai tu il nostro sovrano? Dominerai su di noi?"

Un altro sogno egli fece e lo raccontò ai fratelli:

"Un altro sogno - egli disse - ho fatto: Il sole la luna e undici stelle si prostravano a me."

Stavolta il padre lo sgridò e disse:

"Che cos'è questo sogno che hai fatto?Dovremo venire io, tua madre e i tuoi fratelli e prostrarci dinanzi a te fino a terra?"

La cosa finì lì, ma l'odio dei fratelli nei confronti di Giuseppe andava sempre più crescendo. Un giorno il padre disse a Giuseppe di andare a trovare i fratelli che erano andati a pascolare a Shechem e di portargli notizie loro e del bestiame. Giuseppe partì e si avviò verso Shechem.
Si smarrì, incontrò un uomo e gli chiese dei suoi fratelli. L'uomo gli disse di aver sentito che intendevano andare a Dothan. E a Dothan li avrebbe effettivamente incontrati.

Lo videro arrivare i fratelli ed ordirono come liberarsi di lui, accogliendo la posizione di Ruben e Giuda che si erano opposti alla proposta di ucciderlo.
Quando Giuseppe arrivò fu spogliato dai fratelli e gettato in un pozzo Successivamente venne venduto a dei mercanti ismailiti in viaggio per l'Egitto. Il prezzo pagato fu di venti monete d'argento. Intrisero i fratelli la tunica di Giuseppe nel sangue di un capretto e la portarono al padre come prova della sua morte. Giacobbe si stracciò le vesti e fece lutto a lungo per suo figlio, rifiutando qualsiasi conforto ed affermando di voler scendere nello sheol così mentre era ancora in lutto.

Mentre tutto ciò accadeva, Giuda, che aveva lasciati i suoi fratelli e si era recato nella terra di Adullam, vide qui la figlia di un cananeo chiamato Shiuà e si invaghì di lei . Si unì alla ragazza ed essa rimase incinta e partorì un primo figlio maschio di nome Er. Rimasta incinta nuovamente partorì ancora un maschio cui venne dato ilo nome di Onan. Ebbe poi un terzo figlio maschio cui pose nome Shelà.

In seguito prese Giuda per il suo primogenito Er una moglie cananea chiamata Tamar. Ma Er non era gradito al Signore e morì senza figli. Giuda allora disse a suo secondogenito Onan di sposare la vedova di suo fratello, in attuazione del precetto del levirato. Ma Onan non volle far nascere la prole di suo fratello, sicché si ritrasse ogni qual volta Tamar gli si accostava. Il Signore fece morire anche Onan a causa di questa sua condotta.

Giuda disse allora alla nuora Tamar:

Rimani vedova in casa di tuo padre finché mio figlio Shelà sia cresciuto.

In realtà Giuda era rimasto colpito dal fatto che entrambi i suoi primi due figli maschi che avevano sposato Tamar, fossero morti. Temeva Giuda che la medesima sorte potesse toccare al figlio minore se anch’egli avesse sposato Tamar.
Tamar si accorse che Shelà era ormai da tempo diventato adulto, ma che Giuda non era più venuto da lei per mantenere la sua promessa di dargli in sposo questo suo figliolo.

Seppe Tamar che Giuda si sarebbe recato a Timnà a tosare il suo gregge ed allora si tolse gli abiti vedovili, si adornò e si coprì con un velo e si mise ad attendere in un luogo ben in vista della strada che arrivasse Giuda. Giuda la vide e non la riconobbe, la credette una meretrice e l’accostò per unirsi a lei. Pattuirono il compenso di un capretto che egli le avrebbe mandato e Giuda le lasciò in pegno il suo sigillo ed il suo bastone.
L’indomani Giuda mandò il capretto che, disse, sarebbe stato consegnato alla donna ritirando il bastone ed il sigillo che aveva lasciati in pegno.
Ma la donna non era più lì e gli abitanti del luogo dissero di non averla mai vista e che in quel luogo non c’era mai stata una meretrice.

Passarono tre mesi e fu riferito a Giuda che la nuora Tamar si era prostituita ed era rimasta incinta. Giuda disse che la portassero al suo cospetto affinché fosse bruciata. Ma Tamar, conotta davanti a lui, disse:

Sono incinta di colui al quale questi oggetti appartengono; riconosci a chi appartengono questo sigillo, questo cordone, questo bastone?

Giuda riconobbe gli oggetti che egli le aveva lasciato in pegno e comprese che Tamar era incinta di lui e riconobbe la forza di questa donna che era riuscita a conquistarsi il suo diritto di avere figli dalla casa di Giuda. Nacquero due maschi: Pèretz e Zèrach.

Dalle viscere di Tamar, una donna cananea si badi bene, uscirà la stirpe di David. Ma i Cananei erano gente idolatra che avrebbe dovuto essere annientata dal popolo d’Israele e ciò essenzialmente per la difesa del proprio monoteismo e per il compimento della missione assegnata dal Signore. Si verificò quindi un fatto in collisione con quello che a noi appare un principio generale, quindi non sembrerebbe coerente che da un popolo che deve essere sterminato venga fuori la stirpe del re David. Ma questo è un ragionamento da cestinare per gli stessi motivi che sono stati detti prima a proposito del dissidio tra Giuseppe e i suoi fratelli. Dobbiamo prendere atto dei fatti accaduti e non di quello che, secondo noi, avrebbe dovuto accadere. E quindi dobbiamo prendere atto che la Cananea Tamar sarà la progenitrice di David.

Torniamo ora a Giuseppe. Egli fu condotto in Egitto e qui fu acquistato da Potifar, ministro del Faraone. Il giovane dette subito prova delle proprie capacità, sicché in breve fu ammesso al servizio personale di Potifar, che lo fece intendente della sua casa ed amministratore di tutto quanto possedeva.

Su questa situazione di tranquillità e di bonomia aleggiava tuttavia un’insidia. Giuseppe, oltre che bravo e diligente era anche un giovane di bell’aspetto, sicché la moglie di Potifar gli pose gli occhi addosso e ripetutamente gli propose di giacere con lei. Il giovane rifiutò sempre le proposte della padrona, finché un giorno avvenne qualcosa che effettivamente poteva far nascere dubbi su quanto realmente fosse accaduto.
Giuseppe si sottrasse alla padrona che cercava di afferrarlo, ma il risultato fu che lui fuggì nudo dalla casa della padrona, mentre a lei rimase in mano il suo vestito. C’erano evidentemente tutti gli elementi per pensare che tra Giuseppe e la sua padrona potesse essere accaduto qualcosa di concreto.
Fu così che Potifar fece rinchiudere Giuseppe nella prigione dove erano i detenuti del re.

Il Signore si mostrò ancora benigno con Giuseppe, sicché lo rese gradito al capo delle guardie della prigione. Ben presto fu lui ad occuparsi di tutti i detenuti ed il suo operato non dette mai luogo a lamentele.

Accadde allora che il coppiere ed il panettiere del re d’Egitto commettessero una colpa verso il loro sovrano e venissero anch’essi rinchiusi nello stesso carcere dove era Giuseppe. Al mattino quando Giuseppe si recò da loro, vide che il loro aspetto era molto triste e ne chiese la ragione. Entrambi erano angustiati per avere fatto ognuno un sogno e di non essere in grado di comprenderne il significato.

Il capo dei coppieri raccontò a Giuseppe il suo sogno:

Sognavo che mi stava dinanzi una vite. Quella vite aveva tre tralci e, appena spuntati i germogli, metteva i fiori e i grappoli d’uva erano già maturi. Io tenevo in mano la coppa del Faraone, prendevo l’uva, la spremevo nella coppa e la porgevo al Faraone.

E Giuseppe disse:

L’interpretazione è questa: i tre tralci rappresentano tre giorni; di qui a tre giorni il Faraone ti annovererà di nuovo fra i suoi ministri, ti ripristinerà nel tuo ufficio e porgerai la coppa al Faraone, come per il passato quand’eri il suo coppiere. Magari tu serbassi memoria di me quando starai bene, fossi così buono verso di me ricordandomi al Faraone e facendomi uscire da questa prigione!

Il panettiere volle anch’egli che Giuseppe interpretasse il suo sogno e quindi raccontò:

Anch’io nel mio sogno avevo sul capo tre ceste di pane bianco; nella cesta superiore era ogni specie di prodotti di panettiere di cui si ciba il Faraone e gli uccelli li mangiavano dal canestro di sul mio capo.

Ed a lui Giuseppe disse:

L’interpretazione è questa: le tre ceste rappresentano tre giorni; di qui a tre giorni il Faraone ti taglierà la testa, ti impiccherà sulla forca e gli uccelli ti mangeranno la carne di dosso.

Tutto ciò avvenne nel giorno del compleanno del Faraone, quando egli ripristinò nel suo ufficio il capo dei coppieri, mentre fece impiccare il capo dei panettieri. Il capo dei coppieri una volta libero non si ricordò però di Giuseppe.

Il sogno occupa sempre una posizione di privilegio nella narrazione biblica. La narrazione di un sogno, la sua interpretazione assumono sempre un ruolo di premonizione. Il sogno nel Tanak è una proiezione nel futuro, una finestra aperta su avvenimenti che devono ancora presentarsi. La moderna psicanalisi connota invece il sogno come effetto dell’elaborazione dei ricordi e delle esperienze che abbiamo vissuto, limitando le proiezioni nel futuro alle logiche elaborazioni delle esperienze vissute. E’ possibile in questo modo arrivare a conciliare i due modi di interpretare i sogni assegnando alle proiezioni nel futuro i connotati di elaborazioni delle esperienze pregresse.

lunedì 5 dicembre 2011

Vayshlach

(Gen.32,4-36,43)

Giacobbe giunto in vista del paese di Seir, dove sapeva risiedere suo fratello, gli inviò dei messaggeri che preannunciassero il suo arrivo e dichiarassero le sue intenzioni amichevoli. I messaggeri tornarono e gli dissero che suo fratello Esaù gli veniva incontro, portando con sè quattrocento uomini. La notizia preoccupò molto Giacobbe, che sospettava che il fratello avesse cattive intenzioni. Cominciò quindi a preparare i doni che gli avrebbe offerto: duecento capre e venti capri; duecento pecore e venti montoni; trenta cammelle allattanti con i loro figli; quaranta vacche e dieci tori; venti asine e dieci puledri.
Giacobbe evidentemente era consapevole del fatto che Esaù potesse avere nei suoi confronti seri motivi di risentimento in relazione al diritto di primogenitura che lui gli aveva sottratto e perciò si preparava a presentarsi a lui in atteggiamento che si dimostrasse sicuramente rispettoso ed amichevole.
Peraltro, in previsione che l’incontro potesse avvenire non nel migliore dei modi, durante la notte egli prese le mogli, le ancelle ed i suoi figli e tutto ciò che gli apparteneva e passò a guado lo Jabboc. Quando rimase solo un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'alba. Vedendo che non riusciva a batterlo l'uomo lo toccò all'estremità del femore, che si slogò. Ma Giacobbe continuava ancora a trattenerlo e l'uomo disse:

"Lasciami andare che è spuntata l'alba."

E Giacobbe:

"Non ti lascerò finchè non mi avrai benedetto."

E l'altro:

"Come ti chiami?"

Rispose:

"Giacobbe."

"Non Giacobbe sarai chiamato ma Israele, poichè hai lottato con un essere divino e con uomini e ce l'hai potuta."

Giacobbe gli disse:

"Dimmi il tuo nome."

E l'altro:

"A che scopo me lo domandi?"

E là lo benedisse. E Giacobbe chiamò quel luogo Peniel poichè disse:

"Ho veduto faccia a faccia un essere divino ed ho avuto salva la vita."

Dunque Giacobbe vive l’attesa dell’incontro con il fratello con un misto di paura e di preoccupazione, in uno stato di tensione per quella che lui considera una prova impegnativa, un appuntamento, un incontro inevitabile che avviene dopo venti anni, con l’incognita di non sapere quale sarà l’atteggiamento del fratello nei suoi confronti.

Ricordiamoci che anche fisicamente Esaù era villoso e molto più forte di Giacobbe e che i suoi modi erano modi bruschi e che quindi anche nel confronto personale c’erano motivi di seria preoccupazione.

A questo punto per Giacobbe si rivela provvidenziale l’incontro e la lotta notturna con lo sconosciuto. Lo sconosciuto ha partita vinta quando tocca l’estremità del femore di Giacobbe e ne provoca la slogatura. Ma Giacobbe resiste ancora e ne riceve la benedizione e con essa la consapevolezza che il Signore è con lui e sarà con lui anche nell’incontro con il fratello. Egli si è misurato con Dio, chi può ancora temere? E Dio lo ha benedetto e quindi chi mai potrà batterlo?

Alzò gli occhi Giacobbe e vide Esaù che si avvicinava con quattrocento uomini. Mise in ordine la sua famiglia, mettendo i figli vicini alle loro madri ed egli si mise davanti a tutti e si prostrò a terra sette volte finché non giunse il fratello.

Quando Esaù giunse tutti i timori nutriti da Giacobbe si dissolsero. Esaù corse incontro al fratello e lo abbracciò, lo baciò e piansero insieme. Chiese Esaù della famiglia di Giacobbe ed a turno si prostrarono a lui le ancelle e i loro figli, Lea ed i suoi figli, Rachele e Giuseppe.

Giacobbe disse al fratello dei doni che aveva preparato per lui ma il fratello si schernì affermando che lui era già ricco di suo e che lui tenesse pure i doni per sé. Giacobbe però insistette tanto finché Esaù accettò. Si lasciarono quindi e Giacobbe proseguì il suo viaggio e giunse alla città di Scechem, in terra di Canaan dove si accampò. Acquistò la parte del campo dove era la sua tenda e là eresse un altare, presso il quale proclamò:

Dio è il Dio d’Israele.

Dina, la figlia che Giacobbe ebbe da Lea, uscì per vedere le donne del paese. Ma Shechem, figlio di Chamor, principe ittita della città, la vide e la rapì. Si giacque Shechem con lei violentandola.
Ma Shechem si affezionò a Dina tanto che disse a suo padre di prendergli in moglie quella fanciulla. Chamor si recò da Giacobbe e trovò lui ed i suoi figli addolorati ed adirati per il disonore subito da Dina e per l’offesa ricevuta dalla famiglia.

Chamor parlò chiedendo che Dina fosse concessa in moglie a suo figlio Shechem che si era invaghito di lei. Aprì le porte del suo paese Chamor, auspicando che tra la sua gente e quella di Giacobbe potesse avvenire un imparentamento reciproco a mezzo delle loro figlie. Chamor peraltro si obbligò a provvedere al premio nunziale la cui entità lasciava che fosse determinata da Giacobbe e dai suoi figli.

I figli di Giacobbe risposero, avendo già ordito un inganno a causa del disonore che Shechem aveva arrecato alla loro sorella Dina. Essi dissero infatti che l’offerta di Chamor avrebbe potuto essere accettata solamente se tutti i maschi della gente di Chamor fossero stati circoncisi, come loro erano circoncisi.

Chamor tornò in città dalla sua gente e riferì nel merito della richiesta ricevuta di circoncidere tutti i maschi e disse che riteneva questa richiesta accettabile e che sarebbe stato comunque vantaggioso per loro legarsi a questa nuova gente e che da questa unione sarebbe derivato un rafforzamento della loro città.

Tutti gli abitanti della città diedero ascolto a Chamor e tutti i maschi furono circoncisi.
Al terzo giorno, quando tutti i maschi della città erano sofferenti, Simeone e Levi, fratelli di Dina, presero le loro spade e, all’insaputa di Giacobbe, si precipitarono nella città, uccidendone tutti i maschi, compresi Chamor e suo figlio Shechem.

Quando Giacobbe seppe ciò che avevano fatto, egli si lagnò con loro perché la sua gente veniva a trovarsi così in cattiva luce in un ambiente dove sarebbe bastata una coalizione di due o più popoli contro di loro per annientarli. Ma i suoi figli gli risposero:

Avrebbe dovuto la nostra sorella essere considerata come una meretrice?

Il Signore disse a Giacobbe:

Alzati, va’ a Beth-El e là fa’ un altare al Dio che ti apparve quando fuggivi da tuo fratello Esaù.

Giacobbe disse alla sua gente di consegnare tutti gli idoli che erano tra loro e di purificarsi, dopo di ché sarebbero andati a Beth-El dove lui avrebbe eretto un altare al Dio che l’aveva già esaudito nel periodo di maggiore angustia della sua vita.

Così fecero e quando giunsero a Beth-El Giacobbe eresse un altare e chiamò quel luogo El-Beth-El, perché là gli era apparso Dio quando era fuggito da suo fratello. In quel luogo morì Debora, nutrice di Rebecca e fu seppellita giù a Beth-El sotto una quercia che prese il nome di quercia del pianto.

Ancora una volta Dio apparve a Giacobbe di ritorno da Paddam-Aram, lo benedisse e gli disse:

Tu ti chiami Giacobbe; non continuerai a chiamarti ancora Giacobbe, il tuo nome sarà Israele.

E gli impose nome Israele. Dio stesso soggiunse:

Io sono Iddio Onnipotente, prolifica e diventa numeroso, una nazione; un insieme di nazioni deriverà da te; dai tuoi lombi usciranno dei re. A te assegno la terra che già assegnai ad Abramo ed Isacco, la darò alla tua discendenza dopo di te.

Giacobbe eresse un monumento di pietra nel luogo ove Dio gli aveva parlato e vi fece libazione e vi spruzzò olio. Pose nome Beth-El a quel luogo.

Partirono in direzione di Efrath, ma prima di giungervi Rachele partorì ed ebbe un parto difficile. Nacque Beniamino ma Rachele non ce la fece e morì. La tomba che Giacobbe eresse per lei è ancor oggi visibile sulla via di Efrath che è Beth-Lèchem.

Israele partì e piantò le tende oltre Migdal Eder e mentre era qui Ruben giacque con Bilhà, concubina di suo padre ed Israele venne a saperlo.

Dunque i figli di Giacobbe erano dodici e Giacobbe andò da suo padre Isacco in Mamrè Kirjath Arbà, poi detta Chevron. Isacco aveva centottantanni quando morì e si riunì alla sua gente. I figli Esaù e Giacobbe lo seppellirono.

Il capitolo 36, finale della parashà tratta della discendenza di Esaù o Edom. Esaù prese le sue mogli tra le cananee ed ebbe anch’egli molti figli ed anche il suo bestiame e gli altri beni crebbero fino al punto che la terra di Canaan non poteva più ospitare lui e suo fratello Giacobbe insieme. Esaù si trasferì allora in un altro paese e andò sul monte Se’ir.
Anche la discendenza di Esaù fu molto numerosa ed al termine della narrazione è l’enumerazione dei re che regnarono in Edom fino ai tempi mosaici.

Trovo che il passo più appassionante della parashà sia quello della lotta di Giacobbe con lo sconosciuto che si rivelerà poi come la lotta di Israele con Dio. E’ questo l’episodio che dice alla nostra sensibilità: fermati ed ascolta ciò che intendo dirti. Il Signore, ammesso che l’essere umano lo incontri, è una dimensione verso la quale non ci si deve mantenere passivi, attendendo che lui faccia tutto e ci impregni di sé. E’ richiesta la nostra partecipazione attiva, critica, anche la nostra contestazione, in definitiva la lotta con Lui, affinchè così Egli possa intimamente penetrare in noi, fin nei più riposti anfratti della nostra anima e renderci consapevoli della nostra appartenenza a Lui, dell’essere noi figli ed Egli Padre.