martedì 30 agosto 2011

Sciofetim

(Deu. 16,18-21,9)
Mosè rammenta al popolo la prescrizione ricevuta di procedere alla nomina di giudici e di funzionari di sorveglianza, che dovranno risiedere in ciascuna delle città che il Signore vorrà concedere ad Israele, e che avranno il compito di giudicare il popolo “con vera giustizia” e vigilare sulle questioni che dovessero insorgere nell’ambito della loro comunità.

Non torcere il diritto, non avere riguardi di sorta e non farti corrompere perché il prezzo della corruzione accieca gli occhi dei saggi e rende tortuose le parole dei giusti. La giustizia la vera giustizia seguirai affinché tu viva ed erediti la terra che il Signore tuo Dio sta per darti”.

Queste sono le parole rivolte al popolo, che indicano il corretto comportamento cui ciascuno dovrà attenersi, in particolare se dovrà svolgere la funzione di giudice o di funzionario di polizia o amministrativo.
Sono direttive di grande valore etico, che parrebbero a prima vista di facile e naturale attuazione, eppure, se ci guardiamo intorno e consultiamo i mezzi d’informazione, possiamo accorgerci di quanto invece al giorno d’oggi siano troppo spesso disattese.

Non torcere il diritto” dice Mosè, ma noi a questo proposito nell’assistere all’operato di giudici ed avvocati abbiamo la sensazione che spesso il diritto fissato nei codici venga non solamente approfondito ed interpretano, ma anche deformano, ed a volte sovvertito. L’attività di interpretazione è di per sé lecita, anzi doverosa, perché ogni questione portata in giudizio ha una propria particolarità ed è appunto per questo che l’attività di giudici ed avvocati è meritoria quando si prefigge di cogliere le particolarità del singolo caso ed alla luce di queste particolarità e dei codici arrivare ad un equo giudizio. Ma può capitare a volte che il pensiero e l’operato di giudici e funzionari sia influenzato da fattori che con la giustizia hanno poco a che spartire, questi fattori d’influenza sono essenzialmente connotati da interessi di potere o da interessi economici o, in alcuni casi, da posizioni precostituite personali, o ancora da paura.
Le ingerenze possono verificarsi, ad esempio, quando si debba giudicare l’operato di un “potente” dal punto di vista politico, o economico, o che comunque occupi una posizione di rilievo sociale. Queste ingerenze possono provenire teoricamente dalle due opposte fazioni dei sostenitori e dei detrattori del personaggio, ma poiché in realtà questi fatti avvengono quando il partito dei detrattori sta già prevalendo sull’altro, ecco che le pressioni saranno sostanzialmente quelle intese ad arrivare ad un giudizio sommario di condanna. Nel manifestare queste pressioni si faranno balenare a chi deve esprimere il giudizio, in modo più o meno larvato, i vantaggi per incarichi politici, professionali o di carriera, che sostanzierebbero la riconoscenza per una sentenza orientata in senso favorevole.
E non si dica che queste cose non succedono perché ricordo di avere assistito personalmente ad un‘arringa di un Procuratore della Repubblica, il quale a sostegno della propria accusa dava lettura pubblica di un articolo di legge, omettendone una riga, con il risultato di stravolgerne e sovvertirne il significato, sicchè un fatto lecito diveniva con tale lettura illecito. Per sua fortuna l’indagato, che evidentemente era ben preparato in materia, contestò la citazione e le conclusioni del Procuratore, ottenendo l’immediata lettura integrale dell’articolo di legge ed ebbe modo, durante tale lettura, di evidenziare il passo della legge che sanciva la liceità del fatto contestato.
Il fatto si commenta da sé a proposito della prescrizione di “Non torcere il diritto”.
Le corruzioni, per denaro, per carriera, per paura sono mali diffusi. Purtroppo veniamo a conoscenza giornalmente di questi episodi, i media parlano generalmente dei fatti più eclatanti, che fanno scalpore per dimensione o per calibro dei personaggi che vi si trovano invischiati, ma ci sono moltissimi casi minori di bashish pagati, anche a livello infimo, per ottenere senza ostruzionismi ciò di cui abbiamo diritto .”Il prezzo della corruzione acceca gli occhi dei saggi e rende tortuose le parole dei giusti” così dice Mosè perché la corruzione è una malattia, è un vizio, è una droga dalla quale il corrotto non riesce più a liberarsi, perché la corruzione modifica la sua visuale del mondo e distrugge l’etica scacciandola dalla sua vita.
Il corrotto è perduto, si è allontanato dal Signore ed ha eretto nuovi idoli da adorare che saranno il potere ed il denaro.

Se in una delle città che il Signore sta per dare ad Israele, si venisse a sapere che un uomo o una donna pratichino l’idolatria, dovrà farsi un’inchiesta e se ciò risultasse vero, l’uomo o la donna saranno condotti fuori dalla città e messi a morte per lapidazione. La condanna a morte potrà avvenire per la deposizione di due o tre testimoni. Non si potrà condannare a morte per la testimonianza di un solo testimone. I testimoni scaglieranno la prima pietra.

Se una causa è particolarmente controversa, sicché il Tribunale locale non riesce a dirimerla, la questione dovrà essere sottoposta a Gerusalemme ai Sacerdoti ed al Giudice in carica che esprimeranno il verdetto. Chi rifiutasse di sottostare a questo verdetto verrà messo a morte.

Quando il popolo si sarà stabilito nella terra promessa, qualora desiderasse avere, come le altre nazioni che gli stanno intorno, un re a proprio capo, il re sarà quello che Dio sceglierà e sarà un ebreo. Questo re dovrà rifuggire da manifestazioni di sfarzo, potenza e ricchezza. Non aumenterà il numero dei suoi cavalli, né quello delle sue donne, né ammasserà troppo argento e oro. Sono idoli anche questi ed il re dovrà sottrarsi dall’adorarli.

Quando egli sarà sul trono del suo regno dovrà scrivere per suo uso una copia di questa legge su di un libro copiandola da quella che posseggono i sacerdoti della tribù di Levi. La terrà con sé e la leggerà per tutta la sua vita per apprendere a temere il Signore suo Dio, per osservare tutte le parole di questa legge e questi statuti onde eseguirli, affinché il suo cuore non si insuperbisca verso i suoi fratelli e non si allontani in alcun modo dai precetti, onde prolunghi i giorni del suo regno, egli ed i suoi figli, in mezzo a Israele”.

Al capitolo 18 Mosè precisa quali siano i diritti dei sacerdoti sulle offerte presentate al Tempio, sia per quanto riguarda gli animali, sia per i prodotti agricoli, sia per la prima tosatura del gregge.
E se un Levita di una qualunque città del territorio d’Israele desiderasse prestare servizio al Tempio, come i suoi fratelli Leviti che stanno già là, davanti al Signore, lo potrà fare e mangiare insieme e divideranno tutto in parti uguali ad eccezione dei proventi che al Levita derivano dall’eredità dei padri.

Mosè ammonisce nuovamente il popolo a non lasciarsi tentare dal seguire i riti e le usanze abominevoli delle popolazioni che dovranno essere scacciate dalla terra promessa, le quali avevano tra l’altro l’usanza di prestare ascolto ad indovini, maghi,stregoni, incantatori, necromanti.
Mosè dice che il Signore potrà anche far sorgere un profeta dal popolo d’Israele e che a lui dovrà prestarsi ascolto, se sarà un vero profeta, ma sarà messo a morte se invece sarà falso.

Un profeta Io farò sorgere per loro da mezzo ai loro fratelli come te e metterò nella sua bocca le Mie parole sì che egli possa dire ciò che gli comanderò. E a quell’uomo che non ubbidirà alle Mie parole che egli pronunzierà in Mio nome, Io gliene domanderò conto. Ma quel profeta che oserà dire qualsiasi cosa in Mio nome, cosa che Io non gli ho comandato di dire o che la riferirà in nome di altri dèi, quel profeta morirà”.

Il capitolo 19 inizia con la trattazione relativa alle tre città, che dovranno essere individuate tra tutte quelle della terra promessa, una volta che questa sarà stata conquistata, e nelle quali ogni omicida potrà trovare rifugio, sfuggendo alla vendetta dei parenti dell’ucciso, sempre che la morte di questi sia avvenuta per un incidente non voluto e senza odio.

E ciò affinché il vindice del sangue non insegua l’omicida, mentre il suo cuore arde d’ira, e non lo raggiunga perché la strada da percorrere è lunga e non lo uccida mentre egli in effetti non è passibile di morte in quanto non aveva mai odiato per il passato l’ucciso”.

Se il Signore ingrandirà il territorio assegnato ad Israele rispetto a quello promesso ai suoi padri, allora si dovranno aggiungere altre tre città rifugio alle tre già designate.
Se un assassino, che abbia ucciso per odio e intenzionalmente una persona, cercherà rifugio in una di queste città, gli anziani lo faranno consegnare al vendicatore ed egli sarà ucciso.

Segue quindi una breve prescrizione riguardante l’inviolabilità dei confini agricoli, e anche questa che ci appare una prescrizione ovvia, di fatto ovvia non è quando si pensi che in alcune delle nostre regioni italiane i confini delle proprietà agricole sono formati con cumuli di pietrame, che nottetempo o durante l’assenza di un proprietario vengono spostati, secondo un malvezzo diffuso al punto tale da rendere irriconoscibile la situazione dei possessi indicata dalle mappe catastali.

Si parla quindi del falso testimone, al quale sarà lecito fare tutto quanto egli aveva pensato di fare al suo fratello e qui Mosè pronuncia le parole emblematiche della cosiddetta legge del taglione:

Non dovrai avere pietà; vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”.

In merito a queste parole è da segnalare la nota in Esodo 21,24 inserita nel testo del Tanàk a cura di Rav Dario Di Segni:

“La Legge orale spiega che qui si tratta di risarcimento pecuniario secondo la gravità del danno. Le locuzioni: occhio per occhio ecc., nella lingua metaforica della Torà significano che le lesioni porteranno conseguenze di danni o interessi proporzionate all’importanza dell’organo colpito o all’intensità del dolore”.

Personalmente penso che, se si decide di abbandonare il senso letterale della legge del taglione, allora si può stabilire sia una pena, sia un risarcimento. Quest’ultimo può essere pecuniario, ma la pena può anche prevedere ad esempio la fustigazione, o la detenzione.

Il capitolo 20 è dedicato alle prescrizioni della guerra. Quando ti sembrerà che il tuo nemico sia più agguerrito e più forte di te, ricorda, dice Mosè, che il Signore, Colui che ti trasse fuori dall’Egitto, è con te: questo ti dirà il Sacerdote quando sarai prossimo alla battaglia.
Seguono delle disposizioni che i comandanti daranno per esentare dalla guerra chi avrà costruito una casa nuova e non l’abbia ancora inaugurata; chi abbia fatto promessa di matrimonio, ma non abbia potuto ancora sposarsi; chi abbia piantato una vigna e non ne abbia ancora mangiato i frutti; ma anche disporranno che torni a casa chi abbia poco coraggio e rischi con la sua presenza di scoraggiare i suoi fratelli.

Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa dovrai offrirle la pace”.

Ma se l’offerta non sarà accettata, prosegue Mosè, la espugnerai e, quando l’avrai conquistata, passerai a fil di spada tutti gli uomini. Le donne, i bambini, gli animali ed i beni che troverai saranno il bottino di guerra del popolo d’Israele.
Con questa distruzione si ribadisce ancora che ha la finalità è quella di impedire la propagazione dell’idolatria da quelle popolazioni al popolo d’Israele.
Chiude il capitolo 20 la prescrizione di non distruggere gli alberi da frutto delle città assediate:

Infatti è forse l’albero del campo come un uomo che può a causa tua ritirarsi in luogo fortificato?

La parashà conclude con la prima parte del capitolo 21 dove vengono dettate le prescrizioni sugli adempimenti necessari nel caso in cui venga trovato un uomo ucciso in un campo e non si sappia chi l’abbia ucciso.
Si tratta del rito di purificazione cui sarà tenuta la città più vicina e che verrà eseguito dagli anziani della città, i quali condurranno una giovenca che non abbia mai lavorato sul letto sassoso di un torrente asciutto e qui l’uccideranno e reciteranno la preghiera per il perdono:

Le nostre mani non hanno versato questo sangue ed i nostri occhi non hanno veduto. Perdona il Tuo popolo, Israele, che Tu hai redento, o Signore, e non dargli la responsabilità di questo sangue innocente versato in mezzo al tuo popolo Israele, sì che possa essere loro perdonato il sangue versato”.

lunedì 22 agosto 2011

Reè

(Deu. Da 11,26 a 16,17)
Benedizione e maledizione, berakhah e kelalah, vengono prospettate da Mosè al popolo come conseguenze alternative ai propri comportamenti: benedizione se verranno ascoltati i precetti del Signore, maledizione se non lo saranno. Quando il popolo avrà attraversato il Giordano e sarà entrato nella terra promessa, giungerà in prossimità di due monti, Gherizim ed Eval, l’uno di fronte all’altro, il primo fertile, il secondo sterile. Sul monte Gherizim verranno date le benedizioni, sull’Eval le maledizioni.
Anche in questa occasione, nel riferirsi alle maledizioni per non avere ascoltato i precetti del Signore, Mosè fa esplicito riferimento all’idolatria:

… per andare dietro agli altri dèi che non avete mai conosciuto”.

L’idolatria sarà sempre oggetto di anatema, di una maledizione cioè che implica haherem la distruzione, perché questa sarà sempre la colpa più insidiosa per il popolo, la colpa cui consegue la perdita della fiducia del Signore e che smarrisce l’identità del popolo eletto e lo distrugge in quanto disperso tra tutte le nazioni.

Voi distruggerete tutti quei luoghi dei quali verrete in possesso, che i pagani destinano al culto dei loro dèi …”.

Abbatterete i loro altari, spezzerete le loro stele, e le loro asheroth darete alle fiamme, le immagini dei loro dèi farete a pezzi e farete sparire il loro nome da quel luogo”.

Il popolo d’Israele, prosegue Mosè, cercherà il luogo che il Signore sceglierà per edificare il Suo Santuario e solamente in quel luogo porterà i suoi sacrifici, le sue decime, i suoi tributi, i suoi voti, i suoi doni ed i primogeniti dei suoi armenti.

Mangerete là davanti al Signore vostro Dio e vi rallegrerete voi e le vostre famiglie di ogni vostra iniziativa per la quale il Signore Dio tuo ti ha benedetto”.

Gioirete dunque davanti al Signore vostro Dio voi, i vostri figli, le vostre figlie, i vostri schiavi e le vostre schiave nonché il Levita che è nelle vostre città, poiché egli non ha parte né possesso alcuno con voi. Guardati bene dunque dall’offrire i tuoi olocausti in qualsiasi luogo ti piaccia, perché solo nel luogo che sceglierà il Signore in una delle tue tribù, là dovrai portare i tuoi olocausti e là dovrai fare tutto ciò che io ti comando”.

Mangiare assume per l’ebreo valore sacrale, e più avanti ciò troverà conferma nell’enunciazione delle regole della kasherut, ma già qui il richiamo nel dire che ciò si fa davanti al Signore e in allegria conviviale, con la propria famiglia e con il Levita addetto al servizio del Santuario, ci rammenta che noi oggi facciamo la benedizione del pane con due challot perché alla nostra tavola è il Signore che siede con noi, ed anche se saremo soli la nostra tavola sarà sempre imbandita per due.

L’unicità del luogo prescelto dal Signore per l’offerta degli olocausti, che è quello sul quale sarà poi edificato il primo Tempio di Gerusalemme, ha fatto sì che gli avvenimenti succedutisi a partire dalla distruzione del secondo Tempio ad opera di Tito nel 70 dell’e.v. e la successiva perdita della sovranità del luogo nei secoli seguenti, fino ad arrivare all’attuale intricata situazione della spianata, hanno reso non più disponibile il luogo per l’effettuazione dei sacrifici.

Chiarisce Mosè al popolo che per quanto riguarda il mangiare carne sarà consentito di farlo liberamente, macellando animali del proprio bestiame grosso e minuto e macellando anche daini e cervi, pur essendo questi ultimi animali selvatici e quindi non adatti ai sacrifici. In ogni caso non si dovrà mangiare il sangue in quanto veicolo della vita.
Per quanto riguarda però gli animali consacrati e quelli votati al Signore, questi dovranno essere portati nel luogo scelto dal Signore e si faranno sull’altare gli olocausti di carne e sangue e la carne potrà essere mangiata.

Ammonisce Mosè il popolo dall’essere preda di curiosità riguardo ai culti prestati dalle popolazioni sconfitte o, peggio ancora, di tentazioni di replicarli, significando l’abominio di detti culti, che giungevano a prevedere il sacrificio alla divinità dei propri figli, che venivano divorati dalle fiamme.

Non devi far questo al Signore tuo Dio perché essi hanno fatto per i loro dèi ogni sorta di azioni abominevoli che il Signore odia; infatti hanno arso nel fuoco per i loro dèi perfino i loro figli e le loro figlie”.

Comanda ancora Mosè al popolo che, qualora sorgessero in mezzo a loro profeti o sognatori, pur capaci di mostrare segnali o prodigi ma che esprimessero il proponimento di seguire altri dèi, tali profeti e sognatori vengano messi a morte. E se l’invito all’idolatria dovesse provenire da qualcuno della propria famiglia o dal migliore amico, questi dovranno essere messi a morte per lapidazione.
E ancora prosegue Mosè dicendo che, qualora si venisse a conoscenza che in una città si manifestano episodi di idolatria, dovranno farsi opportune indagini ed in caso affermativo saranno sterminati tutti gli abitanti, compreso tutto il bestiame e la città verrà data alle fiamme e non sarà mai più ricostruita.

La durezza di tutte queste prescrizioni va intesa sempre come mirata a distruggere l’idolatria che si conferma essere la colpa più grave che il popolo possa commettere.

Il capitolo 14 detta le norme per la kasherut, che in sintesi stabiliscono che sia consentito mangiare:
- tutti i quadrupedi che abbiano lo zoccolo spaccato in due e che siano ruminanti;
- tutti i pesci che siano provvisti di pinne e squame;
- tutti gli uccelli ad eccezione dei rapaci in genere ed altri che non sono solitamente ritenuti commestibili (è da segnalare come non consentito lo struzzo).

Vige inoltre l’obbligo della decima di ogni prodotto dei campi che ogni anno dovrà portarsi nel luogo scelto dal Signore:

… e dovrai mangiare dinanzi al Signore tuo Dio nel luogo che Egli scelse per far ricordare il Suo nome la decima parte del tuo grano, del tuo mosto e del tuo olio e i primogeniti del tuo bestiame grosso e minuto, onde tu impari a temere per tutta la tua vita il Signore tuo Dio”.

Se, a causa della distanza, non fosse possibile portare le decime, queste potranno essere convertite in denaro ed arrivati al luogo prescelto dal Signore si potrà acquistare sul posto bestiame grosso e minuto, vino, liquori e quant’altro si desidera per poter offrire i sacrifici e mangiare davanti al Signore.
Questa prescrizione, incidentalmente, ci aiuta a capire quel passo del Vangeli in cui si dice che Gesù scacciò dal tempio i cambiavalute ed i venditori di colombe, e questo avvenne a Pesah.
Occorre infatti considerare che durante le feste di pellegrinaggio (Sukkot, Pesah e Shavuot) la presenza di cambiavalute, di venditori di animali e di prodotti idonei per i sacrifici nelle immediate vicinanze del santuario era del tutto normale e ciò per dar modo a chiunque di potersi procurare sul posto i prodotti necessari per le offerte del sacrificio.
Insomma durante le feste di pellegrinaggio l’aspetto delle adiacenze del Tempio era quello di un grande mercato, peraltro lecito perché funzionale al culto e perché previsto dalla Torà.

Ogni tre anni la decima avrebbe dovuto lasciarsi nella propria città e sarebbe stata destinata al Levita, al forestiero, all’orfano, alla vedova.

Ogni sette anni ci sarebbe stata la remissione dei propri crediti nei confronti dei debitori appartenenti al proprio popolo, mentre sarebbero rimasti esigibili solo quelli nei confronti dello straniero.
Sempre ogni sette anni sarebbe avvenuta la liberazione dello schiavo ebreo, a meno che egli non esprimesse il desiderio di rimanere.

Per quanto riguarda i poveri le parole di Mosè furono:

Quando in mezzo a te si trovi un povero, uno dei tuoi fratelli in una delle città del tuo paese che il Signore ti concede, non dovrai indurire il tuo cuore né chiudere la tua mano al tuo fratello povero”.

Tu devi dargli ciò che ha bisogno e non deve dolersi il tuo cuore quando glielo darai perché proprio per questo atto ti benedirà il Signore tuo Dio in tutte le tue azioni ed in tutto ciò che tu intraprenderai. Poiché il povero non mancherà mai nel paese, io ti ho comandato: apri la tua mano al tuo fratello povero ed al misero nel tuo paese”.

Questo precetto di soccorrere il povero fa il paio con quello della scorsa parashà Ekev dove si prescrive di soccorrere lo straniero. La mia opinione, trasportata al giorno d’oggi, è la stessa: distingui il povero transitorio, occasionale, per disgrazia e che vuole rialzarsi dal povero stabile, professionale, che si è adattato a vivere stabilmente ai margini della società. Nel primo caso il tuo aiuto sarà efficace, nel secondo caso occorre un recupero sociale che necessita di un intervento specializzato.

Il capitolo 16 che conclude la parashà enumera le prescrizioni per le feste di pellegrinaggio.
Per Pesah si offrirà il sacrificio pasquale di ovini e bovini nel luogo scelto dal Signore per il Santuario, sarà vietato per sette giorni di mangiare e detenere qualsiasi cosa lievitata, sarà vietato che la carne immolata il pomeriggio del giorno precedente la festa rimanga durante la notte e fino al mattino. Per sei giorni si mangerà pane azzimo e nel settimo giorno vi sarà una riunione in onore del Signore e non si lavorerà.
Per Shavuot, festa della mietitura, sarà recata l’offerta al Signore e si festeggerà con la propria famiglia, con gli schiavi, con il Levita, con il forestiero, l’orfano e la vedova.
Con modalità del tutto analoghe, ma per sette giorni, verrà celebrata Sukkot recando le offerte al Signore e festeggiando collettivamente.




martedì 16 agosto 2011

Ekev

(Deu.7,12-11,25)
La parola ekev significa per conseguenza o anche per ricompensa con una visione ottimistica di una conseguenza ad una azione positiva.
Mosè prosegue nel suo discorso, dicendo al popolo che, se eseguirà le leggi che gli sono state comandate, allora per ricompensa sarà amato, benedetto e si moltiplicherà, perché benedetto sarà il frutto del suo ventre, quindi i suoi figli, e il frutto della terra, grano, mosto, olio, ed i parti del suo bestiame, grosso e minuto.
Benedetto fra tutti i popoli, cioè distinto fra essi perché di lui si dirà bene, sarà allora il popolo d’Israele, che, grazie all’intervento del Signore, conquisterà la terra promessa, sconfiggendo altri popoli molto più potenti di lui.

Tu divorerai tutti i popoli che il Signore tuo Dio è per dare in tuo possesso, non avrai pietà di loro e non servirai i loro dèi perché questo sarebbe per te causa di rovina”.

Il Signore tuo Dio manderà contro di loro il calabrone, finché periranno coloro che saranno scampati e coloro che si saranno nascosti davanti a te”.

Il Signore tuo Dio scaccerà quelle nazioni dalla tua presenza poco a poco; non potrai distruggerli rapidamente affinché non abbiano a moltiplicarsi contro di te le belve della campagna”.

Divorare tutti i popoli, qui è evidente che non si tratta di cannibalismo, ma è una locuzione che rende molto bene l’idea del fagocitare, dell’assimilare, del rendere simili a sé, distruggendo i loro dèi ed i loro riti, perché nei loro dèi e nei loro riti si annida l’insidia più terribile, la più aborrita: l’idolatria e la perdita della fiducia del Signore.
Il Signore sterminerà i superstiti di questi popoli e coloro che si saranno nascosti, e ciò per impedire che possa sopravvivere con essi l’idolatria nella terra che il Signore avrà dato al popolo d’Israele.
La cacciata degli idolatri sarà graduale per dar modo al popolo d’Israele di organizzarsi nel soppiantare quelle popolazioni e con ciò sarà impedito che la terra altrimenti abbandonata impoverisca ed inselvatichisca.

Rammenta Mosè i quarant’anni di peregrinazione nel deserto, che costituirono una prova severa per conoscere se il popolo avrebbe osservato i precetti del Signore o no. Ricorda la fame che il popolo dovette patire.

Egli ti umiliò, ti fece provare la fame e ti dette da mangiare la manna che non conoscevi e che non avevano conosciuto i tuoi padri, per farti sapere che l’uomo non vive di solo pane, ma che egli può vivere di tutto ciò che esce dalla volontà espressa dal Signore”.

Evidente è qui il connubio tra il significato reale e concreto di avere sfamato un popolo, rivelando loro le risorse che la natura offre per alimentarci quando vengano a mancare i cibi ai quali siamo tradizionalmente abituati, ed il significato simbolico di alimento costituito dalla fiducia nel Signore e nell’insolito, sorprendente, inaspettato che Egli può porre sulla nostra strada per risolvere le più gravi difficoltà nelle quali ci troviamo ad imbatterci.

Ammonisce Mosè il popolo affinché, quando verrà in possesso della buona terra che il Signore gli ha dato e mangerà e si sazierà dei suoi frutti, non abbia a insuperbirsi ed a dimenticare il Signore.

Ma ti ricorderai invece del Signore tuo Dio perché è Lui che ti concede la forza di procurarti il benessere per mantenere fede al patto che giurò ai tuoi padri, come avviene oggi”.

Non dunque per la tua rettitudine e per l’onesta del tuo cuore tu pervieni a possedere la loro terra, ma per la malvagità di questi popoli il Signore tuo Dio li caccia davanti a te, al fine di mantenere ciò che giurò ai tuoi padri, Abramo, Isacco e Giacobbe, e Tu saprai dunque che non è per la tua rettitudine che il Signore tuo Dio ti concede questa buona terra in possesso, perché tu sei un popolo dalla dura cervice”.

Quindi Israele non avrebbe mai potuto conquistare la terra promessa con le sole proprie forze, se non avesse avuto dalla sua parte il Signore. Ed inoltre il Signore avrebbe condotto il popolo alla conquista della buona terra non perché ne avesse ravvisato le virtù meritevoli, semmai sarebbe stato per la malvagità dell’idolatria dei popoli che la occupavano. Ma soprattutto l’unico vero motivo per il quale il Signore condurrà il Suo popolo alla conquista della terra promessa è il patto giurato ad Abramo, Isacco e Giacobbe.
Ed a riprova dei loro demeriti Mosè rammentò la vicenda del vitello d’oro, da loro fabbricato proprio mentre lui riceveva sul monte Chorev le due tavole di pietra scritte dalla mano di Dio. Ricordò come per lo sdegno e l’ira le avesse spezzate e come avesse trascorso i successivi quaranta giorni senza mangiare e senza bere in espiazione dei loro peccati e rammentò come li avesse salvati dall’ira del Signore.

Infatti io temevo per lo sdegno e l’ira concepiti contro di voi dal Signore che minacciava di distruggervi. Ma il Signore mi dette ascolto anche questa volta. Anche contro Aron si era sdegnato molto il Signore tanto che voleva distruggerlo, ma io pregai anche in favor suo in quel tempo”.

Aron fratello di Mosè, che abbiamo conosciuto come la voce di un Mosè balbuziente davanti al Faraone, primo Gran Sacerdote del Santuario, eppure così debole se privato della guida di suo fratello, il condottiero ispirato da Dio.
La colpa di Aron era stata gravissima: quando il popolo, non vedendo tornare Mosè dal monte, gli chiese "facci un Dio", egli acconsentì e permise la fabbricazione del vitello d’oro e che venissero celebrati riti pagani.
Al ritorno di Mosè dal monte per la purificazione dalla colpa di avere adorato il vitello d’oro morirono tremila dei fuorusciti dall’Egitto, su delazione dei propri fratelli e dei propri compagni, ma Aron fu salvo.
I sostenitori di Aron affermano che egli nella vicenda fu accondiscendente allo scopo di prevenire il manifestarsi di possibili disordini e magari la disgregazione del popolo, se ancora una volta avesse preso corpo l’idea del ritorno alla terra degli schiavi.
Ma forse Aron non è stato accondiscendente per una questione di accortezza e di calcolo. Potrebbe essere invece, per la complementarità dei due fratelli, che Aron sia stato un debole, come se la personalità, la forza del fratello Mosè, alla cui ombra egli ha vissuto, avesse prosciugato anche le sue energie.
E’ salvo Aron, forse immeritatamente se confrontiamo la sua colpa con la drammatica vicenda dei suoi due figli che verranno inceneriti non per una mancanza ma per un eccesso di zelo dovuto a palese inesperienza. Aron deve la sua salvezza unicamente all’intercessione di suo fratello Mosè. Così come tutto il popolo d’Israele deve a Mosè la sua salvezza, per avere egli placato l’ira del Signore, quando Egli lo avrebbe voluto distruggere sdegnato per le sue colpe.

Qui è la grandezza di Mosè, condottiero, guida, forgiatore del popolo, ma soprattutto capace non solo di ascoltare, ma anche di dialogare con il Signore, al punto tale di convincerlo, di legarlo nuovamente a sé ed al Suo popolo.

Rammentato il taglio delle nuove tavole di pietra e la costruzione dell’arca, Mosè ricorda anche la morte del fratello Aron e la nomina al sacerdozio di El’azar e quindi la designazione della tribù di Levi per il servizio del Santuario ed infine egli dice al popolo quanto a lui disse il Signore:

Va’, passa in testa al popolo e va’ a conquistare la terra che giurai ai loro padri di dar loro”.

Rivolge quindi Mosè una vibrata esortazione al popolo affinché apra il proprio cuore e si disponga per percepire ed eseguire i precetti del Signore:

Circoncidete il prepuzio del vostro cuore e non siate più duri di cervice, perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi ed il padrone dei padroni, Iddio grande, potente e terribile, inflessibile e incorruttibile, che fa la giustizia dell’orfano e della vedova e che ama lo straniero dando loro cibo e vestiti. Amerete lo straniero perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto. Temerai il Signore tuo Dio, Lo servirai, ti attaccherai a Lui e giurerai nel Suo nome”.

Il riferimento allo straniero cui dare cibo e vestiti è di grande attualità in questa nostra Italia, che, flagellata da una severa situazione economica e consapevole di un dissesto sociale ancora in fase emergente, teme in modo preconcetto lo straniero e non sa distinguere tra lo straniero bisognoso della più elementare sussistenza e lo straniero che invece è alla ricerca di una ricchezza da trovare ai margini o al di fuori della legalità.
Allo straniero bisognoso daremo assistenza senza temerlo, aprendo il nostro cuore, dando a lui l’assistenza necessaria perché possa procedere autonomamente, senza pretendere restituzione, il Signore non ci farà impoverire per questo, ma al contrario saremo più ricchi, nel cuore.

Segue al capitolo 11, versetti da 13 a 21, il brano che costituisce la seconda parte dello Shemà:

Se dunque ascolterete i precetti che Io vi comando oggi, di amare cioè il Signore vostro Dio e di servirlo con tutto il vostro cuore e tutta la vostra anima, Io concederò alla vostra terra la pioggia a suo tempo, quella autunnale e quella primaverile, e tu potrai raccogliere il tuo grano, il tuo mosto ed il tuo olio; farò crescere l’erba nel tuo campo per il tuo bestiame e tu potrai mangiare e saziarti. Guardate bene però che il vostro cuore non sia sedotto e vi sviate, servendo altri dèi e prostrandovi a loro. La collera del Signore divamperebbe contro di voi! Egli chiuderebbe il cielo, non ci sarebbe più pioggia e la terra non potrebbe più dare il suo prodotto e voi scomparirete ben presto dalla buona terra che il Signore sta per darvi. Ma voi porrete invece queste mie parole nel vostro cuore e nella vostra anima, le legherete come segno sul vostro braccio e saranno come frontali fra i vostri occhi. Le insegnerete ai vostri figli parlandone con loro stando in casa, quando cammini per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le scriverai anche sugli stipiti delle porte della tua casa e in quelle della tua città, affinché si prolunghi la vostra vita e quella dei vostri figli nella terra che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri per l’eternità”.

L’essere umano che vivrà la propria vita seguendo i precetti del Signore non avrà debolezze, non sarà colto alla sprovvista e saprà superare serenamente ogni difficoltà, come se la pioggia fosse sempre venuta a tempo debito ed i raccolti fossero stati sempre sufficienti, come pure il foraggio per il suo bestiame.
Il precetto di porre queste parole nel proprio cuore e nella propria anima e di legarle al proprio braccio e porle fra i propri occhi conduce l’ebreo ad indossare giornalmente i tefillìn.
Analogamente alla prescrizione di scrivere queste parole sugli stipiti delle porte si deve l’uso di affiggere la mezuzàh sullo stipite destro della porta d’ingresso della propria casa.

Si conclude la parashà con una frase che pare travalicare la fase più immediata della conquista della terra promessa, il cui territorio è stato già definito come la terra che va dal Giordano al mare.
L’ultima frase risuona come una profezia di più vasta portata temporale e territoriale che promette al popolo che amerà e servirà il Signore territori che si estendono fino a comprendere la Siria, l’Iraq e la Giordania:

Poiché se voi osserverete tutti questi precetti che Io vi ho comandato di eseguire, amando cioè il Signore vostro Dio, seguendo tutte le Sue vie e rimanendo a Lui attaccati, il Signore caccerà da davanti a voi tutte queste nazioni e diverrete i dominatori di nazioni più grandi e più potenti di voi. Ogni località che la pianta del vostro piede calcherà sarà vostra dal deserto al Libano, dal fiume Eufrate fino al Mediterraneo si estenderà il vostro territorio”.


martedì 9 agosto 2011

Vaethchannan

(Deut.3,22-7,11)
La narrazione di Mosè prosegue col rammentare quando, alle soglie della terra promessa, egli chiese al Signore di consentirgli di passare il Giordano e vedere la buona terra che era al di là, i bei monti ed il Libano. Ma il Signore si adirò, “per colpa vostra” disse Mosè rivolto al popolo, ma sapeva benissimo che la causa del diniego era da attribuire, invece, alla sua disubbidienza, quando non eseguì il comandamento del Signore, che gli aveva detto di far sgorgare l’acqua parlando alla roccia e non battendola con il bastone, come invece egli fece. Dunque il Signore confermò a Mosè che egli non avrebbe passato il Giordano e che invece Giosuè sarebbe stato alla testa del popolo nella conquista della terra promessa.

Mosè esortò Israele ad ascoltare statuti e leggi che egli insegnava, affinché potessero pervenire a possedere il paese che il Signore intendeva dar loro: “Non aggiungete niente a quanto io vi comando e non togliete nulla osservando i precetti del Signore vostro Dio, che io vi comando”.
Rammentò Mosè ad Israele il giorno in cui il popolo si presentò al Signore, davanti al monte Chorev: “Egli vi espose il Suo patto che vi comandò di eseguire: dieci comandamenti che Egli scrisse su due tavole di pietra. In quel medesimo tempo il Signore mi comandò di insegnarvi statuti e leggi perché li mettiate in pratica nel paese che voi state per cominciare a conquistare”.
Poiché al monte Chorev, quando fu udita la parola del Signore, non fu vista alcuna immagine, per questo motivo il popolo non avrebbe dovuto fare alcuna raffigurazione, né di esseri umani, né di animali di qualsiasi tipo, né tanto meno avrebbe adorato il sole, la luna e le stelle della volta celeste. “Io chiamo oggi a testimoni il cielo e la terra che se quando genererai dei figli e avrai dei nipoti e sarete divenuti vecchi nel paese e commetterete delle colpe facendovi immagini riproducenti qualsiasi cosa e farete ciò che è male agli occhi del Signore Iddio facendolo adirare, in breve sparirete da quella terra, per possedere la quale voi passaste il Giordano; non prolungherete i vostri giorni su di essa perché sarete distrutti. Il Signore vi disperderà fra i popoli e rimarrete una minoranza presso le nazioni verso le quali il Signore vi avrà condotto. Là voi servirete degli dèi opera delle mani dell’uomo, di legno e di pietra, che non vedono e non odono, non mangiano e non odorano. Di là voi ricercherete il Signore tuo Dio e tu Lo ritroverai quando Lo ricercherai con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima. Quando in avvenire ti troverai angustiato essendoti capitate tutte queste vicende, tornerai al Signore tuo Dio ed ascolterai la Sua voce. Siccome il Signore tuo Dio è un Dio pietoso, non ti abbandonerà, non ti distruggerà e non dimenticherà il patto che giurò ai tuoi padri”.

Qui si dice che se Israele farà adirare il Signore, per aver smarrito la fiducia in Lui, allora Israele sarà distrutto. Ma la distruzione che il Signore infliggerà al Suo popolo per punirlo dei suoi peccati non sarà la cancellazione dell’esistenza del popolo, non sarà la morte di tutto il Suo popolo, sarà invece la dispersione, la schiavitù, l’umiliazione, che durerà fintantoché Israele non si renda conto dei propri peccati e di quanto abbia perduto con l’allontanamento dal Signore. Allora Israele potrà ancora ritrovare il Signore, se lo cercherà con tutta l’anima e con tutto il cuore. Ed il Signore sarà pietoso verso Israele e non dimenticherà il patto giurato con i suoi padri.
Il popolo d’Israele durante i quarant’anni del suo peregrinare dalla terra d’Egitto fino alla terra promessa ha veduto il verificarsi di numerosi episodi di eresia, ribellione e sfiducia nella parola del Signore, ed ha visto morire i colpevoli numerosi, tremila, trentamila, ventiquattromila, per l’ira del Signore. Ma l’intero popolo no, l’intero popolo non sarà sterminato perché il Signore terrà fede alla parola data.

Mosè disse del patto stabilito dal Signore sul monte Chorev e ripetè al popolo le parole pronunciate dal Signore, che esprimono il Decalogo, le dieci Parole, i dieci Comandamenti.
1) Io sono il Signore tuo Dio, non avrai altri dèi.
2) Non fare e non venerare alcuna immagine.
3) Non pronunciare il nome del Signore tuo Dio invano.
4) Santifica il giorno del Sabato.
5) Onora tuo padre e tua madre.
6) Non uccidere.
7) Non commettere adulterio.
8) Non rubare.
9) Non fare falsa testimonianza.
10) Non desiderare né la moglie, né i beni di altri.

Mosè proseguì esortando il popolo ad ascoltare ed osservare gli statuti ed i precetti allo scopo di poter vivere felicemente nella terra stillante latte e miele:
Ascolta Israele, il signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore, le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le legherai per segno sul tuo braccio e saranno come frontali fra i tuoi occhi e le scriverai sugli stipiti delle tue case e delle porte della città”.
Sono queste le parole con le quali inizia la preghiera dello Shemah, che ogni ebreo recita almeno due volte al giorno e da queste parole traggono origine anche i Tefillin, che si legano al braccio e sulla fronte, e le Mezuzoth affisse sulla sinistra degli stipiti delle porte.

Disse infine Mosè al popolo che, quando sarebbero entrati nella terra promessa e l’avrebbero posseduta, sconfiggendo con l’aiuto del Signore le popolazioni ivi esistenti e ben più numerose ed agguerrite di loro, avrebbero dovuto distruggerle completamente, senza scendere a patti, senza consentire matrimoni misti. Gli altari, le immagini, le steli e i legni consacrati di quelle popolazioni avrebbero dovuto essere spezzati e bruciati nel fuoco.
La preoccupazione è sempre quella che il popolo, ancora una volta, possa essere contaminato dall’idolatria praticata da quelle popolazioni. Si parla di distruzione di questi popoli e poi sappiamo che ciò non avvenne completamente, si parla di vietare i matrimoni misti ed invece sappiamo che dalla cananea Tamara, unitasi a Giuda, discenderà la stirpe di Davide. Allora questa distruzione va probabilmente interpretata come assimilazione, più che come eliminazione fisica.

mercoledì 3 agosto 2011

Il nove di Av

Il nove di Av è il giorno di maggior lutto del calendario ebraico. La tradizione colloca in questo giorno la distruzione del Primo e del Secondo Tempio. A questa data vengono collegate altre calamità che hanno colpito il popolo ebraico nella diaspora, compreso l’editto del 1492 di espulsione dalla Spagna (v. Arthur Green, Queste sono le parole, p.328), come pure il rogo dei libri talmudici avvenuto a Parigi nel 1244. Si ricordano anche, oltre la distruzione delle comunità sefardite di Andalusia ed Aragona, anche le distruzioni delle comunità aschenazite nella Germania e nella Francia (v. Yeshayahu Leibowitz, Le feste ebraiche, p. 104).

E’ una giornata di digiuno totale. La sera la Sinagoga è oscurata e la Comunità siede su panche basse o sul pavimento. Vengono intonati i versi del rotolo delle “Lamentazioni” di Geremia, ai quali segue la lettura delle “kinot”, lamentazioni funebri per lo più di epoca medievale.

La mattina seguente proseguono le lamentazioni funebri e non si indossano i “tefillìn” in segno di estrema angoscia. L’obbligo quotidiano di indossarli verrà rispettato solamente nel pomeriggio per il servizio di “Minchàh”.

Le “Lamentazioni” di Geremia sono contenute nel terzo libro delle Meghilloth, che prende il nome di “Echà” dalla prima parola del testo, che significa “Come mai”. Si tratta di una raccolta di elegie ispirate al disfacimento del Regno di Giuda ad opera dei Babilonesi, e quindi alla distruzione del Tempio di Gerusalemme ed all’esilio del popolo ebraico.

Questi avvenimenti catastrofici sono trattati, spiegati e commentati non, come faremmo noi al giorno d’oggi, sulla base di considerazioni politiche, economiche e militari, bensì conformandosi esclusivamente a considerazioni di tipo religioso.
Ecco che allora non si fa un ragionamento, che parta dall’esistenza da sempre nella regione di due grandi potenze, l’Egitto e Babilonia, in mezzo alle quali è la terra d’Israele, che potenza non è, e che è esposta a subire le pressioni, le scorrerie ed il vassallaggio imposti dai due imperi.
Si dice invece che nel mondo tutto avviene, sia il bene, sia il male, per volontà del Signore, connotandosi gli avvenimenti come premio o come punizione per il popolo d’Israele in relazione all’osservanza delle leggi da Lui impartite. Perciò la sventura della catastrofe, verificatasi con la distruzione del Tempio e la sconfitta e dispersione di Giuda è dovuta alla punizione divina inflitta al popolo ebraico a causa dei suoi peccati. E’ una visione completa dal punto di vista religioso, ma fatalmente miope dal punto di vista storico e politico, giacchè i veri protagonisti della Storia, appaiono invece come comparse incidentali, strumentali, che hanno la funzione di contribuire alla realizzazione degli avvenimenti che acquisiscono significato esclusivamente nel rapporto tra il Signore ed il popolo ebraico.
Questa visione miope, che chiude la porta al mondo, ma che nel contempo protegge da esso, la ritroviamo nell’istituzione del ghetto, luogo dove gli ebrei venivano rinchiusi dai gentili, ma che era anche il luogo dal quale, reciprocamente, gli ebrei escludevano i gentili. E’ la teoria delle due chiavi: una era quella da fuori usata dai gentili; l’altra era quella da dentro usata dagli ebrei.
Questa visione strettamente religiosa è uno dei fattori che hanno consentito la sopravvivenza dell’identità ebraica nella diaspora.
Se così non fosse stato, se gli ebrei avessero allargato la concezione di popolo eletto ad un ambito geografico e demografico non vincolato alla propria etnia ed al fazzoletto della propria terra, ecco, se ciò fosse stato sarebbe cambiata la storia del mondo.

Torniamo alle Lamentazioni ed estraiamo quindi dalla loro lettura, non la Storia, come siamo abituati noi a intenderla, ma il significato religioso che risiede nel rapporto tra il Signore e il popolo, tra il Signore e l’essere umano.

Un grave peccato commise Gerusalemme, perciò è diventata immonda: tutti coloro che l’onoravano ora la disprezzano, perché han visto le sue vergogne; anch’essa sospira e si volta indietro. La sua impurità e persino nei lembi delle sue vesti, non si era preoccupata della sua fine e cadde in modo sorprendente; nessuno ora la consola” (Lam.1,8)

Il Signore divenuto nemico, distrusse Israele, atterrò tutti i suoi palazzi, abbattè le sue fortificazioni e fece dilagare in mezzo alla figlia di Giuda il pianto e la disperazione. Devastò la sua capanna come quella d’un orto; distrusse il luogo delle riunioni, il signore fece dimenticare in Sion il giorno festivo e il sabato e rigettò nel furore della Sua ira re e sacerdote. Il Signore abbandonò il Suo altare, sprezzò il Suo santuario, consegnò le mura dei suoi palazzi in mano dei nemici; questi levarono la voce nella casa del Signore come in giorno di festa. Il Signore aveva deciso di distruggere le mura della figlia di Sion: prese quindi il regolo, non trattenne la mano dal distruggere, ridusse in luttuose condizioni bastioni e mura, che rimasero distrutti insieme. Le sue porte s’affondarono nella terra, Egli schiantò e spezzò le sue sbarre; il suo re e i suoi principi sono esuli tra le genti, non c’è più insegnamento sacerdotale e i profeti non trovano più visioni da parte del Signore.” (Lam. 2, 5-9)

Il Signore fece ciò che aveva deciso, mise in atto la Sua parola che aveva decretato da tempo, distrusse senza pietà, fece gioire il nemico sopra di te, esaltò la forza dei tuoi avversari”. (Lam. 2, 17)

Questi passi confermano che, secondo l’interpretazione religiosa, la catastrofe è avvenuta a causa dei peccati del popolo ebraico, ma non solo, essa è avvenuta per volontà del Signore, perché è il Signore che ha distrutto le mura di Gerusalemme, è il Signore che ha abbandonato il Suo altare ed il Suo Santuario.
Nei passi che seguono si esprime la desolazione per l’abbandono da parte del Signore e si comincia ad invocarne il ritorno.
Segue poi un brano di massima crudezza nel quale si narra dell’abiezione durante l’assedio di Gerusalemme quando si verificarono atti di cannibalismo, che videro le madri nutrirsi delle carni dei propri figli. Il Signore adirato diede alle fiamme Sion distruggendola fino alle sue fondamenta e disperse con gli abitanti, re, falsi profeti e sacerdoti, resi impuri dal sangue innocente di cui si erano macchiati.

Togliesti la pace all’anima mia ed io dimenticai che cosa è il bene. Dissi: è perduta la mia forza, la speranza mia nel Signore”. (Lam. 3, 17)

Chi mai stabilì una cosa e questa avvenne, senza che il Signore l’avesse comandata? Dall’eccelso non provengono forse il male e il bene? Perché dunque l’uomo si lamenta finché vive, ciascuno per i castighi dei suoi peccati?” (Lam. 3, 37-39)

Ti ammantasti d’ira e ci perseguitasti: uccidesti senza pietà. Ti copristi di una nube affinché non Ti giungesse la preghiera. Ci ponesti come spazzatura e rifiuto in mezzo ai popoli”. (Lam. 3, 43-45)

Invocai il Tuo nome, o Signore, dalle profondità del pozzo, e Tu hai certo sentito la mia voce; non chiudere l’orecchio ai miei sospiri e alle mie grida! Siimi vicino nel giorno in cui Ti invoco; dimmi: Non temere! Difendi, o Signore, la mia causa, rendimi la mia vita!” (Lam. 3, 55-58)

Mani di donne pietose fecero cuocere i propri figli, questi servirono loro da cibo durante la rovina della figlia del mio popolo. Il Signore diede sfogo alla Sua ira, riversando il Suo acceso furore, appiccò a Sion il fuoco che divorò le sue fondamenta. Né i re della terra, né tutti gli abitanti del mondo avrebbero mai creduto che il nemico, l’avversario sarebbe entrato per le porte di Gerusalemme. Ma questo avvenne per i peccati dei suoi falsi profeti, per le colpe dei suoi sacerdoti che avevano versato in mezzo ad essa sangue innocente. Essi barcollavano come ciechi per le strade, insozzati di sangue tanto che non si potevano toccare le loro vesti. Scostatevi!: un impuro! Si gridava. Scostatevi, scostatevi, non toccate!” (Lam. 4, 10-15)

La narrazione si conclude con la proclamazione della fiducia nel Signore e l’invocazione per il ritorno al Signore, come in antico.

Ricorda, o Signore, ciò che è accaduto a noi, osserva, guarda la nostra vergogna! Il nostro retaggio è passato nelle mani di stranieri, le nostre case sono in mano di estranei. Noi siamo rimasti orfani, senza padre, le nostre madri sono come delle vedove. Beviamo la nostra acqua pagandola, la nostra legna ci viene a caro prezzo. Ci perseguitano con un giogo sul collo, siamo affranti, non c’è dato di riposare. All’Egitto, all’Assiria stendemmo la mano per poterci saziare di pane”. (Lam. 5, 1-6)

Tu, o Signore, resti per sempre, il tuo trono esiste per tutte le generazioni. Perché ci vorrai dimenticare per sempre, abbandonarci per lungo tempo? Facci ritornare, o Signore, a Te ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come in antico. Poiché ormai ci hai veramente rigettato e ti sei grandemente sdegnato contro di noi”. (Lam. 5, 19-22)

Penso che al termine della lettura della meghillah sia d’obbligo una riflessione sulla valenza da riconoscere alla narrazione in relazione al lutto del 9 di Av.

La narrazione non mette in risalto la sconfitta subita ad opera di Babilonia, al contrario Babilonia ha una connotazione, come abbiamo visto, incidentale. La catastrofe è originata dal peccato e consiste nell’abbandono del Signore. Le conseguenze del peccato e dell’abbandono del Signore sono la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. Il rimedio, allora, non è la riconquista di Gerusalemme e la ricostruzione del Tempio, bensì la purificazione ed il ritorno al Signore, che, una volta attuati, porteranno come conseguenza la riconquista di Gerusalemme e la ricostruzione del Tempio.

martedì 2 agosto 2011

Moshele e l’ebraismo riformato

Venerdì sera Daniele sta andando da Davide, che ha organizzato a casa sua Kabbalat Shabbat. Le tefillot saranno seguite dalla cena e da una conversazione, che avrà per argomento l’ebraismo riformato.
Daniele sa che Davide abita al tredicesimo piano di un edificio a torre in un quartiere elegante ma periferico della città. Prende un taxi, che lo scarica davanti alla casa a torre, entra e si avvia verso gli ascensori. Si trova davanti un uomo barbuto e occhialuto vestito di nero e con un cappello nero a larga tesa. “E’ un lubavitch” diagnostica tra sé Daniele, che lo osserva mentre sta impalato davanti alla pulsantiera dell’ascensore e si dondola impercettibilmente in modo autistico.
“Shabbat Shalom” azzarda Daniele, “Shabbosh” è la risposta. “Il più è fatto” pensa Daniele, che pigia il pulsante per chiamare l’ascensore. Arriva, salgono, Daniele prende l’iniziativa: “Va al tredicesimo?”. “Si” è la risposta sintetica. Daniele riflette: “E’ un ortodosso, non avrebbe mai premuto il pulsante, se non fosse arrivato qualcuno a farlo per lui”. Si presentano in ascensore, visto che hanno scoperto di andare nello stesso posto. L’ortodosso si chiama Moshele.
Inizialmente quella sera Moshele farà una serie di scoperte positive. Kabbalat Shabbat è sostanzialmente uguale a quella che lui è abituato ad eseguire, le tefillot sono cantate o recitate in ebraico, alcune arie dei canti sono diverse da quelle che lui conosce, ma gli appaiono ugualmente ispirate dal punto di vista religioso. Il Kiddush è uguale, la benedizione del pane è la stessa. La cena è rigorosamente kosher, anche se loro dicono, non si sa perché, kasher. La Birkat ha mazon è la stessa.
Moshele comincia a trasecolare dopo cena, quando inizia la conversazione. Apprende che le signore presenti hanno partecipato al rituale insieme agli uomini non perché in una casa privata non c’è, com’è evidente, il matroneo, ma perché per l’ebraismo riformato esiste una assoluta parità tra uomo e donna, sicché la donna entra a far parte del minian, può indossare kippah e talleth, può persino acquisire il rabbinato e quindi arrivare a celebrare a pieno titolo rituali, anche di matrimonio, bar mitzvà, funerali e quant’altro.
Ma Moshele trasecola ancor più quando si comincia a parlare di mitzvòt, melachòt, toledòt. Sente questi riformati dire, tra l'altro, che il divieto dell’uso dell’automobile al sabato è da loro inteso modificato nel modo seguente: “Al sabato usa l’automobile esclusivamente per recarti al tempio, se non è per te raggiungibile in altro modo”.
Moshele va via, sempre approfittando del passaggio in ascensore di Daniele, e si avvia verso casa pensieroso e ripromettendosi l’indomani di confidare le sue perplessità al suo rabbino, per avere un aiuto a giudicare correttamente questa insolita esperienza.

lunedì 1 agosto 2011

Devarim

(Deu.1-3,22)
Alle soglie della terra promessa Mosè, secondo quanto il Signore gli aveva comandato, rivolse al popolo un discorso, con il quale espresse il riepilogo delle vicende che avevano vissute lungo tutto il percorso dell’esodo dall’Egitto.

Rammentò in particolare la decisione della nomina dei giudici e quanto ebbe a raccomandare ad essi: “Ascoltate le questioni che sorgeranno fra i vostri fratelli e giudicate con giustizia fra un individuo ed il proprio fratello o uno straniero. Non abbiate riguardi nel giudicare, porgete ascolto al piccolo come al grande, non abbiate paura degli uomini poiché la giustizia appartiene a Dio. La cosa che vi sembrerà al di sopra delle vostre possibilità la sottoporrete a me ed io la ascolterò”.
Parole sono queste. Parole che lette d’un fiato sembrano così ovvie da non meritare un attimo di riflessione. Siamo talmente avvezzi ad esercitare l’ingiustizia, o a convivere con essa, da arrivare ad innescare un meccanismo automatico di salvaguardia, che nega che nel nostro agire si sia mai verificata ingiustizia. Eppure ingiustizia è la nostra supponenza, ingiustizia è il privilegio del nostro egoismo, ingiustizia è il non ascolto dell’altro, ingiustizia è il disprezzo dell’altro, ingiustizia è il non amore.
Ingiusti perché aridi, ciechi, sordi. Oppure ingiusti perché intimoriti, plagiati, perché abbiamo rinunciato ad essere padroni del nostro pensiero e delle nostre azioni. Perché abbiamo perduto il senso della nostra responsabilità, quella responsabilità, che fa di noi degli esseri umani e non delle belve.
Potremmo essere ingiusti anche per simulazione, per recita, per impersonare una figura che stimiamo forte a confronto con la debolezza e l’insignificanza che riteniamo sia la nostra reale connotazione.
La giustizia, disse Mosè, appartiene a Dio ed a Lui renderemo conto, non agli uomini.

Proseguendo nella narrazione Mosè ricordò anche la mancanza di fiducia che il popolo ebbe a manifestare, al ritorno degli esploratori ed ascoltando il loro resoconto. Ciò fu causa della punizione divina, che portò al protrarsi della peregrinazione nel deserto per altri quarant’anni ed all’esclusione di un’intera generazione dall’accesso alla terra promessa.
Fu mancanza di fiducia, fu scoramento, fu fiacchezza. Come poteva un popolo così svuotato e demotivato conquistare un paese, senza credere né nelle proprie forze, né nel sostegno del Signore?
La storia del genere umano, non solo quella del popolo ebraico, è costellata di guerre sante, dove la presenza di Dio al proprio fianco è d’obbligo e genera il fanatismo che centuplica le forze e che conduce alla vittoria.

Rammentò quindi Mosè la fase finale di avvicinamento alla terra promessa e gli attraversamenti dei territori dove erano insediati altri popoli. Attraversamenti richiesti generalmente con parole di pace, come furono quelle rivolte al re di Cheshbon: “Lasciami passare attraverso la tua terra, soltanto sulla strada io camminerò, non devierò né a destra né a sinistra; tu mi venderai per denaro il cibo ed io mangerò; acqua mi darai per denaro ed io berrò; soltanto lasciami passare a piedi, come fecero per me i figli di Esaù che abitano in Se’ir, ed i Moabiti che stanno in ‘Ar, fino a che io passi il Giordano, dirigendomi verso la terra che il Signore Dio nostro dà a noi”.
Era un atteggiamento estremamente rispettoso della proprietà e della sovranità altrui, che trova le sue radici nei comportamenti dei popoli di pastori, come fino a quel momento era il popolo ebraico, nei riguardi dei territori dei popoli agricoltori, nei quali è d’obbligo non produrre danni e quindi camminare sulle strade.
Anche questo è un insegnamento purtroppo in gran parte perduto al giorno d’oggi e nel nostro paese, dove si deve constatare che la cosa comune è un concetto generalmente non percepito e la cosa dell’altro, se non vigilata, è esposta al danneggiamento.

Infine la narrazione si riferisce all’assegnazione alle tribù di Ruben, Gad e parte di quella di Manasse dei territori ad est del Giordano ed a ciò che Mosè comandò loro: “Il Signore vostro Dio vi ha dato in possesso questa terra, voi passerete armati all’avanguardia dei vostri fratelli figli d’Israele, tutti uomini valorosi. Le vostre donne ed i vostri figli ed il vostro bestiame soltanto (io so che avete gran numero di bestiame) rimarranno nelle città che io ho assegnato a voi, fino a che il Signore vostro Dio concederà quiete ai vostri fratelli come a voi ed anche essi possederanno il territorio che il signore vostro Dio è per dare a loro al di là del Giordano. Allora tornerete ognuno alla proprietà che io vi ho assegnato”.
Il comportamento di queste due tribù e mezza sostanzia la prova che il popolo non è soltanto un insieme di tribù ma costituisce ormai una nazione e che la solidarietà nazionale ha assorbito gli interessi delle singole tribù. Questo popolo litigioso e contestatore nei momenti nodali della sua storia ritrova la sua unità e la coscienza di costituire questa unità.