(Deu.7,12-11,25)
La parola ekev significa per conseguenza o anche per ricompensa con una visione ottimistica di una conseguenza ad una azione positiva.
Mosè prosegue nel suo discorso, dicendo al popolo che, se eseguirà le leggi che gli sono state comandate, allora per ricompensa sarà amato, benedetto e si moltiplicherà, perché benedetto sarà il frutto del suo ventre, quindi i suoi figli, e il frutto della terra, grano, mosto, olio, ed i parti del suo bestiame, grosso e minuto.
Benedetto fra tutti i popoli, cioè distinto fra essi perché di lui si dirà bene, sarà allora il popolo d’Israele, che, grazie all’intervento del Signore, conquisterà la terra promessa, sconfiggendo altri popoli molto più potenti di lui.
“Tu divorerai tutti i popoli che il Signore tuo Dio è per dare in tuo possesso, non avrai pietà di loro e non servirai i loro dèi perché questo sarebbe per te causa di rovina”.
“Il Signore tuo Dio manderà contro di loro il calabrone, finché periranno coloro che saranno scampati e coloro che si saranno nascosti davanti a te”.
“Il Signore tuo Dio scaccerà quelle nazioni dalla tua presenza poco a poco; non potrai distruggerli rapidamente affinché non abbiano a moltiplicarsi contro di te le belve della campagna”.
Divorare tutti i popoli, qui è evidente che non si tratta di cannibalismo, ma è una locuzione che rende molto bene l’idea del fagocitare, dell’assimilare, del rendere simili a sé, distruggendo i loro dèi ed i loro riti, perché nei loro dèi e nei loro riti si annida l’insidia più terribile, la più aborrita: l’idolatria e la perdita della fiducia del Signore.
Il Signore sterminerà i superstiti di questi popoli e coloro che si saranno nascosti, e ciò per impedire che possa sopravvivere con essi l’idolatria nella terra che il Signore avrà dato al popolo d’Israele.
La cacciata degli idolatri sarà graduale per dar modo al popolo d’Israele di organizzarsi nel soppiantare quelle popolazioni e con ciò sarà impedito che la terra altrimenti abbandonata impoverisca ed inselvatichisca.
Rammenta Mosè i quarant’anni di peregrinazione nel deserto, che costituirono una prova severa per conoscere se il popolo avrebbe osservato i precetti del Signore o no. Ricorda la fame che il popolo dovette patire.
“Egli ti umiliò, ti fece provare la fame e ti dette da mangiare la manna che non conoscevi e che non avevano conosciuto i tuoi padri, per farti sapere che l’uomo non vive di solo pane, ma che egli può vivere di tutto ciò che esce dalla volontà espressa dal Signore”.
Evidente è qui il connubio tra il significato reale e concreto di avere sfamato un popolo, rivelando loro le risorse che la natura offre per alimentarci quando vengano a mancare i cibi ai quali siamo tradizionalmente abituati, ed il significato simbolico di alimento costituito dalla fiducia nel Signore e nell’insolito, sorprendente, inaspettato che Egli può porre sulla nostra strada per risolvere le più gravi difficoltà nelle quali ci troviamo ad imbatterci.
Ammonisce Mosè il popolo affinché, quando verrà in possesso della buona terra che il Signore gli ha dato e mangerà e si sazierà dei suoi frutti, non abbia a insuperbirsi ed a dimenticare il Signore.
“Ma ti ricorderai invece del Signore tuo Dio perché è Lui che ti concede la forza di procurarti il benessere per mantenere fede al patto che giurò ai tuoi padri, come avviene oggi”.
“Non dunque per la tua rettitudine e per l’onesta del tuo cuore tu pervieni a possedere la loro terra, ma per la malvagità di questi popoli il Signore tuo Dio li caccia davanti a te, al fine di mantenere ciò che giurò ai tuoi padri, Abramo, Isacco e Giacobbe, e Tu saprai dunque che non è per la tua rettitudine che il Signore tuo Dio ti concede questa buona terra in possesso, perché tu sei un popolo dalla dura cervice”.
Quindi Israele non avrebbe mai potuto conquistare la terra promessa con le sole proprie forze, se non avesse avuto dalla sua parte il Signore. Ed inoltre il Signore avrebbe condotto il popolo alla conquista della buona terra non perché ne avesse ravvisato le virtù meritevoli, semmai sarebbe stato per la malvagità dell’idolatria dei popoli che la occupavano. Ma soprattutto l’unico vero motivo per il quale il Signore condurrà il Suo popolo alla conquista della terra promessa è il patto giurato ad Abramo, Isacco e Giacobbe.
Ed a riprova dei loro demeriti Mosè rammentò la vicenda del vitello d’oro, da loro fabbricato proprio mentre lui riceveva sul monte Chorev le due tavole di pietra scritte dalla mano di Dio. Ricordò come per lo sdegno e l’ira le avesse spezzate e come avesse trascorso i successivi quaranta giorni senza mangiare e senza bere in espiazione dei loro peccati e rammentò come li avesse salvati dall’ira del Signore.
“Infatti io temevo per lo sdegno e l’ira concepiti contro di voi dal Signore che minacciava di distruggervi. Ma il Signore mi dette ascolto anche questa volta. Anche contro Aron si era sdegnato molto il Signore tanto che voleva distruggerlo, ma io pregai anche in favor suo in quel tempo”.
Aron fratello di Mosè, che abbiamo conosciuto come la voce di un Mosè balbuziente davanti al Faraone, primo Gran Sacerdote del Santuario, eppure così debole se privato della guida di suo fratello, il condottiero ispirato da Dio.
La colpa di Aron era stata gravissima: quando il popolo, non vedendo tornare Mosè dal monte, gli chiese "facci un Dio", egli acconsentì e permise la fabbricazione del vitello d’oro e che venissero celebrati riti pagani.
Al ritorno di Mosè dal monte per la purificazione dalla colpa di avere adorato il vitello d’oro morirono tremila dei fuorusciti dall’Egitto, su delazione dei propri fratelli e dei propri compagni, ma Aron fu salvo.
I sostenitori di Aron affermano che egli nella vicenda fu accondiscendente allo scopo di prevenire il manifestarsi di possibili disordini e magari la disgregazione del popolo, se ancora una volta avesse preso corpo l’idea del ritorno alla terra degli schiavi.
Ma forse Aron non è stato accondiscendente per una questione di accortezza e di calcolo. Potrebbe essere invece, per la complementarità dei due fratelli, che Aron sia stato un debole, come se la personalità, la forza del fratello Mosè, alla cui ombra egli ha vissuto, avesse prosciugato anche le sue energie.
E’ salvo Aron, forse immeritatamente se confrontiamo la sua colpa con la drammatica vicenda dei suoi due figli che verranno inceneriti non per una mancanza ma per un eccesso di zelo dovuto a palese inesperienza. Aron deve la sua salvezza unicamente all’intercessione di suo fratello Mosè. Così come tutto il popolo d’Israele deve a Mosè la sua salvezza, per avere egli placato l’ira del Signore, quando Egli lo avrebbe voluto distruggere sdegnato per le sue colpe.
Qui è la grandezza di Mosè, condottiero, guida, forgiatore del popolo, ma soprattutto capace non solo di ascoltare, ma anche di dialogare con il Signore, al punto tale di convincerlo, di legarlo nuovamente a sé ed al Suo popolo.
Rammentato il taglio delle nuove tavole di pietra e la costruzione dell’arca, Mosè ricorda anche la morte del fratello Aron e la nomina al sacerdozio di El’azar e quindi la designazione della tribù di Levi per il servizio del Santuario ed infine egli dice al popolo quanto a lui disse il Signore:
“Va’, passa in testa al popolo e va’ a conquistare la terra che giurai ai loro padri di dar loro”.
Rivolge quindi Mosè una vibrata esortazione al popolo affinché apra il proprio cuore e si disponga per percepire ed eseguire i precetti del Signore:
“Circoncidete il prepuzio del vostro cuore e non siate più duri di cervice, perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dèi ed il padrone dei padroni, Iddio grande, potente e terribile, inflessibile e incorruttibile, che fa la giustizia dell’orfano e della vedova e che ama lo straniero dando loro cibo e vestiti. Amerete lo straniero perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto. Temerai il Signore tuo Dio, Lo servirai, ti attaccherai a Lui e giurerai nel Suo nome”.
Il riferimento allo straniero cui dare cibo e vestiti è di grande attualità in questa nostra Italia, che, flagellata da una severa situazione economica e consapevole di un dissesto sociale ancora in fase emergente, teme in modo preconcetto lo straniero e non sa distinguere tra lo straniero bisognoso della più elementare sussistenza e lo straniero che invece è alla ricerca di una ricchezza da trovare ai margini o al di fuori della legalità.
Allo straniero bisognoso daremo assistenza senza temerlo, aprendo il nostro cuore, dando a lui l’assistenza necessaria perché possa procedere autonomamente, senza pretendere restituzione, il Signore non ci farà impoverire per questo, ma al contrario saremo più ricchi, nel cuore.
Segue al capitolo 11, versetti da 13 a 21, il brano che costituisce la seconda parte dello Shemà:
“Se dunque ascolterete i precetti che Io vi comando oggi, di amare cioè il Signore vostro Dio e di servirlo con tutto il vostro cuore e tutta la vostra anima, Io concederò alla vostra terra la pioggia a suo tempo, quella autunnale e quella primaverile, e tu potrai raccogliere il tuo grano, il tuo mosto ed il tuo olio; farò crescere l’erba nel tuo campo per il tuo bestiame e tu potrai mangiare e saziarti. Guardate bene però che il vostro cuore non sia sedotto e vi sviate, servendo altri dèi e prostrandovi a loro. La collera del Signore divamperebbe contro di voi! Egli chiuderebbe il cielo, non ci sarebbe più pioggia e la terra non potrebbe più dare il suo prodotto e voi scomparirete ben presto dalla buona terra che il Signore sta per darvi. Ma voi porrete invece queste mie parole nel vostro cuore e nella vostra anima, le legherete come segno sul vostro braccio e saranno come frontali fra i vostri occhi. Le insegnerete ai vostri figli parlandone con loro stando in casa, quando cammini per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le scriverai anche sugli stipiti delle porte della tua casa e in quelle della tua città, affinché si prolunghi la vostra vita e quella dei vostri figli nella terra che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri per l’eternità”.
L’essere umano che vivrà la propria vita seguendo i precetti del Signore non avrà debolezze, non sarà colto alla sprovvista e saprà superare serenamente ogni difficoltà, come se la pioggia fosse sempre venuta a tempo debito ed i raccolti fossero stati sempre sufficienti, come pure il foraggio per il suo bestiame.
Il precetto di porre queste parole nel proprio cuore e nella propria anima e di legarle al proprio braccio e porle fra i propri occhi conduce l’ebreo ad indossare giornalmente i tefillìn.
Analogamente alla prescrizione di scrivere queste parole sugli stipiti delle porte si deve l’uso di affiggere la mezuzàh sullo stipite destro della porta d’ingresso della propria casa.
Si conclude la parashà con una frase che pare travalicare la fase più immediata della conquista della terra promessa, il cui territorio è stato già definito come la terra che va dal Giordano al mare.
L’ultima frase risuona come una profezia di più vasta portata temporale e territoriale che promette al popolo che amerà e servirà il Signore territori che si estendono fino a comprendere la Siria, l’Iraq e la Giordania:
“Poiché se voi osserverete tutti questi precetti che Io vi ho comandato di eseguire, amando cioè il Signore vostro Dio, seguendo tutte le Sue vie e rimanendo a Lui attaccati, il Signore caccerà da davanti a voi tutte queste nazioni e diverrete i dominatori di nazioni più grandi e più potenti di voi. Ogni località che la pianta del vostro piede calcherà sarà vostra dal deserto al Libano, dal fiume Eufrate fino al Mediterraneo si estenderà il vostro territorio”.
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