martedì 12 ottobre 2010

mitzvàh 25


L’ebreo osservante, che vuole adempiere al suo ruolo sacerdotale nel mondo, è obbligato a seguire le 613 "mitzvòt", cioè deve adeguare il proprio stile di vita a 613 precetti.
Il numero dei precetti è certo poiché è il Talmud (trattato Makkoth 23b) che stabilisce che la Torah contiene 613 mitzvòt, ma la loro identificazione è stata lungamente oggetto di discussione. L’elenco più accreditato è quello riportato da Rambam (Mosè Maimonide, Cordova, 1138 – Il Cairo, 13 dicembre 1204) nel “Sèfer ha-Mitzvòt”. Questa lista numerata dei precetti, completa del riferimento alla sorgente della scrittura da cui essi derivano, venne definitivamente fissata con l’introduzione di alcune revisioni da parte di Nachmanide (Moshè Ben Nachman, Gerona 1194-Terra santa 1270).
I 613 precetti sono costituiti da 248 comandamenti positivi, obblighi quindi a fare qualcosa, e da 365 comandamenti negativi, divieti cioè di fare qualcos’altro. Fortunatamente moltissimi di questi precetti sono percepibili in modo intuitivo e trovano perciò in noi spontanea disponibilità a conformarci ad essi.
Alcuni (pochi per la verità) di questi precetti ci trovano, invece, inizialmente perplessi. Trattandosi di precetti espressi dalla Torah, questo dovrebbe bastare ad indirizzare le nostre azioni in modo conforme. Ma abbiamo anche imparato ad esercitare le facoltà che il Signore ci ha dato in materia di analisi, interpretazione, commento e confronto, ed è pertanto assolutamente naturale che di questi precetti “difficili” noi ricerchiamo, in assoluta buona fede, la radice e l’interpretazione che ci consentano di accettare la rinuncia ed il sacrificio di qualcosa a cui, a volte, siamo stati visceralmente legati. Tra l’altro, questa attività di verifica ed affinamento, che inizialmente sembra offrirci solamente la prospettiva finale del sacrificio e della rinuncia, può, invece e sorprendentemente, condurci ad intravedere la possibilità di un quadro finale diverso, con una armonizzazione, che ricolloca il nostro desiderio in un ambito compatibile con l’attuazione del precetto. I precetti “difficili” fanno generalmente parte dei divieti a fare e riguardano di solito azioni o comportamenti che operano nella sfera dei sentimenti.
La complessità dell’essere umano può dipanarsi analiticamente secondo quattro sfere distinte, a ciascuna delle quali fanno capo necessità e comportamenti peculiari e le conseguenti sensazioni di dolore o di piacere ad essi associate.
Le quattro sfere sono la fisicità, il sentimento, la ragione e l’intuizione. Gli esseri umani hanno esigenze che riguardano tutte e quattro queste sfere, sia pure in misura diversa da individuo ad individuo, sicché ci sarà l’individuo in cui la valenza del sentimento sarà prevalente sulle altre tre componenti, e sarà un individuo sensibile alla poesia,alla musica, ma anche passionale nella sua vita relazionale. Altri potranno, invece, essere maggiormente portati per l’intuizione, per la percezione di ciò che è border-line del razionale e che si spinge oltre e saranno scopritori, artefici di nuove architetture sulle quali impostare le indagini scientifiche, ma saranno anche filosofi, scrutatori del pensiero umano e di ciò che si intravede oltre, saranno studiosi di religione tanto più di spicco, quanto più la loro sensibilità li porterà a percepire e ad essere travolti dall’onnipresenza della volontà creatrice e dall’incessante respiro che tutto pervade e regola con armonia. Altri infine privilegeranno la sfera della ragione e saranno organizzatori perfetti, occuperanno posti di responsabilità costituendo sempre un sicuro punto di riferimento normativo.
Di queste quattro sfere la più difficile da analizzare, la più ribelle all’imposizione di una disciplina è quella dei sentimenti. Penso che più della metà della biblioteca di Babele sia stata dedicata, direttamente o indirettamente, allo studio di questa matassa meravigliosa ed al tentativo di comprenderne le radici comportamentali e le finalità dei suoi movimenti.
Nella sfera dei sentimenti le esigenze ed i comportamenti sono assimilabili a quelli di un bambino, che ha bisogni e desideri primordiali, non decantati dalla ragione, dalle convenzioni sociali, dal giudizio degli altri, che sa quello che vuole e non comprende perché non debba volerlo. Al bambino occorrerà parlare con rispetto, delicatezza, usando il suo stesso linguaggio per sciogliere i nodi che trova sul suo cammino e percorrere insieme la strada verso l’uscita.
L’enunciazione della Mitzvà 25 è “Non seguire i desideri del tuo cuore o ciò che vedono i tuoi occhi. – Numeri 15:39”. Il passo biblico citato segue quello che ha ordinato la realizzazione delle frange agli angoli delle vesti, e recita: “Esse saranno per voi delle frange, le quali, quando voi le vedrete, ricorderete tutti i precetti del Signore e li eseguirete, e non devierete seguendo il vostro cuore e i vostri occhi; seguendoli voi diverreste infedeli.”
Che si tratti di sentimenti è inequivocabile solo nella prima parte dall’enunciato “desideri del tuo cuore”, mentre la seconda parte “ciò che vedono i tuoi occhi” potrebbe far capo anche alla sfera della fisicità ed a ciò che di egoistico gravita intorno ad essa, potrebbe quindi trattarsi, per questi ultimi, di desideri di gola, desideri di possedere oggetti di altri, desideri sessuali, anche questi, quindi, assimilabili ai desideri di un bambino, ma più facilmente confutabili con ragionamenti logici, sono desideri che in fondo il soggetto che li prova sa benissimo che non sono legittimi. Per il sentimento puro è più difficile, perché qui si tratta di alimento dell’anima e non di alimenti del corpo.
Senza dubbio è proprio il non dover seguire i desideri del cuore la parte più impegnativa e “difficile” del precetto, perché, coinvolgendo la sfera dei sentimenti, è necessario che il convincimento avvenga adoperando il linguaggio stesso dei sentimenti, perché questa sfera non conosce né può conoscere altro linguaggio. E’ una sfera primordiale le cui necessità riguardano bisogni primari della vita dell’individuo. Riguardano gli affetti, in particolare gli scambi affettivi, che costituiscono alimento per i processi vitali dell’anima di ogni individuo, di quel qualcosa cioè che, a parità di condizioni fisiche, determina la presenza o l’assenza della spinta a vivere.
L’etica sociale, cioè le regole della convivenza sociale esigono che a questi desideri individuali dell’anima si ponga un limite ove vadano a turbare , ad interferire, a danneggiare altri individui.
Qualora ciò si verificasse si renderebbe necessario un intervento correttivo.
La correzione nel campo dei sentimenti non può però avere successo se condotta frontalmente per contrapposizione e dichiaratamente secondo logiche razionali, perché queste logiche non intaccano i convincimenti che i sentimenti hanno generato nell’individuo, anzi ne producono il rafforzamento, perché nell’interessato la razionalità viene percepita come fosse un pezzo di vetro a fronte del sentimento, che l’interessato sente di provare e che da lui viene invece percepito come un diamante.
La correzione quindi è da attuare non con uno scontro frontale, finalizzato alla soppressione del sentimento, ma con un affiancamento all’interessato che lo rassicuri sull’intenzione di non voler eseguire azioni distruttive ma semplicemente un’azione di scioglimento, di fluidificazione, di accoglienza, che riconosca al sentimento la dignità di patrimonio da salvare e che indaghi e ricerchi un suo possibile assetto o una sua possibile collocazione compatibile con le necessità vitali di tutte le persone coinvolte.

Ho conosciuto una persona, che ha vissuto il dramma dei desideri del cuore , che ne è stata travolta in modo traumatico, distruttivo della propria dignità umana, che si è piegata a constatare l’irrealizzabilità dei propri desideri. Che è stata messa al bando per anni dalle persone che le erano più vicine, trattata come una lebbrosa, evitata da tutti ed alla quale più nessuno parlava, che è stata condotta fino all’orlo del baratro della follia. Che si è rialzata da sola, aggrappandosi al suo lavoro ma senza più riuscire a sanare la ferita rimasta aperta, la ferita prodotta dalla mancanza dell’altro, del suo altro, del completamento del proprio “sé”. Che stava per precipitare nuovamente.
A questo punto è avvenuto l’incontro ed è nato un rapporto di conoscenza amicale, fondato sul rispetto reciproco. Il nostro è stato sin dall’inizio un rapporto diretto e senza equivoci. La differenza di età era tale che avrei potuto essere suo padre ed io la considerai come figlia e le diedi la disponibilità del mio aiuto. Ne ho guadagnato giorno per giorno la fiducia e finalmente lei ha cominciato a liberarsi del pesante fardello, a vomitare i fatti e l’intensità di sentimenti che aveva mantenuto repressi e nascosti perché non fossero esposti al disprezzo ed alla condanna del mondo.
L’avrei aiutata a disfare il suo bagaglio a riordinarne i contenuti ed a cercarne la collocazione.

La chiamerò Sara, che è ovviamente un nome di fantasia che ho scelto per lei, perché le auguro di non perdere mai la speranza che in un momento, anche non più giovanile, della sua vita possa verificarsi il miracolo, l’avvenimento che ha sempre atteso, il piccolo grande regalo per lei.

Sara cominciò a raccontare tutto dall’inizio. Era sposata da circa trent’anni e madre di due figli maschi. Aveva ventuno anni quando si era sposata, un matrimonio d’amore, neanche troppo contrastato. Poi erano nati i due figli e la sua vita si svolse seguendo il tracciato segnato dal loro sviluppo, dalle loro esigenze, la scuola, la palestra, il nuoto, le festicciole. Suo marito le mostrava costantemente affetto e rispetto, il loro dialogo era stato sempre sereno, confidenziale. L’estate facevano vacanze comuni, rimanendo sempre inseparabili. Insomma lei riteneva di essere fortunata, che la sua famiglia fosse splendida, una roccaforte in grado di resistere a qualsiasi prova, se mai ve ne fosse stata la necessità, necessità che peraltro lei non intravedeva da nessuna direzione.
Il senno di poi le avrebbe rivelato che in questa roccaforte si annidavano i germi della disgregazione. Con suo marito non c’era mai stato uno screzio, mai un litigio, avevano vissuto sempre d’amore e d’accordo. In realtà non avevano mai parlato! Questa era la verità amara che il senno di poi le avrebbe rivelato: non si erano mai confrontati per timore di affrontare possibili divergenze, erano rimasti praticamente due estranei che avevano instaurato tra loro un grazioso rapporto superficiale, stando bene attenti a non scalfire questa superficie. Era come camminare su un pavimento che cominciava a dare segni di instabilità, rivelando un’attività sotterranea in sommovimento.
Un sera la sua favola familiare subì una incrinatura, senza che ne fosse coscientemente consapevole. Se ne sarebbe accorta a distanza di tempo e avrebbe collocato lì l’inizio di tutti gli accadimenti che sarebbero seguiti. Erano invitati a cena a casa di amici. A tavola, di fronte a lei e suo marito, era un’altra coppia. Sembrava che tra i due ci fosse qualcosa che non andava per il verso giusto, sicché tra loro non c’era dialogo. Sara osservò l’uomo e lo trovò interessante. Ebbe l’impressione che un po’ tutta la compagnia tenesse l’uomo a distanza, e non ne comprendeva il perché. Ebbe la sensazione che l’atteggiamento dell’uomo esprimesse una richiesta d’aiuto, ma lei si ritrasse, allontanando questa sensazione, e dicendo tra sé e sé che ognuno nella vita ha i suoi problemi e deve cercare di risolverli da solo. Quando la cena fu finita e tutti erano in piedi per salutarsi, l’uomo si avvicinò e le rivolse delle parole convenevoli, accennò ai figli ed all’impegno che richiedevano, il tutto senza contenuti particolari, e lei si sorprese nel sentirsi felice di rispondergli.
Passò un anno nel quale non si sarebbero più visti, un anno nel quale la famiglia di Sara si trovò a dover affrontare circostanze esterne estremamente impegnative e logoranti. In coda a tutto questo Sara perse suo padre. Lo scossone che colpì la stabilità nella quale aveva vissuto fino ad allora cominciò a far vacillare i principi sui quali Sara aveva impostato la sua vita, cominciò a chiedersi se fosse giusto vivere dando per scontato il principio del proprio sacrificio a favore degli altri, perché tanto “dopo”, si diceva, ci sarebbe stato tempo per pensare a sé stessa. Sara cominciò a chiedersi se questo “dopo” non fosse “adesso”.
Si videro allora per la seconda volta, a casa della sorella di Sara, lui venne con la moglie, la abbracciò e le espresse le sue condoglianze e le si sedette vicino in un angolo del salotto. Sara ne osservava il profilo e la superficie della sua pelle, e avrebbe voluto sfiorarla e sentirne il profumo. Sara era tranquilla, tutti parlavano animatamente fra loro e nessuno poteva percepire quali fossero le sue sensazioni e i suoi pensieri. Al momento del commiato, Sara sperò di rivederlo presto
Poco tempo dopo ci fu un altro incontro, questa volta a casa di lui, si festeggiava il compleanno della moglie, si svilupparono delle conversazioni su argomenti di attualità o di interesse comune. Sara vide che, nel cerchio di sedie che si era formato nella sala, lui le stava di fronte ed avvertì, quando entrarono nel vivo della conversazione, che lui, pubblicamente, la stava braccando: se lei stava parlando, lui interveniva per dire che era d’accordo; se invece lei non diceva niente, lui interveniva per chiedere il suo parere. Lo ascoltava mentre parlava e provava una sensazione di completa condivisione, le sembrava come se da sempre avesse aspettato di sentire le cose che lui diceva. Lo sguardo di lui aveva intensità crescente e sembrava dilatarsi. Sara cominciò ad avvertire sensazioni nuove, che mai le erano capitate prima di allora. Sara sentì che l’aria acquistava maggiore densità, si sentì immersa in un fluido vischioso, come la tela di un ragno, qualcosa che tende ad avvilupparti per imprigionarti. Sara pensò che tutti si fossero accorti sia della caccia alla quale lui l’aveva sottoposta, sia del suo essere ormai in una situazione completamente fuori controllo. Nessuno invece mostrò di essersi accorto di qualcosa. Sara fu coinvolta in un ballo dalla padrona di casa e si lascio andare, scatenata come mai le era accaduto.

Un paio di mesi dopo Sara arrivò con suo marito a casa di sua sorella e lo incontrò nuovamente, lui e sua moglie. Era metà luglio, la serata era calda e si misero tutti in terrazzo. Sara prese subito l’iniziativa e propose di fare un giochino.
Ognuno dei partecipanti, cominciò a spiegare Sara, doveva immaginare di essere nella propria casa e che nella propria casa fosse una cantina, oppure una soffitta alla quale era possibile accedere aprendo una botola. Era un ambiente dove da anni non entrava più nessuno, dove erano abbandonate tante cose di diversa specie. Ogni componente del gruppo avrebbe dovuto scegliere tra tutti questi oggetti un regalo da fare ad ognuno degli altri, dichiarandone la motivazione. Tutti approvarono il gioco proposto e si udì una voce dire: “la strega”.
Sara voleva sapere cosa lui le avrebbe regalato e lui, quando arrivò a lei, le regalò una sfera di cristallo limpida e lucente e mentre la porgeva, lei disse : “Il vaso di Pandora”.
E con queste parole fu come se un incantesimo prendesse corpo per scatenare su tutti i partecipanti un effetto disgregatore.
Lei aveva voluto conoscere cosa lui fosse disposto a darle e lui le aveva offerto i suoi sentimenti. Questo pensiero la trasportava in un sogno meraviglioso, dove l’amore, che cominciava a provare per lui, non era conflittuale con niente e con nessuno e le sembrava che la sua gioia potesse essere condivisa. La gioia la condusse a confidare il suo sentimento, più o meno apertamente, alla moglie di lui, quasi potesse riceverne la solidarietà e l’accoglienza.
Anche lui venne scoperto dalla moglie e confessò i suoi sentimenti per Sara.
Avvenne un gran putiferio ci fu una generale mobilitazione per isolare i due, che inizialmente si riteneva fossero amanti e che poi si constatò essere semplicemente innamorati, o sedicenti tali.
Lui fece un paio di goffi tentativi per avvicinarla, ma senza successo anzi suscitando in lei il panico ed ottenendo quindi la fuga invece dell’avvicinamento.
Ci fu anche un incontro casuale, un incontro breve ma di completa intensità. Fu l’ultima volta che si videro.
“E poi? Cosa è successo dopo?” chiesi e Sara rispose “Dopo è come se fossi morta.”
Da allora non riuscì più a liberarsi del ricordo e dell’immagine di lui, che si radicarono sempre più, fino a connotarsi come un’ossessione. E l’ossessione dalla quale lei era pervasa rese i suoi rapporti familiari tesi e logoranti. Viveva con un costante senso di colpa nei riguardi del marito e dei figli ed era disposta a scontare qualsiasi punizione per questa sua infedeltà mentale, una infedeltà che riteneva peggiore che se fosse stata fisica, perché non dissimulabile ma sempre presente come una barriera nel rapporto coniugale.
Dopo un po’ marito,figli e parenti decisero che Sara era malata, che occorreva sottoporla e una psicoterapia per cercare di estirpare in ogni modo, anche con l’elettroshock , l’ossessione di cui era vittima. Concordemente negarono e suo marito le disse che la sua ossessione non poteva essere originata da sentimenti amorosi, che anzi lui sostenne che questi sentimenti non potevano esistere in una persona come lei, incapace di percepire quanto il marito ed i figli l’amassero.
Con i conoscenti e gli amici si sosteneva che la povera Sara non aveva resistito all’impatto con quell’anno gravoso nel quale erano accadute tante disgrazie e che la sua mente aveva vacillato ed aveva creato sensazioni fittizie, aveva immaginato fatti mai accaduti e che l’uomo, che lei sosteneva le avesse fatto intendere un interesse per lei, era caduto dalle nuvole, che poveretto non c’entrava assolutamente niente.
Sara si accorse che più nessuno chiedeva di lei. Nella sua casa si erano attuate misure di isolamento, non veniva più nessuno, le telefonate di marito e figli avvenivano sottovoce o cambiando apparecchio, affinché lei non sentisse. In questo periodo la sua unica àncora di salvezza fu il lavoro, nel cui ambito Sara ebbe la consapevolezza della propria normalità.
Resistette due anni a questo logoramento, poi si separò dal marito e se ne andò. Dopo due anni cessò anche la psicoterapia, perché comprese che questa avrebbe potuto certamente aiutarla a conoscere quali sistemi attivare per la propria navigazione nell’oceano dei sentimenti, ma che la volontà di navigare e quale direzione prendere avrebbe dovuto deciderla da sola.
Sara tentò nella fase iniziale di questa sua nuova vita di regolare i conti con l’ossessione che si era portata dentro con sé. Si lasciò abbordare da una persona , che in qualche modo le richiamava l’altro, l’oggetto della sua passione, Si fece umiliare da questa sua nuova conoscenza , ne scoprì i difetti, ne fu truffata e poi lo lasciò, convinta di essersi liberata anche dell’altro. E invece no, lui, l’altro, rimaneva sempre lì, era una presenza solida, come fosse una presenza fisica reale.
Negli anni seguenti imparò a convivere con questa presenza, si convinse sempre più che suo marito aveva avuto ragione a sostenere che quella sua era una storia inventata, che nessuno le aveva espresso sentimenti, doveva essere certamente così perché altrimenti lui l’avrebbe cercata e lei non sarebbe rimasta sola. Ma si disse anche, che lei di quella persona era rimasta innamorata, che non c’era motivo di negare questo, che certo non era stata ricambiata, ma non per questo il suo amore per lui era inesistente. Anzi, il fatto che lui non l’avesse amata la sollevava dal dubbio che altrimenti l’avrebbe assillata: aveva fatto tutto ciò che poteva e doveva per salvare non tanto se stessa, ma lui?
Per anni andò avanti così, il suo sentimento rimase sempre vivo, come fosse sempre il primo giorno. Constatò che questo suo sentimento le riempiva la vita e non consentiva che altri si avvicinassero, si era instaurata una straordinaria convivenza tra lei e il suo sentimento per lui, come se questo fosse diventato una persona reale. Non si sentì mai sola e non andò più per anni ad esplorare, a cercare cosa il suo amore facesse, perché tanto il suo amore non l’aveva mai amata e lei non aveva alcun motivo per cercarlo.
Ma un giorno le arrivò un messaggio inaspettato, da parte di una persona che non vedeva ormai da anni e che le chiedeva di contattarlo telefonicamente. Telefonò e rimase annichilita per la frase che lui le disse: “Il tuo amore non ti ha dimenticata.” Chiese ancora e seppe che avrebbe dovuto contattare il suo amore, uscire allo scoperto, dirgli tutto.
Di lui conosceva tutto, telefono, e-mail, indirizzo di casa e del lavoro, perché l’aveva seguito via internet, senza però mai interferire. Si sorprendeva a compiacersi se su internet compariva una notizia di una sua pubblicazione o di un suo successo professionale.
Il contatto avvenne, lei provò prima per telefono, poi per e-mail, ma non ebbe successo, lui rispose ma per dirle che non doveva mai più cercare di contattarlo né per telefono, né per e-mail, né con qualsiasi altro sistema.
Sara, dopo più di dieci anni dall’inizio del suo dramma, quando sembrava che ormai fosse riuscita a dare ordine alla propria vita, si era trovata a dovere incassare un doppio colpo: il primo che aveva improvvisamente risvegliato tutte le sue speranze sopite; il secondo che la precipitava nuovamente verso l’abisso.
Io fui il suo appiglio, la afferrai e la tirai su.

Dopo aver ascoltato tutto il suo racconto, le chiesi se riteneva di avere delle colpe, e se si, quali fossero e perché.
Mi rispose che le sue colpe erano, la prima, quella di non essersi opposta sin dall’inizio all’infatuazione, all’innamoramento, di non aver capito che quel sentimento avrebbe distrutto tutto; la seconda, di non aver più amato suo marito ed i suoi figli e di averli abbandonati; la terza, di avere distrutto la sua stessa vita.
Se così fosse stato, secondo l’etica ebraica lei avrebbe contravvenuto alla Mitzvàh n° 25 “Non seguire i desideri del cuore … “. Ma io non ritenevo che ciò fosse avvenuto. Poteva essere accusata per aver provato attrazione per quell’uomo? No, l’attrazione non è frutto diretto della nostra volontà. Si dice che ogni essere umano è alla ricerca della propria metà, dell’altro a lui uguale per completare il proprio sé. Sara non era alla ricerca di un’avventura, il suo desiderio non era quello di vivere una passione passeggera, restando però saldamente ancorata alla sua famiglia. La prova che il sentimento di Sara fosse limpido e puro fu espressa, paradossalmente, proprio dal fatto che lei da quel momento, non amò più suo marito ed i suoi figli, si accorse che suo marito non era più, o non era mai stato, la sua metà. Di questo se ne accorse quando le apparve l’altro, ma certamente era da tempo, forse da sempre, che il suo matrimonio e la sua famiglia non costituivano il completamento cui la sua anima aspirava. Lei non seguì i desideri del cuore, avrebbe voluto, ma non ne ebbe la possibilità e di questo non mi sentivo di darle colpa. Colpa di che? Ci può essere colpa per un terremoto, ci può essere colpa per uno tzunami? No, non ci può essere colpa, neanche per l’essere stati travolti da sentimenti, che non abbiamo provocato, che ci hanno colti di sorpresa, che abbiamo valutato, al loro apparire, come benèfici e che invece si sarebbero rivelati di una pericolosità mortale.
Abbiamo poi parlato dell’ultimo episodio, quello che quasi contemporaneamente ha risvegliato e subito dopo soffocato la tempesta dei suoi sentimenti, Abbiamo cercato di individuare un filo logico che lo collegasse con tutti i fatti precedenti. Le conclusioni sono state che entrambe le comunicazioni erano autentiche e ciò significava che lui le aveva fatto sapere di non averla dimenticata, che, quindi, aveva nutrito in tutti questi anni lo stesso sentimento di lei. Lui però aveva optato per la salvezza della sua famiglia, perciò aveva voluto che lei conoscesse tutta la verità su quello che era successo, ma aveva anche voluto, inequivocabilmente, esprimere che la storia apparteneva al passato ed era perciò conclusa.
Sara ha ripreso la sua vita con la routine nella quale si era già assestata, custode di un sentimento, che ora sa ricambiato, ma che è senza futuro, vedova di un legame che non c’è mai stato.
Sara non ha colpe, non ha contravvenuto a precetti, semplicemente, come le disse uno psicoterapeuta “non era stata fortunata”.
Addio Sara, il Signore sia con te e ti conceda gratificazione.

mercoledì 22 settembre 2010

vedere oltre la morte


La morte è l’evento ineluttabile che pone fine alla vita biologica di tutte le creature. Molti animali percepiscono il suo avvicinarsi e ad essa si preparano appartandosi e scegliendo il luogo dove l’incontro avverrà. Anche alcune popolazioni umane, che l’uomo proggredito definisce primitive, hanno mantenuto questa sensibilità.
L’uomo civilizzato, invece, ha perso quasi del tutto questa capacità. Egli è ormai abituato a basare le proprie opinioni e le proprie azioni esclusivamente sul suo patrimonio razionale e va sempre più perdendo le facoltà di intuizione.
Egli si ritiene proggredito perché possiede e controlla strumenti che coltivano il suo senso di onnipotenza e di superiorità. In realtà, man mano che va acquisendo, rafforzando ed ampliando le proprie conoscenze tecniche, scientifiche, e conseguentemente il proprio benessere materiale, egli va, di pari passo, inaridendosi e perdendo la sensibilità percettiva dei fenomeni che regolano il funzionamento della natura e delle interrelazioni con essa e con gli esseri viventi, in generale, e con i propri simili, in particolare. Per garantire la propria onnipotenza egli tende ad occultare quei fenomeni che sfuggono ancora alle sue possibilità di intervento e di controllo e che per questo motivo generano in lui insicurezza e paura.
La morte è un evento che l’uomo civilizzato non metabolizza correttamente, è per lui un evento che genera incertezza e paura per l’incognito che è oltre di essa.
Egli tenta di aggirare il problema, mettendo a punto sistemi per prolungare la vita. Il suo sogno è sconfiggere la morte e raggiungere l’eternità.
Eppure la morte è un evento normale, che ha la stessa frequenza dell’altro evento, che è la nascita. Sono i due eventi che segnano l’arrivo e la partenza dal nostro mondo terreno.
Quest’uomo abituato ormai a credere solamente in ciò che vede o che è dimostrato razionalmente, ha difficoltà ad accettare credenze religiose, come l’esistenza dell’anima o l’eternità.
Questa difficoltà è dovuta proprio al mancato esercizio dell’intuizione.
L’intuizione, insieme alla fisicità, al sentimento ed al raziocinio, è una delle quattro caratteristiche peculiari dell’essere umano, che lo caratterizzano in un mix, che ha vario dosaggio da individuo ad individuo. Perdere l’intuizione significa perdere la capacità di volare. Significa perdere la fisica quantistica. Significa perdere il patrimonio scientifico di Nicola Tesla. Significa non capire Dio.
E’ l’intuizione che ci fa cogliere il senso della morte e dell’anima.
Il concetto ebraico di “anima” mi sembra bene sintetizzato dal capitolo “Neshamàh” del libro di Arthur Green “These Are the Words”, che qui di seguito richiamo con l’aggiunta di alcune mie osservazioni.
Il testo inizia dicendo che neshamàh è la parola comunemente usata nella lingua ebraica per “anima”. Essa fa riferimento alla qualità essenziale dell’individuo, la sua più vera identità. In yiddish “a gute neshomeh” indica “una persona di buon cuore”, “a teyere neshomeh” è un’anima bella, una persona dalla sensibilità non comune o di eccezionale pietà.
Secondo queste definizioni l’anima è identificata con l’”indole”, la naturale inclinazione di ogni individuo ad agire ed a reagire secondo proprie peculiari modalità. Quindi questa è la definizione di “come” è un’anima e non di “cosa” è l’anima.
Il testo prosegue affermando che nella Bibbia non vi è un concetto chiaro dell’anima come qualcosa distinta dal corpo. La parola neshamàh in realtà significa “respiro”, sostantivo derivato da n-sh-m “respirare”. Viene usata per la prima volta in Genesi 2:7, quando D-o “ispirò il soffio della vita (nishmàt chayyìm) nelle narici di Adamo. Essa venne perciò ad indicare “la forza vitale” o “lo spirito che dà vita” nei diversi contesti biblici.
Siamo arrivati ad una prima definizione di anima intesa come soffio vitale, qualcosa che serve a far vivere il corpo, ma non si dice ancora se l’anima abbia o possa avere una propria identità ove prescinda dall’unione con il corpo.
Nell’epoca rabbinica, prosegue il Green, in parte sotto l’influsso ellenistico, l’ebraismo sviluppò un concetto completo di anima. La neshamàh, un dono restituito giornalmente dall’”alto”, è inviata da Dio a dimorare nel corpo, la cui origine è terrena. Una preghiera recitata quotidianamente afferma la purezza originaria di ogni anima e dichiara che un giorno Dio la riprenderà e così terminerà la vita. Ma quella stessa preghiera afferma che l’anima sarà restituita quando i morti risorgeranno alla fine dei tempi. I rabbini credono che ogni anima sia contemporaneamente unica ed eterna. Tra la morte e la resurrezione (dopo un periodo di purificazione della durata di un anno, reso necessario se si è peccato) l’anima dimora nel “Giardino dell’Eden”, dove D-o si reca ogni sera “per trarre gioia dalle anime dei giusti”.
Neshamàh si alterna, nelle prime fonti, con altri due termini che indicano l’anima: néfesh, che significa “sé”, e rùach o “spirito”. Infine néfesh, rùach e neshamàh (che talvolta nella letteratura vengono raggruppate nell’acronimo NaRaN) finirono per essere considerate come tre dimensioni o “livelli” dell’anima. Nel Medioevo quest’idea venne collegata alle varie teorie neoplatoniche o aristoteliche della tripartizione dell’anima, con néfesh a rappresentare l’anima inferiore, seguita da rùach e da neshamàh.
I qabbalisti consideravano l’anima come una reale “parte del Dio superno”; ciò che Dio soffia in Adamo è la presenza del Sé divino. Niente di ciò che gli uomini possono fare sarà in grado di sradicare questa Presenza divina dai più profondi recessi del cuore di ciascun individuo. Alcune fonti cercano di limitare il possesso della neshamàh, o anima divina, agli ebrei, ma ciò è incompatibile con la fede in un’unica universale discendenza da Adamo ed Eva e pertanto contraddice gli insegnamenti basilari dell’ebraismo (tzélem Elohìm).
Con questa visione qabbalistica, quindi, l’anima lascia la posizione di subordine strumentale rispetto al corpo che la ospita, verso cui espleta un compito che ne consente la vita, quasi fosse il carburante necessario al funzionamento di una macchina, e diviene, invece, sede dell’identità dell’individuo, la cui vita corporea viene ora a connotarsi come una frazione temporale finita di un’esistenza che in quanto “parte del Dio superno” ha il connotato dell’eternità.

“…. in questo luogo avviene una modificazione divina: il Signore sottrae dal corpo mortale l'essenza spirituale, liberando il fanciullo lieto e leggero dal suo involucro pesante. Affinchè il fanciullo non vaghi e smarrisca, egli è condotto dal Signore nel guado purificatore e giunge all'altra sponda.”

Tutto questo è il frutto di credenze religiose, formatesi nei secoli, frutto di meditazioni ed esperienze di molte generazioni di nostri antenati, dotate di un livello intellettivo notevole e molto spesso superiore al nostro, per una questione, direi, di dimestichezza all’esercizio delle proprie facoltà. La dimensione intellettuale dei nostri progenitori non deve assolutamente valutarsi in proporzione agli sviluppi del progresso tecnologico o scientifico. La ricchezza del patrimonio intellettivo degli antenati più remoti è più facilmente percepibile dai componimenti poetici, che esprimono sentimenti immediatamente percepibili e che ci fanno sentire i loro autori così simili e vicini a noi.
Per potere rispondere alla domanda “cosa c’è dopo la morte?” dovremo usare, non il procedimento della dimostrazione, perché siamo al di fuori dell’ambito sperimentale dei fatti sensibili, bensì quello della verifica, che partendo dall’assunzione per vero degli asserti religiosi, ricerchi indizi sperimentali che risultino ad essi coerenti.
Ma questo fanciullo, chiede l’uomo razionale, esiste veramente? Quali prove abbiamo dell’esistenza dell’anima? Cosa c’è dopo la morte?
L’uomo razionale è scettico riguardo alla possibilità che possa esistere ancora qualcosa quando il cuore del nostro corpo ha cessato di pulsare.
Egli, si badi bene, non è agnostico per partito preso, anzi è sensibile a queste problematiche ultraterrene. E’ una persona di cultura medio-alta alla quale piace discutere di questi argomenti durante le pause delle sue usuali attività quotidiane. Ritiene però di dimostrare la prorpia saggezza con il mantenere sempre un atteggiamento di razionalità scientifica. Per lui è vero solo ciò che può essere scientificamente dimostrato o sperimentalmente verificato.
Ho vissuto personalmente l’esperienza di pre–morte, N.D.E. (Near Death Experience), sigla coniata dallo psichiata Raymond A. Moody.
Lo psichiatra, a seguito di una ricerca effettuata su alcune centinaia di persone dichiarate "clinicamente" morte per brevi periodi (ore o minuti) e ritornate alla vita, ha accertato, grazie ai loro racconti, una sequenza di fasi, analoghe pressoché in tutti i pazienti, che venivano riferite in modo associato o parzialmente o totalmente:
• la separazione dal proprio corpo;
• la capacità di guardarlo dall’esterno, dall’alto (autofania, visione del proprio doppio)
• la sensazione di pace e benessere più assoluti;
• il tunnel, o passaggio;
• l’incontro con esseri sconosciuti, a volte persone care;
• la visione di un "Essere di luce";
• l’esame di tutta la propria vita con particolare riguardo agli aspetti negativi
• la difficoltà a proseguire nel viaggio;
• il desiderio di rimanere;
• il ritorno alla vita con la volontà di approfondire la propria conoscenza e fratellanza
I racconti più sorprendenti, scientificamente parlando, riguardavano i riferimenti al soccorso medico cui, loro stessi, avevano assistito mentre si trovavano "fuori dal proprio corpo" pur essendo questo, adagiato in un letto d’ospedale.

Nel mio caso l’esperienza avvenne in occasione di un intervento chirurgico, cui fui sottoposto in anestesia totale all’età di ventuno anni. Durante l’intervento qualcosa non andò secondo le previsioni e sentii le voci di chirurgo ed anestesista dialogare in modo serrato e con tono di seria tensione. La palpebra mi venne sollevata più volte in questa fase concitata.
D’un tratto mi ritrovai fuori dal mio corpo, all’altezza del soffitto della stanza, e da lì osservavo, con un certo interesse, me stesso e cosa mi stessero facendo, con uno stato d’animo non di preoccupazione ma di semplice curiosità. Mi accorsi di non avere peso e percepivo che la mia individualità aveva una dimensione inferiore a quella del corpo che avevo abbandonato ed una forma diversa , come fosse una testa con qualcosa dietro. Mi sentivo straordinariamente felice, come mai ero stato, e cominciai a guardarmi intorno e vidi un’apertura in una parete della stanza , forse il sopraluce dischiuso di una porta, e decisi di andarmene perché quello che avveniva nella stanza ormai mi annoiava ed io provavo un grande desiderio di esplorare il luogo dove mi trovavo. Avevo appena iniziato il mio percorso di uscita quando sentii turbinare un violento risucchio, come un gorgo di un lavandino cui si sia tolto il tappo. Quasi istantaneamente mi ritrovai, con un certo disappunto, nuovamente all’interno del mio corpo. La mia esperienza era terminata quindi alla quarta fase delle dieci elencate dal Dott. Moody. Appena mi fu possibile chiesi al mio chirurgo se c’era stato qualche imprevisto durante l’intervento, accennando genericamente ad una sensazione che avevo avvertito, ma la risposta fu negativa.
Sono consapevole che la mia esperienza non costituisce una prova che quanto ho avvertito sia realmente accaduto e sono anche consapevole che un critico razionalista potrebbe imputare le mie sensazioni all’effetto delle sostanze anestetiche.
Ma io stesso ho affermato che in questo settore border-line non possono esserci prove ma indizi e nel mio caso gli indizi sono perfettamente allineati con le affermazioni della religione in cui credo ed inoltre l’esperienza vissuta mi ha fatto percepire la morte come evento di gioia e non di dolore.

martedì 15 giugno 2010

il libro di daniele

Il libro di Daniele è contenuto nella parte del Tanàkh, che porta il nome di "Ketuvim" , Agiografi. E' composto da dodici capitoli, scritti - il primo e gli ultimi cinque - in ebraico, mentre gli altri sono in aramaico ad eccezione del capitolo terzo originariamente scritto in greco. Daniele venne deportato giovinetto dalla Giudea a Babilonia e i primi sei capitoli del libro narrano le vicende da lui vissute nell'esilio (587-538 a.C.). Era costume allora, come lo è ancora adesso, che il vincitore depredasse il vinto delle sue ricchezze, che erano non solo i beni materiali, ma anche l'elite culturale nelle arti e nelle scienze ed ancora la sua forza lavoro specializzata, in particolare i fabbri, tanto necessari per la forgiatura delle armi.


Tutto questo capitò alla Giudea vinta dal babilonese Nabucodonosor. La fede nel Signore e l'osservanza degli insegnamenti della Torah consentirono a Daniele ed al suo popolo di mantenere la propria identità nell'esilio e fino al ritorno alla loro terra. Nei primi sei capitoli si narrano le vicende di Daniele a Babilonia, da quando egli vi giunse e fu affidato ad Ashpenaz, capo degli eunuchi, affinché lo preparasse per essere ammesso al palazzo del re. Il capo degli eunuchi gli cambiò il nome da Daniele a Belsciatsar, che significa Bel protegge la tua vita, gli insegnò la lingua e gli usi dei Caldei e lo istruì per la vita a palazzo. Forse nella preparazione alla vita di palazzo era anche la sterilizzazione, come farebbe pensare la figura preposta del capo degli eunuchi e l'assenza nel libro di Daniele di rapporti con figure femminili, nonché la sua imperturbabilità, scevra da manifestazioni di umana passione.


In questi primi capitoli sono gli episodi della fornace ardente, lo scioglimento degli enigmi posti dai sogni del sovrano, la rapida ascesa nella gerarchia amministrativa del regno, il complotto dei cortigiani gelosi e la condanna inflitta alla fossa dei leoni. Ci sono tutte le possibili vicende della vita di un alto funzionario di Stato: la sua ascesa, il lievitare delle invidie, il complotto, l'ingiusta condanna, il rispetto ricevuto dalle belve e non dagli uomini, la riabilitazione. Sono vicende umane, senza tempo, sempre attuali, alle quali anche noi abbiamo assistito.I capitoli dal 7 al 12, scritti in epoca più tarda da altri autori (come il Deutero Isaia e il Terzo Isaia) sono invece caratterizzati da una serie di visioni, che assumono una crescente connotazione apocalittica, fino a raggiungere il culmine al capitolo 12, dove son trattati i temi della resurrezione e degli ultimi tempi. I contenuti profetici del libro sono stati e sono tuttora ampiamente discussi da biblisti di varie religioni, che hanno prodotto nel tempo interpretazioni e collocazioni temporali degli avvenimenti profetizzati. Il libro si presta alla molteplicità interpretativa, non solo per i suoi contenuti, laddove narra di avvenimenti futuri e conclusivi per l'umanità, ma anche per lo stile letterario con il quale l'autore insinua ambiguità e parametri numerici. Ricordiamoci che l'ambiente in cui Daniele vive è Babilonia, e ricordiamo anche che a corte era d'uso, come intrattenimento colto e sapiente, porre e sciogliere indovinelli e che quindi una prosa ermetica, che stimolasse la possibilità di varie interpretazioni, risultava particolarmente apprezzata. Non è mio desiderio cimentarmi in esercizi di decriptazione delle profezie per tentare di definirne la collocazione temporale e svelare la data della fine del mondo. Voglio invece trovare nelle profezie di questo capitolo conclusivo di Daniele un messaggio rivolto alla mia individualità, un messaggio dove io possa reperire l'indicazione della via da percorrere nel tramonto della vita e che lasci intravedere cosa è oltre. Come ho fatto in altre occasioni nel percorrere le pagine del Libro, apro il mio cuore e lascio che le parole entrino e comincino a pulsare, mi affido a loro e ascolto. I nodi, allora, si allentano e si sciolgono e comincio a sentire, comincio a capire il messaggio di amore che, dolcemente, come profumo di un fiore odoroso, progressivamente mi avvolge. E allora, quando l'Angelo dice a Daniele "Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si desteranno ... " , io ascolto e sento che, quando la mia vita volgerà al tramonto e verso la conclusione, potrò destarmi, e veder la via segnata dal Signore e sarò parte dei molti, oppure potrò non destarmi ed essere parte degli altri. Potrò destarmi ed aver seguìto la via del Signore e sarò parte de "gli uni per la vita eterna" , potrò destarmi e non aver seguìto la via del Signore e sarò parte de "gli altri per l'obbrobrio, per un'eterna infamia". Non sono condanne queste, impartite da una Divinità onnipotente ad un uomo vittima inerme: costituiscono invece l'inevitabile punto di arrivo dei percorsi diversi, che l'uomo ha consapevolmente scelto di seguire. "E tu, o Daniele, tieni segrete queste parole e sigilla il libro fino al tempo della fine;": queste parole conserverò nel mio cuore, non le disperderò e le porterò con me fino al giorno della mia dipartita. "Molti andranno cercando attentamente e aumenterà la conoscenza", queste parole sono riferite all'umanità in generale e possono interpretarsi come espresso dal Rav Dario Disegni "allora molti lo studieranno e aumenterà la conoscenza, quando si constaterà che anche le persecuzioni finiscono col trionfo dei giusti e apparirà che tutto si risolve per mano della provvidenza." Mi piace però pensare che anche a questa frase, che riguarda l'umanità, possa applicarsi un'interpretazione simile a quella che io percepisco per me stesso: "Molti uomini cercheranno in sé stessi la verità ed arriveranno a percepire la consapevolezza della conoscenza". "Ma io, Daniele, guardavo ed ecco due altri uomini che stavano in piedi, uno sulla sponda di un fiume e l'altro sull'altra sponda. E disse uno di loro a quell'uomo vestito di lino, che stava al di sopra delle acque del fiume: - Quando sarà la fine di queste cose portentose?-" : al termine del mio cammino terreno giungerò alla sponda di un fiume, il trapasso avverrà durante il guado del fiume, al di là sarà l'altra sponda, limite del luogo ove risiederà la mia essenza. Il fiume è luogo riservato al Signore ed è presidiato dagli angeli perché in questo luogo avviene una modificazione divina: il Signore sottrae dal corpo mortale l'essenza spirituale, liberando il fanciullo lieto e leggero dal suo involucro pesante. Affinchè il fanciullo non vaghi e smarrisca, egli è condotto dal Signore nel guado purificatore e giunge all'altra sponda.


"Il Signore è il mio Pastore, nulla mi manca. Su verdi prati mi farà riposare, mi guiderà lungo acque tranquille. Egli ristorerà la mia anima, mi condurrà per retti sentieri, in grazia del Suo nome. Anche se dovessi andare nella valle dell'ombra della morte, non temerò alcun male, perché tu sei con me; la Tua verga ed il Tuo bastone mi danno conforto. (Salmo 23, 1-4)" Seguono le enunciazioni dei parametri numerici che collocano la fine dei tempi. Queste enunciazioni ermetiche sono variamente interpretabili. Sono interpretazioni che, se compiute da falsi profeti o da ciarlatani, possono creare uno stato di tensione emotiva nei loro seguaci sul quale basare il carisma necessario a condizionarne i comportamenti. A mio parere non è questa la conclusione del libro di Daniele. Non è nei numeri che è definita la fine dei tempi, non è nei calcoli di una data impossibile da calcolare, semplicemente perchè non è una sola data, ma è un'infinità di date: una per ogni uomo, perché ogni uomo ha la sua fine dei tempi. Perciò il libro conclude con le ultime parole che il Signore rivolge a Daniele: "Ma tu va' e attendi la fine e riposa e ti leverai a ricevere la tua parte di eredità alla fine dei giorni". E' un messaggio rassicurante: "Non cercare di leggere il futuro ma sii fiducioso nel Signore e , nel rispetto dei Suoi precetti, serenamente aspetta il compimento della tua vita terrena. Così la tua essenza riceverà la mia eredità: consapevolezza di amore e giustizia".

giovedì 10 giugno 2010

olocausto: si poteva fermare?



Padre Desbois ha dedicato la sua attività di questi ultimi anni alla ricerca della storia nascosta dell'eccidio di migliaia e migliaia di ebrei in piccoli borghi e foreste dell'Ucraina e di tutta l'Europa Orientale. E' stato premiato da Yad Va-shem e ultimamente l'Università di Bar-Ilan, a Ramat-Gan, gli ha assegnato una laurea honoris causa.

Il 18 gennaio scorso, presso l’Università Gregoriana alla presenza di una delegazione del Gran Rabbinato di Israele e di una numerosa rappresentanza diplomatica internazionale, Padre Patrick Desbois ha proceduto alla lettura pubblica del tema “The Holocaust by Bullets”, l’olocausto con le pallottole.
L’attività di Padre Desbois si è svolta in Ucraina, partendo dai luoghi ove suo padre era stato prigioniero durante il conflitto mondiale. Sono state individuate, da lui e dai suoi collaboratori, fosse comuni con i resti di un eccidio di proporzioni superiori ad ogni previsione. Fin’ora le fosse comuni in Ucraina sono oltre settecento e si calcola che i cadaveri contenuti siano almeno un milione e mezzo. L’opera di Padre Desbois consente la scoperta dei luoghi e delle dimensioni dell’eccidio, ma non potrà arrivare all’individuazione delle singole persone trucidate ed alla compilazione delle liste dei loro nomi. Non ci sarà la prova della morte di ogni singolo individuo e del luogo ove è avvenuta.
Sono in vita ancora gli ultimi testimoni della strage, le ultime persone che potranno dire “ricordo che la fossa iniziava qui, andava per di là e finiva laggiù”. Tra qualche hanno non ci sarà più nessuno a fornire testimonianza.



Poi ci sono le domande, quelle fatte ai testimoni : “Perché non ne avete mai parlato prima?”, domanda che non è una domanda, perché la risposta vera, nell’intimo, la sanno tutti.
Le risposte date completano l’ipocrisia : “Perché nessuno me l’ha chiesto!”
Poi c’è la domanda chiave, quella che si colloca nell’ambito dell’argomento di attualità: “Si poteva fare qualcosa per impedire o fermare l’olocausto?” e pare vogliano dire: “Ma Pio XII poteva fare qualcosa per fermare l’olocausto, o lo potevano fare le nazioni alleate in guerra contro le potenze dell’Asse?” .
Le verità sono a volte amare, a volte impietose, a volte feroci ed urticanti.
Qualcuno all’epoca ha fatto qualcosa, è esistito un Paese nella sfera d’influenza della Germania nazista dove il rastrellamento e la deportazione, pur ordinati da Berlino, non sono riusciti; dove neanche un ebreo di quella nazione è stato ceduto alla macchina dello sterminio.
Una storia sconosciuta, avvenuta in un Paese lontano: la Bulgaria. Tra le poche tracce che ne restano, due brevi comunicati radio.
Il primo è di Radio Berlino, che il 20 maggio 1943 annunciava, con burocratica sicurezza, l'imminente deportazione dei ventimila ebrei di Sofia, una delle tante tappe previste nella “Endloesung der Judenfrage”, la “soluzione finale del problema ebraico” decisa l'anno prima nella villa a Wannsee.
Il secondo è della Bbc. Il 24 maggio, il suo servizio internazionale informava di una manifestazione di protesta a Sofia. Migliaia di persone in piazza avevano impedito la partenza dei convogli nazisti. La deportazione non aveva avuto luogo. Una ribellione, in un Paese occupato, nell'angolo più sperduto della guerra, seguiva di un mese l'insurrezione del ghetto di Varsavia. Poi, però, non si seppe più nulla.
A maggio i nazisti ordinarono ai 20 mila ebrei di Sofia di presentarsi alla stazione il 24 maggio, giorno di Cirillo e Metodio, inventori dell'alfabeto cirillico, festa nazionale.
Ma nella Bulgaria già da qualche mese qualcosa stava cambiando. Dimitar Peshev era vicepresidente del Parlamento bulgaro e già nel marzo del 1943, informato della imminente deportazione di 48.000 ebrei bulgari, si era adoperato affinché re Boris III ed il governo disponessero la sospensione dei treni per Auschwitz.



Il 24 maggio, a Sofia, successe un evento unico in tutta Europa. A gruppi, gli ebrei cominciarono a manifestare. Alcuni si recarono alla grande sinagoga, altri a quella del quartiere popolare di Yuchbunar, dove il rabbino promosse una manifestazione. Venne deciso di marciare verso il palazzo reale. Partirono in poche centinaia, ma dalle case di Sofia molti cominciarono a scendere in strada. I manifestanti divennero migliaia, i gruppi comunisti clandestini tra i più attivi. La stazione venne presidiata, mentre il corteo affrontava la polizia e gli attoniti ufficiali delle SS. Ci furono 400 arresti, ma i treni rimasero vuoti. Il governo autorizzò solamente lo sfollamento degli ebrei dalla capitale verso le campagne.
I responsabili dell’operazione comunicarono a Himmler che “i bulgari mancano della illuminazione ideologica dei tedeschi. Vivendo da troppo tempo con armeni, greci e zingari, il popolo bulgaro non vede nell'ebreo difetti che giustifichino misure speciali contro di lui”.
Nei mesi successivi continuarono a riferire a Berlino che anche nelle campagne gli ebrei erano “ben accolti” e che “non c'era nulla da fare”. Nell'agosto del 1944, con l'avvicinarsi dell'Armata Rossa, le leggi antisemite vennero revocate: alla fine della guerra non un solo ebreo bulgaro era stato deportato.
L’episodio dimostra che qualcosa poteva farsi, ma non da parte di qualcuno che doveva venire da fuori, ma da parte del popolo tutto che avrebbe potuto proteggere la comunità dei propri ebrei.. Che lezione la piccola Bulgaria ha dato a tutta Europa!
Se si vuole veramente qualcosa si deve agire e rischiare, ma le nazioni civili non l’hanno fatto e non solo per codardia, ma perché non hanno voluto farlo. Questa è la risposta urticante all’ipocrisia di una domanda tendente alla liberazione da responsabilità!
Riporto al proposito la recensione del libro “Perché l'olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all'orrore nazista” di Theodore S. Hamerow, i cui contenuti sono in linea con quanto ho appena detto.
“E' ormai noto che la notizia dello sterminio sistematico degli ebrei ad opera dei nazisti circolava in Europa e negli Stati Uniti fin dal 1942. Eppure ci vollero tre lunghi anni prima che si ponesse fine alla barbarie del genocidio. Nel frattempo, nessuna azione militare specificamente finalizzata a sabotare la macchina nazista dell'orrore. Nessuna iniziativa diplomatica esplicitamente rivolta a fermare la mano degli aguzzini. Anzi, l'accoglienza di rifugiati ebrei in fuga dalla Germania fu resa ancor più difficile e le porte delle frontiere si chiusero per loro quasi ermeticamente. Perché? Theodore Hamerow fornisce a questo inquietante interrogativo storico una risposta sgradevole ma molto precisa: l'Olocausto non fu fermato prima perché anche le democrazie occidentali furono percorse al loro interno da una fortissima ondata di antisemitismo, che impedì ai governi di prendere misure concrete in soccorso degli ebrei. Perfino negli Stati Uniti, si tentò di far passare le notizie sullo sterminio per semplice propaganda e la questione ebraica come un problema locale. Frutto di un vastissimo lavoro d'archivio, il libro di Hamerow documenta per la prima volta in modo sistematico perché l'Occidente lasciò mano libera alla follia omicida nazista. Con una conclusione amara: pur sconfitto, Hitler in un certo senso ha vinto perché è riuscito a spazzare via gli ebrei dall'Europa.”