lunedì 25 aprile 2011

Kedoshim

Nella Parashà Kedoshim (Santi), che comprende i capitoli 19 e 20 di Vaikrà (Levitico), il Signore detta a Mosè precetti di carattere rituale, di carattere morale e di carattere sociale, la cui osservanza fa sì che l’uomo possa conseguire la Kedushà, Santità intesa come distinzione, differenziazione dai comportamenti che sono propri degli altri popoli.
Il capitolo 19 inizia con il comando di temere il padre e la madre e, subito dopo, di osservare il Sabato. Seguono norme per il consumo dei sacrifici, per la mietitura, per la correttezza dei rapporti con il prossimo, per il godimento dei frutti della terra. Tutti questi precetti mantengono, dopo migliaia di anni dalla loro formulazione, una chiara comprensibilità, anche nell’attualità, ed una naturale condivisione per la loro giustezza.
Il successivo capitolo 20 enumera atti contro la morale, a partire dalla pratica in uso presso altri popoli vicini di sacrificare a Mòlech i figli, proseguendo con atti di magia e poi ancora con la maledizione a danno dei propri genitori. Segue poi l’enumerazione dei divieti di adulterio e di atti di natura sessuale con consanguinei, parenti, con animali o di natura omosessuale. Il capitolo per ognuno di questi delitti specifica la pena da comminare, che in quasi tutti i casi è la morte per lapidazione.
Questo capitolo 20, a causa della severità delle pene che in esso sono previste, scuote la sensibilità di noi uomini appartenenti ad una società nella quale la pena di morte è da tempo abolita. E’ del resto consolidato il fatto che anche per i reati sessuali enumerati dal capitolo 20 non è più applicata nel mondo civile occidentale la pena di morte, mentre rimane per noi accettabile la massima severità, come il carcere a vita o al limite la sterilizzazione, solamente per i reati sessuali a danno di minori ovvero quando sia accertata la possibilità di reiterazione del reato.
Ma allora, potremmo chiederci, siamo in presenza di precetti, che sono scritti nella Torà, ma che vengono, al giorno d’oggi, disattesi, non fosse altro che per la parte relativa alla pena?
A mio parere le cose non stanno affatto così.
La prima considerazione da fare, infatti, è che le pene indicate al capitolo 20 costituiscono la misura massima della pena da comminare per quel tipo di delitto, ma che l’applicazione della pena sarebbe avvenuta, in ogni caso, attraverso un processo d’indagine ed un giudizio, che avrebbe potuto tener conto di ogni circostanza attenuante, fino ad arrivare al limite all’assoluzione.
Altra considerazione da compiere è che l’enumerazione del capitolo 20 riguarda atti contro la morale, definiti di fornicazione, messi alla stessa stregua di quelli compiuti con animali e quindi si tratta di peccati di esclusiva natura sessuale, dai quali devono invece escludersi quegli atti che, sia pure concretizzatisi sessualmente, sono stati dettati da sentimenti non contingenti verso la persona ed esorbitanti il solo carattere sessuale. A maggior ragione sarà operata questa esclusione qualora da questi atti non sia derivato nessun danno a terze persone.
Questo è il caso dei rapporti omosessuali nei cui confronti le componenti laiche e progressive dell’Ebraismo hanno riveduto i propri atteggiamenti.

domenica 17 aprile 2011

Acharè Moth

La parashà Acharè Moth (dopo la morte) comprende i capitoli 16, 17 e 18 di Vaikrà (Levitico) e tratta dell’espiazione delle colpe, delle modalità dei sacrifici, delle regole di purificazione, delle norme di purità sessuale e del divieto di abominio e di profanazione.
La parashà tocca due aspetti interessanti e meritevoli di riflessione.

1. D-o non parla ad Aronne.

Le istruzioni sono date dal Signore direttamente a Mosè affinchè egli le trasmetta ad Aronne ed ai suoi figli ed a tutti i figli di Israele.
Il Signore parlerà sempre ed esclusivamente a Mosè ed a lui dirà, tra l’altro, quali sono le istruzioni per suo fratello Aronne.
Aronne, che è il Gran Sacerdote, che è colui che cura il culto al Signore, che è l’unica persona che ha la facoltà di accedere al Santo dei Santi per pronunciare il nome di D-o nel giorno di Kippur, che è il capostipite dei Cohanim, dei Sacerdoti del Tempio, ebbene Aronne non avrà mai la facoltà di interloquire direttamente con D-o e tutto ciò che egli dovrà sapere gli sarà sempre detto tramite suo fratello Mosè.
Questa limitazione di Aronne, ed il suo costante subordine alla figura del fratello, ci inducono a chiederci se questa situazione costituisca una indicazione esorbitante lo specifico rapporto tra i due fratelli. Mosè è il condottiero carismatico del suo popolo, che esercita il ruolo di guida unica ed ispirata. Il compimento della sua missione richiede che a lui solo competano tutte le attività decisionali in materia normativa e operativa.
Ma, ci si chiede, il messaggio biblico si riferisce esclusivamente a Mosè ed Aronne, oppure ha una valenza più generale?
In parole povere il messaggio biblico può voler dire che per il conseguimento di un obiettivo di un popolo è necessario che il potere religioso sia subordinato al potere politico?
Siamo evidentemente su una linea di confine molto delicata e su una materia dove la storia ha fornito tragici ammaestramenti.
La risposta potrebbe essere si, ma solo se il condottiero è Mosè. E’però una risposta che non ci cautela abbastanza perché la storia è stata piena di tragici condottieri, convinti di essere, come Mosè, guidati da D-o e che hanno condotto l’umanità a lutti, distruzione e barbarie.
Direi a questo punto che il subordine ordinamentale debba esserci, ma che le voci subordinate debbano mantenere la possibilità di esprimere dissenso e di fermare il condottiero quando egli perda il consenso prevalente, e questo pure può non bastare.

2. Il capro espiatorio.

Secondo l’accezione corrente si intende per capro espiatorio una persona alla quale viene assegnata la colpa di atti commessi da altre persone. Al capro espiatorio verrà quindi comminata la pena per gli atti commessi da altri ed egli la espierà, mentre gli altri, i veri responsabili, resteranno indenni da imputazioni di colpa ed espiazione di pena.
La ricerca del capro espiatorio è azione conseguente alla decisione di non assumere la responsabilità di un atto non consentito, di un reato, evidentemente per sottrarsi alla punizione.
Se in una classe la maestra entra e chiede chi ha rotto un vetro, tutti plausibilmente taceranno, ma, se nella classe c’è un “diverso”, potrà avvenire che i suoi compagni dicano “è stato lui!” dando così vita al loro capro espiatorio.
Ebbene il capro espiatorio che, secondo la parashà, veniva caricato di tutti i peccati e mandato ad Azazel non è questo.
La responsabilità rimane sempre in capo a chi ha commesso la colpa ed egli dovrà espiarla, ma, ad di là della loro espiazione, le colpe commesse costituiscono delle macchie per la comunità, i fatti commessi è come se fossero oggetti, che sia pure espiati, rimangono lì, visibili nell’immagine e nel ricordo di atti negativi di peccati. La comunità desidera allontanare da sé questi oggetti, cioè la fattispecie di questi peccati e desidera che essi non si ripresentino più e perciò li carica sul capro, che era un capro e non una persona, per rimandarli, fuori dalla comunità, ad Azazel, il luogo del male.