lunedì 27 febbraio 2012

Tetzavè

(Es.27,20-30,10)

I figli d’Israele dovranno fornire per tutte le loro generazioni l’olio d’oliva puro vergine necessario ad alimentare la lampada che arderà all’interno del Tabernacolo davanti alla tenda della Testimonianza. Aron e i suoi figli prepareranno la lampada che, alimentata dall’olio, dovrà ardere ogni sera fino al mattino seguente.

Tu poi avvicina a te Aron tuo fratello insieme ai suoi figli di mezzo ai figli d’Israele, perché esercitino il sacerdozio in mio onore, Aron, Naday, Avihù, El’azar e Ithamar figli di Aron. Farai confezionare per Aron tuo fratello vestimenti sacri, segno di dignità e magnificenza.

Sono elencati e descritti quindi gli abiti che Aron indosserà nel suo ruolo di Gran Sacerdote. Indosserà dei calzoni di lino per ricoprire le nudità fino alle cosce e sopra di questi metterà una tunica di bisso con maniche strette, lunga fino alle caviglie e fermata in vita da una cintura ricamata. Sopra la tunica metterà il manto senza maniche, tutto di lana azzurra e lungo fino alla ginocchia. I lembi del manto saranno adornati con melagrane di lana azzurra, porpora e scarlatto, alternate con campanelli d’oro, che con il loro tintinnìo lasceranno intendere quando il Gran Sacerdote entrerà ed uscirà nel luogo santo davanti al Signore. Sopra il manto infine indosserà il dorsale e il pettorale, entrambi artisticamente lavorati in oro, azzurro, porpora, scarlatto e lino ritorto. Il dorsale, efod, terminava superiormente con due spalline, che recavano due castoni, uno a destra ed uno a sinistra, ciascuno con una pietra d’onice ove erano incisi i nomi delle tribù, sei per parte; inferiormente erano due nastri, uno a destra ed uno a sinistra, per stringerlo al corpo. Il pettorale, choshen, di forma quadrata con lato di circa venticinque centimetri, formava come una tasca dove il sacerdote custodiva gli Urim e i Tummim, che non sappiamo cosa fossero ma solamente che servivano a conoscere la sorte secondo la volontà divina. Il pettorale recava incastonate in oro dodici pietre dure di diverso colore che simboleggiavano le dodici tribù. Dorsale e pettorale infine erano uniti con anelli e catenelle in oro. Il Gran Sacerdote recava sul capo un turbante e su questo frontalmente era fisata una lamina d’oro recante le parole “consacrato al Signore”, kodesh laAdonai, che simboleggiava l’espiazione per irregolarità o mancanze commesse dal popolo nel rituale dei sacrifici.

I vestimenti del Gran Sacerdote, tenuto conto dell’epoca, erano ricchi e ricercati. “Magnificenza e dignità” dovevano esprimere, dice la nostra parashà e vediamo nel dettaglio le definizioni che Wikipedia fornisce per queste due qualità. La magnificenza (dal latino magnificentia - composto da magnus "grande" e facere "fare", propriamente fare in grande -, che a sua volta deriva dalla parola greca antica megaloprépeia – fare in grande in maniera conveniente) è una qualità che si riferisce alla prestanza, generosità, dignità o splendore nel modo di vivere degli uomini. Con il termine dignità si usa riferirsi al sentimento che proviene dal considerare importante il proprio valore morale, la propria onorabilità e di ritenere importante tutelarne la salvaguardia e la conservazione. Dunque il Gran Sacerdote quando esercitava la sua funzione di sacerdozio nel Tempio indossava queste vesti sia per rispetto verso il Signore, sia per mostrare al popolo che egli si apprestava a svolgere questa funzione.

Per comprendere quale fosse il significato della funzione sacerdotale è conveniente soffermarsi a riflettere su tre degli elementi del vestiario: il dorsale, il pettorale ed il turbante. Il dorsale ha sulle spalline due castoni con due pietre d’onice recanti in incisione i nomi delle dodici tribù, vale a dire che il Gran Sacerdote porta sulle sue spalle il popolo d’Israele davanti al Signore, sopportandone le colpe. Il pettorale reca incastonate dodici pietre dure diversamente colorate che rappresentano le dodici tribù, che quindi il Gran sacerdote recherà nel suo cuore e agirà e lotterà per la loro salvezza. Il turbante infine reca la lamina d’oro con le parole consacrato al Signore ed egli apparterrà al Signore, così come apparterranno al Signore le offerte sacrificali, così come appartengono al Signore le primizie e i primogeniti degli animali e dei figli d’Israele. I primogeniti dei figli d’Israele saranno riscattati, ma per i leviti ed i cohanim non vi sarà riscatto perché essi rimarranno proprietà del Signore.

La narrazione prosegue con la descrizione della cerimonia di consacrazione sacerdotale di Aron e dei suoi figli. Fuori dal Tabernacolo, davanti alla tenda della radunanza, si presenteranno un giovane toro e due montoni senza difetti unitamente ad una cesta contenente pani azzini. Aron e i suoi figli si avvicineranno alla tenda della radunanza e qui saranno lavati con acqua. Aron verrà vestito con i vestimenti sacerdotali e verrà unto il suo capo. I figli di Aron saranno rivestiti con le tonache. Aron e i suoi figli imporranno le loro mani sulla testa del toro, che verrà immolato davanti alla tenda della radunanza.

Con il sangue del toro si aspergeranno i quattro corni dell’altare e il sangue rimanente si spargerà intorno allo zoccolo dell’altare. Il grasso e le interiora saranno bruciati sull’altare, mentre il resto della carcassa sarà bruciato fuori dell’accampamento, quale sacrificio espiatorio di chattath. Verranno quindi sacrificati i due montoni: il primo sarà bruciato tutto sull’altare in olocausto al Signore; il sangue del secondo servirà per le aspersioni di consacrazione di Aron e i suoi figli, le interiora, la coda e la gamba destra saranno bruciate, mentre il petto e l’altra gamba saranno oggetto di dimenazione e costituiranno la parte del sacerdote e degli offerenti e questa sarà dunque offerta di shelamim.

La cerimonia di iniziazione si ripeterà per sette giorni, così l’altare perverrà al grado di massima santità e tutto ciò che toccherà l’altare sarà sacro.
Dopo le cerimonie di iniziazione il Signore prescrive i sacrifici giornalieri che dovranno compiersi davanti alla tenda della radunanza, sicchè il luogo sia consacrato alla Sua gloria.

“Risiederò in mezzo ai figli d’Israele, sarò il loro Dio. Essi riconosceranno che Io, l’Eterno, sono il loro Dio che li ho tratti dalla terra d’Egitto per risiedere in mezzo a lor., Sì, sono Io il Signore loro Dio.

Viene data infine la descrizione dell’altare destinato ad ardere l’incenso, molto più piccolo ma anch’esso realizzato in legno di acacia rivestito d’oro e munito di quattro corni agli angoli del piano d’appoggio e di anelli e stanghe per il trasporto.

martedì 21 febbraio 2012

Terumà

(Es.25,1-27,19)

Il Signore dice a Mosè di chiedere ai figli d'Israele che ognuno faccia un'offerta per la costruzione del Santuario, che sarà la Sua residenza in mezzo a loro. Le offerte saranno di oro, argento, rame, lana azzurra, porpora e scarlatto, lino e pelo di capra, pelli di montone tinte di rosso, pelli di delfino e legno di acacia. Saranno offerti inoltre olio per l'illuminazione, aromi per l'olio di unzione e incenso e poi ancora onice e pietre dure da incastonare nel dorsale e nel pettorale dei paramenti sacerdotali.

Dunque il Signore intende risiedere in mezzo al Suo popolo. Egli non dice che risiederà su una montagna come il monte Olimpo dei Greci, né risiederà nel cielo da dove scaglierà le sue saette, non risiederà genericamente in ogni luogo per giungere a chiamata dal Suo popolo. Egli sarà con il Suo popolo sempre ed in mezzo ad esso, perché Egli ha prescelto il Suo popolo tra tutti i popoli della terra. E’ evidente qui la concezione di un Dio che non è terzo che non è padrone perché lontano e minaccioso, è un Dio che è tra noi e con noi. E’ il desiderio dell’uomo di accedere, di comprendere la divinità, di sentirla compagna che guida e protegge, che punisce, certo, ma non che minaccia e incombe, che non è nemica. Ogni ebreo contribuirà ad erigere il Santuario, affinché la Divinità vi possa risiedere vicina e quando un giorno il Santuario non sarà più, l’ebreo ospiterà il Signore dentro di sé e farà di sé stesso il Santuario del Signore.

Su questa affermata presenza del Signore si innesta il dramma delle sciagure che si abbatteranno sul popolo ebraico, delle persecuzioni, delle stragi. Quante stragi, immani, incalcolabili, incomprensibili. Questo popolo è stato il capro espiatorio dell’umanità. Nella diaspora si verificarono, già in epoca medievale, scoppi di violenza un po’ in tutta Europa sulla spinta dell’intolleranza religiosa, alimentata dalla povertà e dalle malattie. Ci furono crociate che, partite via terra con destinazione la Terra Santa, si esaurirono compiendo per mezza Europa massacri delle comunità ebraiche. E poi ancora l’immane catastrofe dell’espulsione dalla Spagna disposta dai re cattolici Ferdinando e Isabella nell’anno 1492. Questa espulsione cambiò radicalmente la geografia umana delle comunità ebraiche nel mondo. Le comunità sefardite migrarono dalla Spagna verso i pochi paesi dell’Europa occidentale disposti ad accoglierli. Mi viene in mente al proposito il filosofo Baruch Spinoza che visse in Olanda dopo che la sua famiglia fu espulsa dal Portogallo. Ma una fortissima corrente si diresse verso l’impero ottomano, che dimostrava di accogliere e tollerare gli ebrei dietro pagamento di una tassa, la ghezia. Andare nell’impero ottomano, vista la sua estensione, che andava dal magreb africano, fino all’Europa balcanica, significava andare in Egitto, o in Eretz, o in Turchia, oppure a Salonicco, oppure ancora risalire i Balcani e stabilirsi in Europa orientale. E poi la Shoah, la catastrofe immane, folle, criminale, la strage, la distruzione quasi totale delle comunità askenazite. Ecco la domanda che l’ebreo si è posto è: dov’era Dio? Il Signore che ha prescelto questo popolo ha consentito che tutto questo avvenisse: dov’è la giustizia? Si cerca così di intentare un processo a Dio attribuendo a Lui la colpa del male. Ma la colpa non è di Dio, la colpa è dell’uomo. Il Signore si dice che sia il Dio del bene e del male, perché se Egli non avesse la concezione del male, allora il male non potrebbe esistere. Ma l’attuazione del male è prerogativa dell’essere umano, che con la cacciata dal giardino dell’Eden ha acquisito due cose: la conoscenza del bene e del male ed il libero arbitrio, la facoltà di scegliere cosa fare assumendosi la responsabilità delle proprie azioni.

Tornando alla narrazione della parashà, vengono per prime date le istruzioni per la costruzione dell’Arca: sarà realizzata in legno di acacia e avrà una lunghezza di un metro e venticinque centimetri, la larghezza di settantacinque centimetri ed un’altezza ugualmente di settantacinque centimetri. L’Arca sarà rivestita internamente ed esternamente con una lamina d’oro ed alle estremità dei due lati più lunghi si fisseranno quattro anelli d’oro, due per lato, dove verranno infilate le stanghe, una per lato, anch’esse di legno di acacia ed anch’esse rivestite d’oro. Le stanghe serviranno per il trasporto dell’Arca e non dovranno mai essere sfilate dagli anelli. Nell’Arca verranno poste le tavole della testimonianza, che il Signore consegnerà al popolo d’Israele.

L’Arca sarà chiusa con un coperchio d’oro, sul quale, alle due estremità, saranno collocati due cherubini, anch’essi in oro, uno di fronte all’altro e con le ali dispiegate verso l’alto e il volto orientato verso il coperchio. Al di sopra del coperchio, tra i due cherubini il Signore si manifesterà a Mosè e proseguirà a manifestarsi poi al Gran sacerdote nel giorno del Kippur.

Sarà realizzata inoltre una tavola in legno di acacia, ricoperta d’oro per i pani di presentazione ed un candelabro in un solo pezzo realizzato anch’esso in oro puro. Il candelabro avrà tre rami per parte che fiancheggeranno il fusto centrale, avrà quindi complessivamente sette braccia e peserà un kiccar, pari a tremila sicli e quindi ad oltre trentatré chilogrammi.

Si passa quindi alle istruzioni per la costruzione del Tabernacolo e qui c’è da tener presente che le strutture dovevano essere facilmente smontabili e rimontabili per seguire tutti gli spostamenti che il popolo avrebbe effettuato nell’arco dei quarant’anni nel deserto. Il Tabernacolo avrebbe avuto forma rettangolare con il lato maggiore della lunghezza di trenta cubiti, pari a circa diciotto metri, ed il lato minore di fondo con una larghezza di dodici cubiti, pari a circa sette metri. L’altezza del Tabernacolo sarebbe stata di dieci cubiti, pari a circa sei metri. La struttura perimetrale sarebbe stata realizzata con tavole di legno di acacia, ricoperte d’oro, accostate e fissate a dei basamenti d’argento. Lungo il perimetro e sulla copertura del Tabernacolo sarebbe stato posto un tendaggio sul quale sarebbero state poi disposte pelli di capra, di montone e di una specie di delfino per protezione dal sole e dalla pioggia.

La parte di fondo del Tabernacolo, di dimensioni minori, costituiva il Santo dei Santi, luogo ove sarebbe stata collocata l’Arca e che sarebbe stato separato dalla parte restante del Tabernacolo mediante una tenda di lino di colore azzurro, di porpora e di scarlatto. Anche all’ingresso del Tabernacolo sarebbe stata collocata una tenda di stoffa azzurra, di porpora e di scarlatto.

Vengono date quindi le istruzioni per la realizzazione dell’altare, collocato all’esterno del Tabernacolo davanti al suo ingresso. Si tratta di un altare quadrato di circa tre metri di lato e dell’altezza di circa un metro e mezzo rivestito di rame. Con l’altare verranno realizzati in rame tutti gli accessori necessari per i sacrifici e verranno realizzate anche due stanghe in legno di acacia per il trasporto dell’altare e anch’esse rivestite di rame.

Il Signore dà infine le istruzioni necessarie per la realizzazione del cortile che circonderà il Santuario. La lunghezza del cortile sarà di cento braccia e quindi di circa sessanta metri, mentre la sua larghezza sarà di cinquanta braccia, cioè circa trenta metri. La strutture perimetrale del cortile sarà realizzata con cortine di tessuto di lino dell’altezza di cinque braccia, circa tre metri, fissate a delle colonne, munite di fregi e uncini d’argento e di basamenti di rame, posizionate alla distanza di tre metri l’una dall’altra.

martedì 14 febbraio 2012

Mishpatim

(Es.21,1-24,18)

Il Signore assegna a Mosè gli statuti che egli dovrà esporre al popolo. Sono le norme che regoleranno il funzionamento della nuova società che si formerà gradualmente nell'arco dei quarant'anni trascorsi nel deserto: il popolo dei figli d'Israele. Dopo le dieci Parole, i Comandamenti, che sono come la carta costituzionale, in quanto esprimono i princìpi che devono ispirare la condotta del popolo d'Israele, queste norme degli statuti sono un po' l'equivalente dei nostri codici, civile e penale, dove è detto per i diversi rami di attività ciò che si deve fare, come si deve fare e quale sia la sanzione per chi trasgredisca. L'assetto normativo è quindi come un albero dove il tronco corrisponde alle dieci Parole e i rami alle diverse norme statuali.

Iniziano gli statuti dettando le norme che regolano la schiavitù. La mano d'opera era a quel tempo ancora più apprezzata di quanto non lo sia al giorno d'oggi, non solo perché non c'erano sindacati, ma ancor più perché all'epoca, ovviamente, non esistevano macchinari che potessero essere d'ausilio nello svolgimento dei lavori. Il lavoro si eseguiva con mano d'opera costituita da schiavi o da salariati e l'aiuto alla mano d'opera era costituito dal bestiame sia per i trasporti, sia per il lavoro dei campi. Lo schiavo era addetto a lavori e mansioni che dovevano svolgersi con una certa uniformità nell'arco di tutto l'anno, mentre il ricorso alla mano d'opera salariata avveniva per i lavori stagionali.

Si comincia dunque con lo stabilire che lo schiavo ebreo, trascorsi sei anni in schiavitù, al settimo deve essere posto in libertà senza riscatto. Questa regola non valeva per gli schiavi non ebrei che invece erano di permanente proprietà dei loro padroni. Un ebreo libero diveniva schiavo quando era venduto e ciò avveniva o per sua volontà o per condanna inflitta dal tribunale quando, resosi colpevole di furto, non avesse di che risarcire. Al momento della liberazione lo schiavo poteva rinunziarvi dichiarando di voler rimanere a servire il suo padrone. In questo caso il padrone lo conduceva in tribunale e qui gli forava un orecchio a testimonianza della sua proprietà definitiva.

Ma, nell'ambito degli schiavi ebrei, oltre il caso della vendita degli schiavi maschi c'era anche quello delle femmine. Poteva avvenire infatti che un padre vendesse la propria figlia giovinetta ad un altro uomo affinché lo accudisse per qualche anno e poi, giunta all'età del matrimonio, andasse sposa a lui o a suo figlio, o comunque ricevesse sostentamento e coabitazione. Ove ciò non fosse avvenuto la giovane avrebbe riacquistato la libertà senza riscatto.

Si passa quindi a trattare il caso dell'omicidio distinguendo tra volontario, colposo e premeditato. Per l'omicidio volontario la pena prevista era la condanna a morte, anche se ciò appare in netto contrasto con il sesto Comandamento che prescrive di non uccidere. Nella Torà spesso il Signore punisce con la morte, ma lo fa' quando i comportamenti umani mettono in pericolo l'attuazione del Suo disegno divino. La condanna a morte dell'omicida peraltro era inflitta da un tribunale che avrebbe valutato l'esistenza di circostanze attenuanti. Per l'omicidio colposo era previsto che il colpevole si trasferisse in una delle città rifugio, sia per non offendere con la sua presenza i parenti del morto, sia per sfuggire ad eventuali rappresaglie da parte di costoro. La premeditazione costituiva un'aggravante dell'omicidio volontario.

La pena di morte era prevista anche nel caso di percosse ai genitori o nel caso che nei loro confronti venisse pronunciata maledizione.

Si fa' quindi il caso di una persona percossa che sia rimasta a letto per un certo tempo e poi sia costretta per camminare a servirsi del bastone. In questo caso il colpevole risarcirà l'offeso pagando la degenza, le cure e i danni.

Nel corso dell'elencazione dei reati e delle pene compare la frase che esprime il criterio da seguire per stabilire le pene:

"Occhio per occhio, dente per dente,mano per mano, piede per piede. Bruciatura per bruciatura, piaga per piaga, contusione per contusione."

Questa frase al di fuori del mondo ebraico ha alimentato la credenza che la legge degli ebrei fosse improntata alla vendetta e non conoscesse il perdono. E' evidente che questa credenza non risponde a verità e ciò non solo perché il perdono è un sentimento ben presente nell'ebreo e qui vale ricordare al proposito il perdono che a Yom Kippur l'ebreo deve chiedere e ottenere per le azioni che abbiano causato danno ad altri, ma anche perchè la frase citata va intesa non in senso letterale ma in senso risarcitorio. Così "occhio per occhio" significa che se ho causato la perdita di un occhio ad un'altra persona dovrò risarcire il danno valutando quale perdita avrei io se perdessi un occhio. Ne viene fuori che il risarcimento per il danneggiato varia in funzione del censo e dell'attività di colui che ha prodotto il danno e quindi delle sue effettive possibilità risarcitorie.

Al giorno d'oggi qualcuno, a sostegno della vendicatività della natura ebraica, cita a volte il conflitto arabo-israeliano nel quale accade che ad ogni attacco arabo segue immediata la rappresaglia israeliana, sia essa un'incursione aerea dopo lanci di razzi verso il territorio israeliano ovvero una eliminazione mirata dopo un attentato. Questo qualcuno farebbe errori madornali nel sostenere la propria tesi. Innanzi tutto mentre esiste l'indole di un singolo individuo, forse è già da dubitare che esista l'indole di un popolo, specie quando questo popolo proviene dai quattro angoli della terra dove ha vissuto per duemila anni, subendo peraltro persecuzioni, vessazioni e disprezzo, essendo sempre attaccato senza mai attaccare. Né l'indole può attribuirsi ad una nazione, una nazione ha una politica e non un'indole e nel caso di Israele è la politica che ha stabilito la risposta colpo su colpo perché strategicamente Israele non può permettersi di perdere una guerra e nemmeno una battaglia perchè l'esiguità del suo territorio lo vedrebbe ricacciato in mare in caso di sconfitta.

Ci sono poi negli statuti norme che tutelano gli schiavi dai maltrattamenti e norme che prevedono il caso di danni provocati da animali per i quali il proprietario della bestia è tenuto al risarcimento. Altre norme trattano dell'uccisione di un ladro sorpreso a rubare nella propria casa e poi ancora si passa al caso di furto di beni affidati in custodia.

E' previsto anche che chi seduce una vergine non fidanzata e coabita con lei sia obbligato a sposarla pagando la dote fissata. Se il padre non concorda per il matrimonio, il seduttore dovrà pagare una somma pari alla dote stabilita per le vergini, che era pari a cinquanta sicli d'argento.

Seguono una norma che prevede la morte per la strega, ed un'altra che pure prevede la morte per chi compia sacrifici ad altra divinità che non sia il Signore. Sono norme queste di tutela non sociale ma religiosa, delicate per la loro applicazione, che facilmente potrebbe risultare arbitraria qualora si tendesse di fatto a sbarazzarsi di qualcuno sulla base di prove fumose e non sostanziali.

Si prescrive poi di non ingannare e mettere in difficoltà lo straniero e di non opprimere la vedova e l'orfano. Si dice inoltre che non devono chiedersi interessi per i prestiti fatti a qualcuno del proprio popolo.

Ci sono poi, a proposito della presunta vendicatività del popolo ebraico, due norme che riguardano gli animali appartenenti al proprio nemico: la prima prevede che se l'animale è smarrito e noi lo troviamo dobbiamo ricondurlo al suo proprietario; l'altra che, se si vede l'asino del nemico soccombente per l'eccessivo peso, si deve intervenire e prestare aiuto.

Gli statuti dettano norme per l'anno sabatico, per cui per sei anni la terra sarà coltivata e al settimo anno sarà lasciata riposare. Così pure per sei giorni sarà consentito lavorare e al settimo giorno ci sarà il riposo per tutti, per la famiglia, per gli schiavi, per lo starniero, per gli animali.

Le norme assegnate si concludono con quelle relative alle feste di pellegrinaggio: la festa degli azzimi (Pesah), la festa della mietitura (Shavuoth) e la festa del raccolto (Sukkoth). Nelle tre feste verranno offerti sacrifici al Signore.

Il Signore dice che il popolo sappia che Mosè li guiderà fino alla terra promessa, che Egli gradualmente libererà dalle popolazioni ivi dimoranti, per darla al Suo popolo, dal Mar Rosso al Mediterraneo e dal deserto fino all'Eufrate.

Poi il Signore disse a Mosè:

"Sali verso il Signore con Ahron, Nadav, Avihù e settanta anziani d'Israele. E vi prostrerete da lontano."

Mosè avanzò da solo verso il Signore e gli altri non lo seguirono e non salirono con lui. Mosè ridiscese dal monte e trasmise al popolo tutte le parole del Signore e tutti gli statuti. E il popolo gridò:

"Tutto quanto ha detto il Signore, noi lo eseguiremo."

Mosè scrisse tutte le Parole del Signore e il mattino dopo eresse un altare ai piedi del monte ed innalzò dodici monumenti, uno per ogni tribù, poi disse ai giovani d'Israele di offrire olocausti al Signore. Mosè prese metà del sangue e lo mise in alcuni bacili mentre con l'altra metà spruzzò l'altare. Lesse Mosè le Parole del Signore e il popolo disse:

"Tutto ciò che ha pronunziato il Signore, eseguiremo e obbediremo."

Mosè asperse il popolo con il sangue dei bacili e disse:

"Questo è il sangue dell'alleanza che il Signore conclude con voi riguardante tutte queste parole scritte nel libro del patto."

Mosè con Ahron e Nadav e Abihù, accompagnati ndai settanta anziani d'Israele salirono sul monte e contemplarono la Divinità d'Israele, ebbero la visione del Signore e non morirono e poi mangiarono e bevvero. E il Signore disse a Mosè:

"Sali verso di Me sul monte e rimani là e Io ti darò le tavole di pietra, la legge e i precetti che Io ho scritto per istruirli."

Mosè salì sul monte e il monte fu avviluppato da una fitta nebbia. Per sei giorni la nube della maestà divina avvolse il monte e al settimo giorno il Signore chiamò Mosè. La maestà divina appariva ai figli d'Israele come un fuoco che divorava la sommità del monte. Mosè entrò nella nube e lì rimase per quaranta giorni e quaranta notti.

giovedì 9 febbraio 2012

I dieci Comandamenti

(Es.20,1-20,17; Deu.5,6-5,18)

In Esodo viene narrato che il Signore pronunciò sul monte Chorev le parole della Legge, i Comandamenti del Patto che volle stringere con i figli d'Israele. L'elenco sintetico dei Comandamenti è il seguente:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al Mio cospetto.
3) Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano.
4) Ricordati del giorno del Sabato per santificarlo.
5) Onora tuo padre e tua madre.
6) Non uccidere.
7) Non commettere adulterio.
8) Non rubare.
9) Non fare falsa testimonianza.
10) Non desiderare ciò che appartiene ad altri.


In Deuteronomio si narra che Mosè radunò il popolo d'Israele e rammentando loro il patto stabilito dal Signore sul monte Chorev, ripetè quindi le dieci Parole, i dieci Comandamenti che il Signore aveva pronunciato quarant'anni prima lasciandoli atterriti.

Se ci soffermiamo sui primi due Comandamenti e confrontiamo le traduzioni dei due passi biblici come risultanti nella Bibbia Ebraica a cura di Rav Dario Disegni, osserviamo una lieve differenza formale, che però può dar luogo a dubbi interpretativi.

Infatti in Esodo nel primo capoverso figurano unicamente le parole "Io sono il Signore Dio tuo" e nel secondo sono le parole "Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non ti farai alcuna scultura né immagine".

In Deuteronomio invece fanno parte del primo capoverso sia le parole "Io sono il Signore tuo Dio", sia le parole "Non avrai altri dèi al mio cospetto", mentre al secondo capoverso sono le parole "Non ti farai alcuna scultura nè immagine".

Il testo ebraico non ci aiuta a questo proposito perché, non essendoci la forma del punto e a capo non ci sono capoversi, ed è quindi costituito da una semplice sequenza di frasi.

In sostanza il dubbio che si profila riguarda la scritturazione dei primi due comandamenti e precisamente se, invece di quella sopra riportata non debba invece intendersi:

1) Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altri dèi al mio cospetto.
2) Non ti farai alcuna scultura nè immagine.


Questa versione, adottata in altre fonti, conferisce rilievo autonomo alla prescrizione contraria a sculture ed immagini e costituisce una incentivazione della concezione iconoclastica.

Non ho dubbi sul fatto che questa scritturazione non sia condivisibile giacché il divieto di sculture e immagini è stato espresso non di per sé, ma nel fondato timore che queste potessero divenire oggetto di culto e adorazione, come del resto avvenne con il vitello d'oro. Inoltre il solo comandamento di riconoscere il Signore come proprio Dio non esclude di per sè il riconoscimento di altri dèi e perciò è impartito il secondo comandamento, sicché avremmo:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non ti farai alcuna scultura né immagine.


Ora se il divieto di sculture e immagini è impartito allo scopo di evitare che diventino oggetto di culto e adorazione, ecco che questo divieto è assorbito dalla prima parte "Non avrai altri dèi al mio cospetto" e in definitiva la scritturazione sintetica dei primi due Comandamenti diviene:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al mio cospetto.


conforme quindi alla formulazione qui riportata inizialmente.

Un'altra considerazione merita di essere fatta a proposito del settimo Comandamento, per il quale altre fonti propongono la dizione "Non commettere atti impuri", come riportato da Wikipedia che cita in proposito il Decalogo in uso per la catechesi cattolica e cioè:

Ascolta Israele! Io sono il Signore Dio tuo:
1) Non avrai altro Dio all'infuori di me.
2) Non nominare il nome di Dio invano.
3) Ricordati di santificare le feste.
4) Onora il padre e la madre.
5) Non uccidere.
6) Non commettere atti impuri.
7) Non rubare.
8) Non dire falsa testimonianza.
9) Non desiderare la donna d'altri.
10) Non desiderare la roba d'altri.

Il Comandamento, che nell'elenco soprariportato da settimo è diventato sesto, non risulta in nessuno dei due passi biblici e mi pare fornisca una visione non coerente con la finalità sociale che si intravede nei Comandamenti dal quinto al decimo. Pertanto resta, a mio parere, confermatala validità della dizione:

7) Non commettere adulterio.

Segnalo infine l'atipicità del decimo Comandamento, conclusivo della sequenza dei cinque comandamenti negativi, che prescrivono cioè le cose da non fare, perchè quello che si prescrive di non commettere in questo caso non è un'azione ma un pensiero, un desiderio, che, a mio parere, finchè rimane tale può costituire un'ossessione per chi lo prova, ma non produce danno ad altri.

10) Non desiderare ciò che appartiene ad altri.

Con questa dizione si comprendono sia la donna, sia i servi, sia i beni materiali che gli altri possiedono.

Ritengo che questo Comandamento di condanna del pensiero sia il più severo e che proprio per questo ci sia da chiedersi la ragione di questa anomalia. E' un Comandamento verso sé stessi e non verso gli altri e trova giustificazione nella scelta che deve compiersi mirata alla disciplina del controllo e della repressione del desiderio, che ci conduca a dare valore a ciò che abbiamo e non a ciò che vorremmo avere.

domenica 5 febbraio 2012

Ytrò

(Es.18,1-20,26)

La notizia dei prodigi operati dal Signore per liberare il popolo di Israele dalla schiavitù e farlo uscire dall'Egitto giunse a Ytrò, suocero di Mosè. Ytrò si diresse allora nel deserto dove Mosè era accampato recando con sé la moglie di lui Zipporà ed i suoi figli Ghershom e Eliezer.

Mosè andò incontro al suocero, si prostrò a lui, lo baciò e lo salutò calorosamente. Poi lo condusse nella sua tenda e gli raccontò tutte le peripezie vissute con il suo popolo dalla fuga dall'Egitto fino alla marcia nel deserto e con quali prodigi il Signore li avesse salvati.

Ascoltato il racconto di Mosè, Ytrò disse:

"Benedetto sia il Signore che vi ha salvato dalle mani degli Egiziani e del Faraone e che ha sottratto questo popolo dal dominio dell'Egitto. Ora io riconosco che il Signore è il più grande di qualsiasi divinità, poiché nella maniera nella quale gli Egiziani insolentirono contro di essi furono puniti."

E Ytrò offrì sacrifici ed olocausti al Signore. Il giorno dopo Ytrò assistette ad una udienza che Mosè dava al popolo per amministrare la giustizia e vide che il genero conduceva l'udienza per l'intera giornata e che dirimeva e giudicava questioni di ogni genere, dalle più banali alle più complesse. Suggerì Ytrò a Mosè di nominare dei magistrati per la trattazione di tutte le questioni ordinarie, mentre sarebbero rimasti sottoposti al suo giudizio gli argomenti di maggiore importanza. Mosè mise in atto quanto il suocero gli aveva suggerito e quindi si congedò da lui che tornava al suo paese in terra di Midian.

Molti si sono posti la domanda se Ytrò possa considerarsi il primo proselita dell'ebraismo e le risposte schivano l'essenza della domanda rispondendo che egli è certamente da ritenere un saggio, che però la sua posizione si delinea prima dell'assegnazione della legge da parte del Signore. E' un argomento delicato perché se è pur vero che Ytrò si è dichiarato convinto che il Signore d'Israele sia l'unico autentico Dio e se è parimenti vero che al Signore d'Israele egli ha offerto sacrifici, è anche vero che egli non solo non compirà il viaggio di quarant'anni nel deserto, ma effettivamente non avrà modo di conoscere la legge del Signore, per una smagliatura temporale, per essersi recato da Mosè poco prima e non poco dopo che questi ricevesse la legge.

I figli d'Israele ripresero la marcia e si addentrarono nel deserto di Sinài. Si arrestarono davanti al monte e qui Mosè salì incontro al Signore e Questi lo chiamò dall'alto e gli disse di riportare questo messaggio ai figli d'Israele:

"Voi avete visto con i vostri occhi ciò che Io feci agli Egiziani, vi portai come su ali di aquila e vi feci giungere presso di Me. Ordunque se voi ubbidirete alla Mia voce e manterrete il Mio patto, sarete per Me quale tesoro fra tutti i popoli, poiché a Me appartiene tutta la terra. E voi sarete per Me un reame di sacerdoti, una nazione consacrata."

Il popolo unanimemente rispose:

"Tutto ciò che ha detto il Signore noi lo eseguiremo."

Mosè riferì la risposta che i figli d'Israele avevano dato ed il Signore gli disse di far purificare il popolo e che lavassero i loro indumenti e si astenessero da rapporti sessuali, giacché al terzo giorno Egli, il Signore, sarebbe sceso sul monte Sinài alla presenza del popolo. Mosè avrebbe messo un segnale di confine attorno al monte affinchè il popolo non lo oltrepassasse, ché altrimenti avrebbero trovato la morte. Quando si sarebbe udito lo shofar suonare a lungo, allora anche Aron, i suoi figli ed i settanta anziani avrebbero potuto salire sul monte.

Al terzo giorno ci furono tuoni lampi ed una fitta nebbia avvolgeva il monte e si udì forte il suono dello shofar. Mosè fece uscire dall'accampamento il popolo, che si fermò ai piedi del monte.

Il Signore era sceso sul monte ed il monte era tutto fumante come una fornace e si scuoteva violentemente, e lo strepito dello shofar andava sempre più rafforzandosi. Il Signore chiamò Mosè e questi salì in cima e qui il Signore gli disse di porre il confine alla base del monte e di dichiararlo sacro e che nessuno si avvicinasse, nemmeno i sacerdoti. Infine disse il Signore a Mosè:

"Va' e discendi e poi risalirai accompagnato da Aron, ma i sacerdoti e il popolo non tentino di salire verso il Signore, perché potrebbero essere colpiti."

Mosè ridiscese e riferì ciò che gli era stato comandato.

Si udì quindi la voce del Signore pronunciare le dieci parole, i dieci comandamenti, la legge che Egli in quel momento dava ai figli d'Israele:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al Mio cospetto.
3) Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano.
4) Ricordati del giorno del Sabato per santificarlo.
5) Onora tuo padre e tua madre.
6) Non uccidere.
7) Non commettere adulterio.
8) Non rubare.
9) Non fare falsa testimonianza.
10) Non desiderare ciò che appartiene ad altri.

Sono quattro comandamenti religiosi e sei etici, i quali ultimi regolano la convivenza sociale. Il decimo comandamento è forse il più severo tra i comandamenti negativi perchè vieta non un'azione concreta ma un pensiero. Non sono elencati in ordine di importanza, ma forse si tratta di una sequenza logica nel senso che il mancato rispetto del precedente incentiva la trasgressione del successivo.

Il popolo, che era stato testimone di tutti quei lampi, tuoni e fragori era timoroso e disse a Mosè:

"Sii tu a parlarci e noi potremo ascoltare, ma che il Signore non ci parli, ché potremmo morire."

E Mosè rispose:

"Non temete affatto; è soltanto per mettervi alla prova che il Signore è venuto a voi affinché il timore di Lui vi sia sempre presente in modo che non abbiate a peccare."

Il popolo rimase lontano dal monte mentre Mosè si addentrò nella nube dove era il Signore. E il Signore disse a Mosè di riferire al popolo queste parole:

"Voi foste testimoni che dall'alto del cielo Io vi ho parlato. Non associate a me nessuna divinità né d'argento, né d'oro, nessuna ne farete per vostro uso."

E proprio queste saranno le parole alle quali il popolo a breve contravverrà quando adorerà come proprio idolo il vitello d'oro. Queste però sono osservazioni con il senno di poi, che non tengono conto di due fatti attenuanti per i comportamenti umani e cioè le circostanze e il tempo. Nel confronto con il Signore l'uomo è chiaramente un essere debolissimo perchè spesso incostante ed iunfluenzabile e più ancora, anche se lui è restio a confessarlo, perchè lui, l'uomo, è mortale, lui vive nel tempo e nel tempo si consuma e per lui è molto importante quando una cosa si compie e non solo se si compie e spesso l'impazienza, l'angoscia del tempo fa sì che egli non sappia aspettare.

Impartisce infine il Signore a Mosè istruzioni per l'erzione dell'altare in terra o in pietra non scalpellata e per l'accesso senza scalini.