lunedì 24 giugno 2013

Pinchas

(Num:25,10-30,1)

Pinchas con un atto violento e risoluto uccise Zimrì, della tribù di Simeone, e la sua amante midianita. Per il popolo l’impatto di questo gesto fu talmente forte che venne a ristabilirsi la fedeltà al patto di alleanza con il Signore. L’ira del Signore, come abbiamo visto anche alla fine della precedente parashà, si placò e cessò la pestilenza inviata per punire il popolo d’Israele. Pinchas, sacerdote figlio di El’azar figlio di Aron, per lo zelo dimostrato in questa circostanza ricevette dal Signore, per sé e per i suoi discendenti, la linea di supremo sacerdozio.

Pinchas è una figura severa, che con il suo gesto interrompe una prassi biblica alla quale eravamo in un certo qual modo abituati. Durante il lungo viaggio verso la terra promessa molte furono le sommosse e le ribellioni del popolo d’Israele alle disposizioni impartite dal Signore. Ogni volta la punizione venne inflitta direttamente dal Signore ed ogni volta Mosè ebbe ad intercedere perché il popolo non fosse annientato e gli venisse concessa ancora una possibilità. Anche questa volta il popolo si disunì e numerosi furono gli atti di fornicazione dei figli d’Israele con donne moabite e midianite, molti si allontanarono dal culto del Signore per adorare il Baal Peor. Il Signore inviò una pestilenza che mietette ventiquattromila vittime e si placò questa volta non per l’intercessione di Mosè, ma per l’azione con la quale Pinchas, sacerdote di severi costumi, pose fine allo scandalo uccidendo la coppia di amanti.

L’atto di Pinchas può apparire a noi, persone che apparteniamo ad una società decadente, avvezza ad unioni, che rapidamente si formano ed ancora più rapidamente si disfano, eccessivo, sproporzionato, addirittura condannabile. Potremmo pensare che male mai avessero commesso i due amanti, che si presume fossero giovani e di bell’aspetto, se non quello di seguire la voce del cuore, che è quello che l’etica corrente ritiene si debba fare in barba a qualsiasi costrizione e imposizione. La risposta che ha valore per il popolo d’Israele ed in base alla quale Pinchas ha agito la troviamo nella terza parte dello “Shemà”:

E parlò il Signore a Mosè dicendo: parla ai figli d’Israele, e dirai loro di fare, per loro e per tutte le loro generazioni Tzitzìt sulle ali estreme dei loro vestiti, e porranno sulla Tzitzìt all’estremità un filo azzurro. E sarà per voi come Tzitzìt, e guardando ricorderete tutte le mitzvòt del Signore, e le osserverete. E non vi perderete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, poiché vi prostituireste seguendoli. Affinché ricordiate ed osserviate tutte le mie mitzvòt e vi distinguiate per il vostro Signore. Io sono il vostro Signore, che vi ha tratti dalla terra d’Egitto per essere il vostro Signore. Io sono il vostro Signore.
(Num.15,37-41)

L’amore per il Signore e l’osservanza delle mitzvòt guidano quindi la vita dell’ebreo osservante, dalla quale deve essere rimosso ogni altro interesse collidente ed in particolare il frutto delle passioni del cuore. Ciò detto appare chiaro che l’atto compiuto da Pinchas fu una punizione impartita per una grave infrazione della Legge. Potrebbe ancora essere incolpato Pinchas di eccesso di zelo, nel senso che si sarebbe arrogato il diritto di infliggere la punizione, prerogativa questa fino a quel momento esercitata dal Signore, direttamente o per Sua disposizione. Ma per questo aspetto il Signore non manifestò doglianza, anzi vi fu apprezzamento, tant’è che Pinchas e la sua discendenza ricevettero eterna gratificazione per l’atto da lui compiuto.

Il capitolo 26 tratta del censimento di tutti i maschi di età da vent’anni in su, idonei per il servizio militare. Questo censimento riguarda solamente le nuove generazioni, giacché, come già sappiamo, nessuno di coloro che uscirono dall’Egitto, Mosè compreso, potrà entrare nella terra promessa. Il censimento ha lo scopo di definire la consistenza numerica di ciascuna delle dodici tribù, consistenza in base alla quale verrà stabilità l’entità delle terre da assegnare. Il censimento, oltre che numerico, è anche, a ben vedere, un censimento onomastico e molti dei nomi citati in questo capitolo trovano corrispondenza nell’onomastica ebraica contemporanea.

Collegato al problema del censimento è al capitolo 27 l’episodio delle cinque figlie di Tselofchad: Machlà, No’à, Choglà, Milchà, Tirtsà. Si ritiene che Tselofchad fosse il vecchio ebreo, che vedemmo colto a raccogliere legna di sabato e quindi messo a morte. Le ragazze presentatesi a Mosè fecero presente che, poiché nella loro famiglia non c’erano componenti maschi, questa non sarebbe risultata nel censimento e loro non avrebbero avuto nessun terreno al momento dell’assegnazione. La richiesta delle ragazze fu accolta dal Signore:

Quando un uomo muore e non ha figlio, voi passerete il suo retaggio alla sua figlia. E se non ha figlia, darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se non ha fratelli, passerete l’eredità ai fratelli del padre. E se il padre non aveva fratelli, darete la sua eredità al parente carnale più prossimo della sua famiglia, e questi la possederà.

Dopo di ciò il Signore disse a Mosè:

Sali su questo monte ‘Avarim e guarda la terra ch’Io ho dato ai figli d’Israele. E dopo averla veduta verrai raccolto alla tua gente anche tu, come è stato raccolto Aron tuo fratello. Poiché vi siete opposti al mio comando presso le acque della ribellione di Cadesh, nel deserto di Tsin, quando l’assemblea si ribellò, anziché santificarmi con l’acqua ai loro occhi. Questa è l’acqua di ribellione di Cadesh, nel deserto di Tsin.

Mosè, che tante volte intercedette presso il Signore per placarne l’ira contro il Suo popolo, in questa occasione non chiese indulgenza per sé e dev’essere stata veramente dura per lui arrivare a vedere dall’alto la terra promessa e sapere di non potervi entrare. Mosè non chiese nulla per sé stesso probabilmente perché era consapevole della gloria del ruolo da lui rivestito per aver condotto il suo popolo per tutto quel viaggio, durante il quale il popolo assunse la consapevolezza della propria identità, abbandonando la terra di schiavitù per ricevere la legge del Signore e superare gli ostacoli ed i contrasti frapposti al raggiungimento della meta. Mosè non chiese per sé ma, ancora una volta, chiese per il popolo, chiese che venisse designata la sua nuova guida:

Destini il Signore, Dio degli spiriti di ogni vivente, un uomo della congrega, il quale esca davanti a loro ed entri davanti a loro, li faccia uscire ed entrare affinché la congrega del Signore non sia come un gregge che non ha pastore.

Il Signore designò Giosuè e impartì le istruzioni per la sua presentazione e consacrazione. A Giosuè, uomo giovane e forte, animato da spirito battagliero e risoluto sarebbe spettato il compito della conquista della terra promessa.

A questo punto, siamo al capitolo 28, il Signore parlò a Mosè per istruirlo sui sacrifici da presentare al Tempio quotidianamente, su quelli da presentare il Sabato ed in tutte le altre feste dell’anno ebraico. Prosegue la descrizione dei sacrifici anche al capitolo 29, in un crescendo di vittime immolate, la cui consistenza raggiunge negli otto giorni di Succòt quella di un vero e proprio esercito fra tori, montoni ed agnelli.Tutti questi sacrifici di animali ci indurrebbero a connotarli come una manifestazione di barbarie, difficilmente giustificabile ai nostri occhi, anche per la loro entità, se visti esclusivamente come offerte alla Divinità. Dobbiamo però ricordarci che queste offerte avevano anche la funzione di provvedere al sostentamento dei Sacerdoti e dei Leviti addetti al funzionamento del Santuario, quindi di un elevato numero di persone e che a tale numero le offerte erano di fatto commisurate.


Haftarà di Pinchas
(I Re:18,46-19,21)

Narra l’Haftarà dello zelo verso il Signore dimostrato dal profeta Elia, per avere egli ucciso con la spada tutti i profeti del dio Ba’al, così come Pinchas aveva ucciso i due amanti e con lo stesso intendimento di riguadagnare al culto del Signore il popolo d’Israele.
Ma il profeta Elia fu costretto a fuggire perché il re d’Israele Achav, che aveva incoraggiato i culti idolatri, ne aveva decretato la condanna a morte. Andò Elia nel deserto e camminò un’intera giornata ed a sera si coricò ai piedi di una ginestra e qui si addormentò. Gli apparve in sogno un inviato del Signore che gli disse:

Alzati e mangia, perché dovrai percorrere un lungo cammino.

Egli si alzò, mangiò e bevve e con la forza datagli da ciò che aveva mangiato camminò per quaranta giorni e quaranta notti, finché giunse al Chorev, il monte di D-o, ed entrò nella grotta. Qui il Signore gli chiese:

Che cosa fai tu qui, Elia?

Ed egli rispose:

Sono stato zelante per il Signore D-o Tsevaoth: i figli d’Israele hanno abbandonato il tuo patto, abbattuto i tuoi altari, ucciso con la spada i tuoi profeti, sicché ne sono rimasto io solo, ed hanno cercato di togliermi la vita.

Segue un passo di potenza meravigliosa che riesce a farci intravede la visione della presenza del Signore. D-o disse ad Elia:

Esci, fermati sul monte davanti al Signore;
ecco il Signore passa
e davanti a Lui soffia un vento grande e forte
che sconquassa i monti e spezza le rupi,
ma non nel vento è il Signore;

dopo il vento verrà un terremoto,
ma non nel terremoto è il Signore.

Dopo il terremoto un fuoco,
ma non nel fuoco è il Signore,

e dopo il fuoco una voce sottile, quasi silenzio.


Ecco dunque che la presenza del Signore si manifesta con “una voce sottile, quasi silenzio”, “kol demamàh dakah”. Perché con un quasi silenzio e non con il fragore impetuoso del vento, perché non con lo scuotimento incontrollabile del terremoto, perché non con il crepitio delle fiamme? La risposta è perché parla ad un uomo, come fosse una voce da dentro, un sussurro.

Elia si alzò e, avvoltosi nel mantello, uscì dalla grotta, fermandosi al suo ingresso. Ed ecco una voce gli disse:

Torna a camminare per la via verso il deserto di Damasco, e va’ ad ungere Chazael quale re di Aram, e Jehù figlio di Nimscì quale re di Israele e Eliseo figlio di Sciafat di Avel Mecholà quale profeta tuo successore. E chi si salverà dalla spada di Chazael lo farà morire Jehù, e chi si salverà dalla spada di Jehù lo farà morire Eliseo. Ed Io lascerò in vita in Israele settemila parsone, coloro le ginocchia dei quali non si sono piegate al Ba’al e la bocca dei quali non lo ha baciato.

Una punizione terribile per purificare Israele, come fu la strage dei trentaquattromila al tempo di Pinchas.




domenica 16 giugno 2013

Balak

(Num.22,2-25,9)

Il popolo d’Israele, nella sua marcia verso la terra promessa, era giunto ormai a ridosso del regno di Moab e Balak, re di Moab, che aveva seguito con apprensione le tappe di questa marcia di avvicinamento, era al corrente delle pesanti sconfitte inflitte da Israele agli altri re della regione, che avevano inutilmente tentato di ostacolarlo. Ora che egli vedeva Israele ai confini del suo regno, Balak era molto preoccupato e disse agli anziani di Midian, suo alleato:

Ora questa moltitudine divorerà tutti i nostri dintorni, come il bue divora l’erba del campo.

Balak, ormai consapevole del fatto che le proprie forze erano insufficienti per affrontare e battere un popolo così numeroso ed organizzato, ritenne che fosse a quel punto necessario ricorrere ad un aiuto soprannaturale. Egli inviò un’ambasceria a Bil’am, che viveva in Mesopotamia ed era noto in tutta la regione per la sua capacità di esercitare poteri di profeta e di mago. Così Balak mandò a dire a Bil’am:

Ecco un popolo uscito dall’Egitto, ricopre la superficie del paese. Esso mi sta di fronte. Ora vieni, maledici per me questo popolo, poiché esso è più forte di me. Forse potrò batterlo e scacciarlo dal paese, giacché so che chi tu benedici è benedetto e chi tu maledici è maledetto.

Per poter dare una risposta a questa richiesta di aiuto Bil’am, pur non essendo ebreo, e pur esercitando le arti di mago e profeta, cosa che lo connotava come non credente nel Signore d’Israele, ritenne di dover comunicare proprio con il Signore d’Israele ed il Signore gli disse:

Non andare con loro. Non maledire quel popolo, poiché esso è benedetto.

Bil’am pertanto rispose alla richiesta degli ambasciatori di Balac dicendo:

Andate nel vostro paese, poiché il Signore ha rifiutato di lasciarmi venire con voi.

Ma quando Balak inviò una seconda ambasceria, offrendo ancora maggiori onori a Bil’am , e chiedendo nuovamente di maledire il popolo d’Israele, allora il Signore disse a Bil’am:

Se questi uomini sono venuti ad invitarti, va’ pure con loro, ma dovrai fare solo ciò che Io ti dirò.

Ed è a questo punto della narrazione che ci si presentano già alcune domande, alle quali sentiamo di dover dare risposta prima di andare avanti. Il primo quesito riguarda il perché Bil’am si sia rivolto al Signore degli Ebrei e non ad un’altra divinità, ad esempio quella nella quale lui era credente. Le risposte possibili sono diverse ma quella che mi sembra più razionale è che Bil’am abbia preferito la strada più diretta. Era evidente, per tutti i successi conseguiti lungo il suo cammino, che il popolo ebraico fosse benedetto dal Signore e che la cosa più conveniente per modificare questa sua condizione non fosse certo quella di mettere in competizione tra loro divinità diverse, ma che fosse invece da esplorare presso il Signore d’Israele se la benedizione di cui quel popolo godeva potesse essere sospesa o cessare.

Il secondo quesito è come fosse mai possibile che Bil’am conoscesse il nome del Signore d’Israele e come sia stato poi possibile che il Signore gli abbia parlato. Ricordiamoci, a questo proposito, quante volte abbiamo letto che il Signore disse a Mosè di dire ad Aron. Quindi il Signore, che molto raramente ha parlato persino ad Aron, che pure era il suo Gran Sacerdote, ora, appena interpellato, parla a Bil’am, mago e profeta non ebreo. Credo che la spiegazione non sia tanto quella a posteriori, secondo cui il Signore sia intervenuto, di fatto prendendo Lui l'iniziativa, per dire a Bil’am cosa dovesse fare, perché questo rientrava nel generale disegno divino. No, io penso che la chiave della spiegazione sia a priori, che cioè sia stato Bil’am ad avere assunto l’iniziativa di chiedere al Signore se fosse possibile maledire il Suo popolo. Ma, se è così, significa che Bil’am, pur profeta e mago non ebreo, aveva la capacità di comunicare con il Signore.

Prima di lavarcene le mani, dicendo che si tratta di un racconto fantastico del quale occorre tenere in conto solo il significato, facciamo dei passi intermedi per arrivare a comprendere quale sia il livello massimo di plausibilità razionale del racconto. Il dialogo di Bil’am con il Signore avviene in sogno.
Nel Tanak molti personaggi sognano ed altri interpretano i sogni. I personaggi che sognano non sono solamente ebrei: infatti anche il Faraone sogna, anche Nabucodonosor sogna. Il sogno avviene solitamente in una fase del sonno in cui il controllo sulla nostra anima è attenuato e l’anima ha così la possibilità di mettere in atto le proprie facoltà percettive e comunicative. E’ una fase molto delicata questa che vede l’anima allontanarsi dal corpo per poi ritornarvi al risveglio. La preghiera del risveglio mattinale recitata dagli ebrei dice:

Modè anì, riconosco davanti a te, sovrano, vivente ed eterno, che mi hai reso la mia anima misericordiosamente. Grande è la tua fiducia.

Sappiamo anche che esistono altre modalità, oltre quella naturale del sonno, delle quali i sensitivi possono servirsi per raggiungere lo stato in cui l’anima si allontana dal corpo, aumentando così la propria sensibilità e le proprie percezioni. Pensiamo molto semplicemente ai racconti di quelle persone che, sottoposte ad interventi chirurgici in anestesia totale, hanno vissuto durante l'intervento stati di criticità assimilabili a morte apparente; esse parlano di questo distacco dell’anima dal corpo e delle sensazioni di lieta lucidità e completezza che accompagnano questa esperienza. I sensitivi hanno anche capacità di raggiungere uno stato di trance in autoipnosi, e realizzano esperienze di allontanamento dell’anima, che rendono possibile vivere percezioni altrimenti inarrivabili. Ed allora ecco che, con queste premesse, diventa plausibile il fatto che Bil’am abbia posseduto le capacità necessarie ad interloquire con il Signore d’Israele.

Ma subito dopo la figura di Bil’am subisce nella narrazione un pesante ridimensionamento. Egli infatti, dopo aver ricevuto le parole del Signore, si alzò la mattina, sellò la sua asina e andò con i principi di Moab, senza pronunciarsi su quanto avrebbe fatto e se ciò che avrebbe fatto sarebbe stato conforme o meno a quello che il Signore gli aveva detto. Per ostacolare i proponimenti di Bil’am, che sembravano orientati per la pronuncia della maledizione del popolo d’Israele, il Signore inviò un proprio emissario per fermarlo. Tre volte si presentò l’angelo con la spada sguainata sulla strada percorsa da Bil’am e per tre volte Bil’am non lo vide, mentre lo vide la sua asina, cha scartò bruscamente fuori dal sentiero salvandogli così la vita. Per tre volte Bil’am bastonò la sua asina, rimproverandola per gli scarti improvvisi che aveva compiuto, finché il Signore aprì la bocca dell’asina che disse:

Non sono io la tua asina sulla quale hai cavalcato da quando esisti fino ad oggi? Ho io mai usato di farti così?

A quel punto il Signore aprì gli occhi a Bil’am che finalmente vide l’inviato del Signore, il quale gli disse:

Perché hai battuto la tua asina già tre volte? Ecco io ero uscito per esserti di ostacolo, perché la tua vita è contraria a me. L’asina mi vide e mi scansò già tre volte. Ove non m’avesse scansato, avrei ucciso te e lasciato in vita lei.

L’episodio induce ad una riflessione sulla figura di Bil’am. Il profeta, il mago, conoscitore di uomini e di Dei, che ha la capacità di dialogare con il Signore, si rivela come colui che non appena si allontana dalle istruzioni che il Signore gli ha dato, non vede più e la facoltà di vedere tocca ora alla sua asina, con un significato che da un lato evidenzia le carenze dell’uomo, per quanto dotato egli sia di poteri e facoltà degni di nota, ma dall’altro rende onore all’asina, proprio all’animale tanto utile ma tanto poco apprezzato, all’istinto animale che percepisce ciò che l’occhio umano non vede.

Stavolta Bil’am mostrò di aver compreso le parole del Signore e quando, giunto a Moab, si trovò davanti a Balak gli disse:

Eccomi venuto da te. Ma ora, potrei io dire la minima cosa? Ciò che il Signore mi porrà in bocca quello solo io dirò.

Ed egli terrà fede a quanto il Signore gli aveva detto. Per tre volte Balak tenterà di fargli pronunciare la maledizione per il popolo d’Israele e per tre volte la bocca di Bil’am pronuncerà invece la benedizione del popolo del Signore:

Ma tovù ohalécha Yaakòv, mishkenotécha Israél! Come sono belle le tue tende, Yaakòv, le tue residenze, Israel.

La benedizione di Bil’am viene recitata ogni volta che si entra al Bet Hakenésset in ricordo della distinzione operata dal Signore per il popolo d’Israele tra tutti i popoli della terra.

Balak, sconcertato ed irritato per il fallimento delle aspettative che egli aveva riposto nella venuta di Bil’am, scaccia il mago dalle proprie terre e questi, andandosene, pronuncia la sua ultima profezia a Balak. Verrà un astro da Giacobbe che sottometterà Moab, Edom e Se’ir. Parla quindi della dominazione dell’Assiria, che renderà dura la vita dei popoli sottoposti. La narrazione ci dice anche di un consiglio che Bil’am avrebbe dato a Balak senza però precisare di che si tratti. I Rabbini spiegano che si tratta di un consiglio segreto con il quale Bil’am persuase Balak di corrompere Israele mandando le donne a sedurlo.

Infatti, frutto o meno che fosse del consiglio di Bil’am, il popolo cominciò a fornicare con le figlie di Moab, ed a celebrare ed adorare i loro idoli. Il Signore ordinò allora a Mosè che fossero impiccati pubblicamente tutti i capi del popolo. Mentre venivano giustiziati coloro che avevano seguito il Ba’al di Pe’or, uno dei figli d’Israele presentò una Midianita, della quale era invaghito, ai suoi fratelli ed agli occhi di Mosè e di tutta l’Assemblea.
Pinchas, figlio di El’azar, figlio del sacerdote Aron, si alzò, imbracciò una lancia e trafisse d’un colpo insieme l’uomo e la donna Midianita. Questa esecuzione fu l’ultimo atto della strage dei figli d’Israele, che in tutto causò ventiquattromila morti.


Haftarà di Balak
(Michà 5,4-6,8)

Siamo nell’VIII secolo avanti all’E.V. e il profeta Michà annuncia l’invasione di Israele da parte dell’Assiria, ma, al tempo stesso, anche la salvezza e la liberazione dall’invasore, che verrà inseguito fin nei suoi territori ed annientato.

Quando verrà quel giorno non serviranno armi e cavalli, non servirà avere città fortificate, non serviranno stregonerie e indovini, né idoli e steli, perché il Signore distruggerà tutte queste cose e eserciterà la vendetta con ira e furore contro coloro che non avranno voluto ascoltare.

Ascoltate il Signore, dice il profeta, ascoltate quello che dice:

Popolo Mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho procurato affanno? Fa’ le tue dichiarazioni contro di Me. Perché Io ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, ti ho redento dalla casa degli schiavi e ho mandato davanti a te Mosè, Aron e Miriam. Popolo mio ricorda qual era l’intenzione di Balak re di Moab contro di te e che cosa gli ha risposto Bil’am, figlio di Be’or, quel che è accaduto da Shittim a Ghilgal, affinché tu riconosca i benefici che ti ha arrecato il Signore.

Il popolo allora, udite queste parole, chiede con che cosa debba presentarsi al Signore per fare sacrifici ed espiare le proprie colpe, se debba offrire vitelli, migliaia di montoni, e miriadi di otri di olio d’oliva, o se invece debba presentare in sacrificio i suoi stessi primogeniti.

E la risposta del Signore è:

Uomo, il Signore ti ha detto che cosa è bene, e che cosa Egli richiede da te se non che tu operi con giustizia, ami la bontà e proceda umilmente con il tuo D-o.

domenica 9 giugno 2013

Chuccat

(Num.19,1-22,1)

La Parashà si apre con la mitzvà della “Parà Adumà”, la Vacca Rossa. Questa mitzvà viene definita nel secondo versetto "statuto della Torà". Ricordiamo che “Chukim”, statuti, sono le mitzvòt per le quali non è possibile una spiegazione razionale, in quanto non si riescono a cogliere collegamenti con aspetti di utilità, di igiene, di opportunità, di moralità. Per queste mitzvòt ci si deve limitare a prendere atto che il loro rispetto deve avvenire semplicemente perché così è comandato dal Signore nella Torà.

Il complesso rituale di questo “Chuccat” ha termine con la produzione dell’acqua necessaria per i rituali di purificazione dal contatto con la morte.

Di’ ai figli d’Israele che ti prendano una vacca rossa perfetta, che non abbia alcun difetto, e sulla quale non sia stato messo giogo. La darete al sacerdote El’azar; egli la faccia uscire fuori dall’accampamento e la si scanni in sua presenza. Il sacerdote El’azar prenda del suo sangue col dito, e spruzzi del sangue sette volte in direzione della facciata anteriore della tenda di convegno. Si abbruci la vacca davanti ai suoi occhi: la pelle, la carne, il sangue oltre alle feci. Il sacerdote prenda del legno di cedro, dell’issopo e della lana scarlatta e li getti dentro il fuoco che consuma la vacca. Il sacerdote si lavi le vesti, si lavi il corpo con acqua, e il sacerdote sarà impuro sino alla sera. Colui che abbrucia la vacca si lavi le vesti con acqua e si lavi il corpo con acqua e sia impuro sino alla sera. Un uomo raccolga la cenere della vacca e la deponga al di fuori dell’accampamento, in un luogo puro. Ciò sia per i figli d’Israele da osservare per fare dell’acqua purificatrice. E’ un chattat (cioè è un sacrificio offerto per purificarsi dal peccato). Colui che raccoglie le ceneri della vacca, si lavi le vesti e sia impuro sino alla sera. Ciò sarà statuito per sempre per i figli d’Israele e per il forestiero che soggiorni in mezzo a loro."

Seguono le prescrizioni per il rituale di aspersione con l’acqua della purificazione che verrà eseguito per eliminare l’impurità da chiunque sia venuto a contatto con un morto, nonché per purificare gli oggetti che si trovavano in un ambiente chiuso dove era stato un morto.

Ci si può chiedere come mai proprio questa mitzvà della Vacca Rossa ed i relativi rituali di purificazione dal contatto con la morte siano così particolarmente enfatizzati, ancora più di altri statuti che prevedono mitzvòt di più frequente applicazione, come quelle relative al divieto di consumare contemporaneamente carne e latte, o la proibizione di effettuare incroci tra specie diverse, o ancora il divieto di radersi con una lama, ecc.

Premesso che una completa spiegazione razionale non è possibile proprio a causa, come già detto, della natura stessa degli “Chukim”, dobbiamo constatare come le norme di questa Mitzvà siano così misteriose che, secondo i maestri del Talmud, neanche il saggio re Salomone riuscì a comprenderle. Solamente Moshè, secondo i Saggi, ebbe questo merito, come è detto “a te rivelo la ragione della vacca [rossa]” (Midrash Bemidbàr Rabbà 19, 6). Possiamo però tentare di avvicinarci a cogliere o intuire le ragioni del primato di questa norma. L’essere in vita è il requisito che consente ad una persona di avere rapporti con il sacro, che si concretizzano con l’ingresso al Santuario, con lo studio della Torà, le tefillot di lode rivolte al Signore, l’attuazione delle mitzvòt. Con questi atti, compiuti da vivente, l’individuo tende ad avvicinarsi al Signore, che è la fonte della vita. La morte costituisce quindi un’interruzione di questo rapporto con il sacro: il cadavere è inerte, non può interagire e per questo motivo è sorgente di impurità ed il contatto con esso provoca impurità. In generale ogni contatto con la sfera della morte dà luogo all'impurità. Al contrario quindi un neonato deve considerarsi l’essere più puro che esista, perché in lui è la prima manifestazione della creazione della vita umana. Ecco dunque la ragione del primato di questo statuto che quindi assume la dimensione non di un semplice statuto di purificazione ma di statuto emblematico della Torà in quanto connesso con l’avvicinamento al Signore.

Un altro aspetto di difficile comprensione è la particolarità secondo cui questo rituale, finalizzato alla purificazione di chi è impuro, ha per contro la prerogativa di rendere impuri tutti coloro che hanno a che fare con la sua preparazione. A prima vista questa mitzvà sembrerebbe collidere con ogni logica razionale. Ma, anche per questa particolarità, si può tentare di avvicinarsi ad una spiegazione. Pensiamo ai Cohanìm coinvolti nella preparazione delle acque che venivano spruzzate sulla persona impura per purificarla, che diventavano a loro volta impuri per effetto di quelle stesse acque, con le quali loro purificavano gli impuri! I Cohanìm sono leaders spirituali-religiosi, che vengono a contatto con le impurità del popolo, conoscendole ed, in un certo senso, facendosene carico, assumendo quasi il ruolo di capri espiatori e quindi divenendo a loro volta impuri.

Un leader spirituale è una persona che è disposta ad abbassarsi, a scendere al livello degli altri, pur sapendo che questo potrebbe avere un effetto negativo su di lui. Perché è così? Secondo il Midràsh c’è un nesso con la colpa commessa nell’episodio del vitello d’oro. “Venga la madre (la vacca) ad espiare per il figlio (il vitello d’oro)”. Nello stesso modo, sono i leaders spirituali, i cohanim, a caricarsi dell’onere delle impurità del popolo affinché esso possa riacquistare il proprio benessere spirituale.

La Parashà è densa di altri avvenimenti. Il popolo giunto nel deserto di Tsin nel capomese, si fermò a Cadesh. Qui morì Miriam, quasi in punta di piedi, perché la notizia della sua morte non occupa neanche mezza riga nella narrazione e non dà luogo ad alcun commento. Il popolo era stanco ed era assetato, perché nel deserto non aveva trovato acqua. Ed il Signore allora disse a Mosè:

Prendi la verga e raduna la congrega, tu e tuo fratello Aron, e parlate alla rupe davanti ai loro occhi, che dia la sua acqua. Farai uscire per loro dell’acqua dalla rupe e farai bere la congrega ed il loro bestiame.

Mosè eseguì quanto il Signore aveva comandato, ma non fedelmente, perché egli non parlò alla roccia, come gli era stato comandato, ma la battè con la verga e l’acqua sgorgò.

A causa di questa disubbidienza il Signore dirà poi a Mosè e ad Aron:

Siccome non avete avuto fiducia in Me sì da santificarmi agli occhi dei figli d’Israele, perciò voi non condurrete questa congrega alla terra che ho deciso di dare loro.

Mosè da Cadesh, dove si trovava, mandò ambasciatori al re di Edom, chiedendo il consenso perché potessero, lui e il suo popolo, attraversarne il paese, ma ottenne un fermo rifiuto. Il popolo allora si spostò e giunse al monte Hor. Qui morì anche Aron, ed alla sua morte l’investitura sacerdotale passò a suo figlio El’azar.

Il popolo d’Israele venne attaccato dal re cananeo di Arad, il quale però, per l’intervento del Signore, venne pesantemente sconfitto.

Partito dal monte Hor verso la via del Mar Rosso, per aggirare il paese di Edom, il popolo divenne nuovamente impaziente, cominciando a lamentarsi persino del fatto di doversi nutrire della manna, e disse:

Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per morire nel deserto? Poiché non c’è pane né acqua, e noi siamo stanchi del pane leggerissimo.

Allora il Signore mandò contro il popolo i serpenti, “serafim”, i quali presero a morsicare il popolo e morì molta gente in Israele. Il popolo venne allora da Mosè e disse:

Abbiamo peccato poiché abbiamo parlato contro il Signore e contro te. Prega il Signore affinché tolga da noi il serpente.

Mosè pregò per il suo popolo ed il Signore gli disse:

Fatti un saraf e ponilo su una pertica. Chi sarà stato morsicato lo guarderà e guarirà.

Mosè fece un “saraf” di rame, cioè un serpente di rame, e lo pose su una pertica. Ed avvenne che se un serpente aveva morsicato una persona, questa guardava il serpente di rame e risanava.

Perché la persona risanava guardando il serpente di rame? Il perché appare chiaro se si considera che la figura del serpente è il simbolo dello “yetzer harà”, cioè dell’istinto del male, spesso subdolo, insidioso, nascosto sotto le spoglie della complicità. Abbiamo già imparato a conoscerlo la prima volta nel giardino dell’Eden quale artefice della tentazione che indusse Eva a trasgredire l’ordine del Signore. Ora se l’essere umano riconosce la tentazione del male, se riesce ad individuare il serpente che gli suggerisce di trasgredire la legge del Signore, allora potrà liberare la propria mente ed il proprio cuore dalla seduzione di quella parte di sé che vorrebbe che egli perdesse la fiducia nel Signore. Vedere il serpente di rame significa quindi riconoscere i connotati della tentazione del male.

Gli elementi di questo passo della Parashà hanno molti punti di contatto, sia pure in opposizione, con la narrazione dell'Eden. Nell’ Eden ci troviamo di fronte alla possibilità di mangiare ogni tipo di frutto, tranne quello dell'Albero della conoscenza del bene e del male. Nel deserto abbiamo invece un solo cibo che rende inutile ogni altro cibo, ed è il Signore che lo procura al popolo, che così avrà la possibilità di dedicarsi interamente alla studio della Torà. Perciò i Maestri dicono che la Torà è stata data a coloro che mangiavano la manna. C'è poi la presenza del serpente. Esso è il simbolo, come abbiamo visto dell'istinto del male. Nell'Eden c’era una sola mitzvà: la proibizione di mangiare dall'Albero della conoscenza del bene e del male. È interessante notare anche come l'Eden ed il Deserto siano legati da un rapporto inverso. L'Eden è un giardino, il deserto è un luogo arido. Nel Deserto abbiamo tante mitzvòt ed un solo cibo, nell'Eden tanto cibo ed una sola mitzvà. L’unico cibo del deserto prende il sapore di tutti i cibi, così come l’unica mitzvà dell'Eden racchiude in sé tutte le mitzvòt.

Per effetto della trasgressione del precetto dell'Eden, una nuova presenza, prima sconosciuta, appare nel mondo: la morte. E con la morte, di pari passo, l’impurità. Ciò che riabilita l'uomo dopo il contatto con la morte diventa il “tikun”, la riparazione che si ricollega alla trasgressione originaria di quell’unica mitzvà che reca in sé la potenzialità di tutta la Torà. Questo “tikun” deve essere fatto per mezzo di un “chok”, cioè una mitzvà la cui motivazione non è razionalizzabile. Questo è il “chok” di riparazione dell'intera Torà, racchiusa in quella prima mitzvà dell’Eden. Significa aver riconosciuto che la perdita del giardino dell'Eden, la perdita dell'innocenza, la perdita dell'eternità sono avvenute per aver ceduto all'istinto del male.

Il popolo riprese quindi la marcia e giunse ai limiti dei territori degli Emorrei. Qui furono mandati ambasciatori al loro re Sichon per chiedere di poter attraversare il paese. Ma questi si oppose e dette battaglia. Gli Emorrei furono sconfitti pesantemente ed il loro paese venne occupato dal popolo d’Israele. Stessa sorte toccò ad Og, re di Bascian, che pure era sceso in battaglia contro Israele.



Haftarà di chuccat
(Giu.11,1-11,33)

Le vicende narrate nella Haftarà hanno come premessa quelle che nella parashà riguardano la sorte del paese degli Emorei occupato da Israele.

Gli Ammoniti, succeduti agli Emorei nel loro regno, rivendicavano i loro diritti sui territori occupati da Israele trecento anni prima e per questo motivo mossero in battaglia contro Israele nel paese di Ghil’ad. Gli anziani di Ghil’ad si recarono da Jefte, uomo notoriamente valoroso e capo di una banda di briganti, chiedendogli di combattere contro gli Ammoniti ed offrendogli in cambio di divenire capo di tutti gli abitanti di Ghil’ad.
Jefte accettò e prese dapprima contatto con il re degli Ammoniti, tentando di dissuaderlo dal suo proponimento di muovere guerra ad Israele. Così mandò a dirgli Jefte:

“Ora,dopo che il Signore D-o d’Israele ha scacciato gli Emorei da dinanzi al Suo popolo, Israele, tu vuoi possedere il loro paese? Certamente tu hai il diritto di possedere quello che ti dà in possesso il tuo dio Kemosh, e così noi abbiamo il diritto di possedere il paese di chi il Signore D-o nostro ha scacciato da dinanzi a noi.”

Ma il re degli Ammoniti non desistette dai suoi proponimenti e dette battaglia. Jefte, pervaso dallo spirito del Signore, nel muoversi per contrastare l’attacco fece un voto al Signore dicendo:

“Se mi darai in mano gli Ammoniti, quello che mi uscirà incontro dalla parte di casa mia quando tornerò incolume dal paese degli Ammoniti, sarà consacrato al Signore, ed io lo offrirò in olocausto.”

Jefte attaccò gli Ammoniti nel loro paese e li sconfisse, secondo la volontà del Signore, in venti loro città ed essi furono sottomessi ai figli d’Israele.

domenica 2 giugno 2013

Kòrach

(Num.16,1-18,32)

Il viaggio verso la terra promessa era stato travagliato già altre volte da malcontento, sfiducia e ribellioni, ma questa volta la contestazione, capeggiata dal levita Kòrach affiancato da Dathan e Aviram ed, inizialmente anche da On, si era espressa in modo argomentato, prendendo di mira l’autorità stessa di Mosè ed Aron, ed era sostenuta da duecentocinquanta rappresentanti autorevoli delle tribù.

Si noti per inciso che il fatto che Kòrach fosse un Levita è espresso dalle stesse radici del suo nome, che sono “qof-resh-chet”, le medesime di radersi i capelli (cnfr. Lev.21,5), che danno luogo ad una immagine di testa rasata, prerogativa appunto dei Leviti per i riti di purificazione.

La contestazione di Kòrach, insomma, va a connotarsi come quello che noi oggi chiameremmo un tentativo di colpo di stato, più che come una sommossa popolare. Ci sono tutti gli elementi del colpo di stato e cioè un’organizzazione dei congiurati, un’ideologia dichiaratamente egualitaria, come è giusto che sia quando si ritiene che ci sia un tiranno da eliminare, sostenuta da una plausibile interpretazione delle parole del Signore, e con la precisa individuazione a priori dei soggetti da abbattere, e cioè i due fratelli Mosè e Aron.

L’argomentazione a sostegno della contestazione viene espressa dai ribelli con queste parole:

Vi basti! Tutta la comunità sono tutti santi e in mezzo a loro è il Signore, e perché vi elevate al di sopra della congrega del Signore?

A questa accusa a lui rivolta di voler esercitare il proprio potere personale sul popolo Mosè ribattè sdegnato, dicendo che l’indomani il Signore avrebbe fatto conoscere chi fosse il prescelto. Cercò inoltre Mosè di rammentare a Kòrach ed ai Leviti che essi non erano stati trascurati ma che al contrario il Signore aveva concesso loro l’onore di averli designati al servizio del Tabernacolo. Mandò anche a chiamare Dathan e Aviram per avere con loro un colloquio che potesse distoglierli dal loro proponimento, ma da loro ebbe la risposta più aspra, perché essi dissero:

Non verremo. Ti par poco di averci fatto salire da una terra stillante latte e miele per farci morire nel deserto, che vorresti ancora signoreggiare su di noi? Tu non ci hai portato in un paese stillante latte e miele per darci un possesso di campi e di vigne. Vorresti forse accecare gli occhi di questa gente? Noi non verremo.

Ci troviamo quindi davanti a due diverse motivazioni della ribellione, infatti mentre le parole di Kòrach esprimono la contestazione della leadership rappresentata da Mosè ed Aron, la posizione di Dathan ed Aviram è invece di sfiducia nella riuscita dell’impresa di poter giungere alla terra promessa e di nostalgia per la terra d’Egitto. Le due posizioni sono entrambe in contrasto con la volontà del Signore e quindi entrambe saranno condannate ed i loro sostenitori saranno puniti con la morte.

Si potrebbe operare una distinzione tra queste due posizioni, e potrebbe, a prima vista, ritenersi molto più grave quella di Dathan ed Aviram rispetto a quella di Kòrach, potendo apparire la colpa dei primi due doppia rispetto a quella dell’ultimo. Si potrebbe dire infatti che Dathan ed Aviram non solamente hanno perso la fiducia nella conduzione da parte dei due fratelli, ma hanno perso anche, e soprattutto, la fiducia nella possibilità di giungere alla terra promessa dal Signore.

E’ da tener presente infatti che, mentre l’obiettivo del viaggio non avrebbe potuto venir meno perché era stato promesso dal Signore, i due fratelli condottieri, invece e in linea ipotetica, avrebbero potuto essere sostituiti, anche in considerazione che i loro comportamenti in occasione dell’episodio del vitello d’oro non apparivano esenti da possibili critiche. Ricordiamoci che Aron non si era opposto, come avrebbe dovuto, alla richiesta del popolo di fabbricare l’idolo e ricordiamoci anche che Mosè, quando ridiscese dalla montagna, ordinò che fossero uccisi tutti coloro che nell’occasione non si erano mantenuti fedeli al Signore, e che quel giorno morirono perciò tremila persone, per mano dei leviti oltre quelli falcidiati dalla pestilenza, mentre a suo fratello Aron non toccò nell’occasione pena maggiore di un rimbrotto.

Però Kòrach, nel contestare il primato di Mosè ed Aron, non fa nessun riferimento ad errori commessi dai due fratelli, ed avrebbe potuto farlo come abbiamo appena evidenziato, e la sua critica in questo caso avrebbe assunto i connotati di una critica al loro operato umano, alla loro inadeguatezza nell’eseguire il disegno divino. Kòrach invece mette in dubbio la legittimità del primato loro conferito, perché a suo dire, e diversamente da quanto stabilito fin qui dal Signore, tutto il popolo è santo, e non è perciò legittimo che esistano posizioni di preminenza .

Ma a tutte queste possibili disquisizioni pose termine il giudizio del Signore, per cui la terra si aprì ed inghiottì Kòrach, Dathan ed Aviram insieme alle loro famiglie. Un fuoco inoltre divorò i duecentocinquanta notabili che avevano sostenuto la rivolta.

Il popolo non comprese e non accettò la punizione, che il Signore aveva impartito, e ne dette la colpa a Mosè ed Aron. L’ira del Signore si accese nuovamente e si abbattè sul popolo e quando finalmente cessò, per l’espiazione compiuta da Aron, si contarono quattordicimilasettecento morti oltre quelli per i fatti di Kòrach.

A questo punto, allo scopo di far conoscere chi fosse prescelto per le funzioni sacerdotali, il Signore disse a Mosè di porre nella tenda della radunanza davanti alla Testimonianza dodici verghe, una per ogni tribù, e quella che fosse fiorita avrebbe indicato la scelta operata dal Signore. Così fu fatto ed il giorno dopo si vide che era fiorita la verga di Aron.

Qui finalmente il Signore, che generalmente parla solo a Mosè, parlò direttamente ad Aron ed a lui dette le istruzioni per il servizio di sacerdozio al Santuario, servizio che egli avrebbe dovuto prestare con i suoi figli, e con l’aiuto dei Leviti, assegnati al servizio della tenda della radunanza. Vennero definite inoltre le spettanze sulle offerte presentate dal popolo in sacrificio, tenendo presente che i Leviti non avevano proprietà terriere e vivevano quindi dei proventi loro assegnati dai sacrifici.

Ma anche i Leviti erano tenuti alla presentazione del loro sacrificio al Signore ed a questo proposito il Signore disse a Mosè di parlare così ai Leviti:

Quando prenderete dai figli d’Israele la decima che Io ho dato a voi da loro in retaggio, preleverete da quella il tributo al Signore: decima dalla decima. Il vostro tributo vi sarà calcolato come il grano dall’aia e come il vino dal torchio. In tal modo offrirete anche voi un tributo al Signore da ogni vostra decima, che prenderete dai figli d’Israele e da essa darete un’offerta del Signore al sacerdote Aron. …



Haftarà di Kòrach
(I Sam.11,14-12,22)

Anche questa è una storia di contestazione, una contestazione avvenuta secoli dopo quella di Kòrach e che ora riguarda Samuele, giudice e profeta. E’una contestazione questa che non parte da una élite, come era avvenuto per quella di Kòrach, ma ha matrice più ampiamente popolare. Israele si trovava circondato da popoli ostili con i quali era ripetutamente in conflitto. Siamo al tempo dei Giudici, che furono magistrati con ampi poteri civili e militari, ai quali in tempo di guerra era affidato il compito di guidare il popolo d’Israele nei conflitti sostenuti con gli altri popoli.

In queste guerre con i popoli vicini Israele aveva subito ripetute sconfitte sicché aveva preso corpo il convincimento che ciò fosse da attribuirsi al fatto che gli altri popoli erano guidati, diversamente da Israele, da dei re. Il popolo chiese allora a gran voce al vecchio Samuele di proclamare re Saul.
Dopo un vano tentativo di dissuadere il popolo da questo proponimento, rammentando loro che Israele aveva già un re e che questi era il Signore e che quindi nominare ora un uomo a ricoprire questo ruolo costituiva grave peccato, alla fine Samuele cedette ed unse Saul re d’Israele.

E disse Samuele al popolo:

Ma il Signore D-o vostro è il vostro re! Comunque ora avete il re che avete scelto dopo di averlo chiesto; vedete, D-o vi ha dato un re.

Vedete, siamo oggi nella stagione della mietitura del frumento; io invocherò il Signore perché mandi tuoni e pioggia, cosicché voi, ciò vedendo,riconosciate che avete commesso una gran colpa davanti al Signore richiedendo per voi un re.

E quando ciò avvenne ed il popolo impaurito riconobbe di aver peccato e gli chiese di intercedere presso il Signore, allora Samuele disse:

Non temete, voi avete bensì commesso questa grave colpa, ma ora non deviate dalla strada del Signore, e servitelo con tutto il vostro cuore.

Deviare, prosegue Samuele, li avrebbe condotti a servire altri dèi ed a perdere la propria salvezza.

Invece il Signore non abbandona il Suo popolo in grazia del Suo grande nome, dacché il Signore ha voluto fare di voi il Suo popolo.