domenica 29 luglio 2012

Vaetchanan

(Deut.3,22-7,11)

La narrazione di Mosè prosegue col rammentare quando, alle soglie della terra promessa, egli chiese al Signore di consentirgli di passare il Giordano e vedere la buona terra che era al di là, i bei monti ed il Libano. Ma il Signore si adirò, “per colpa vostra” disse Mosè rivolto al popolo, ma sapeva invece che la causa del diniego era da attribuire, alla sua disubbidienza, quando egli non eseguì il comandamento del Signore, che gli aveva detto di far sgorgare l’acqua parlando alla roccia e non battendola con il bastone, come invece egli fece. Se avesse parlato alla roccia, avrebbe potuto dire che il prodigio che egli comandava era volontà del Signore e non opera sua e che il Signore, per suo tramite, si serviva della parola, così come era avvenuto per la creazione, quando ogni giorno Egli aveva fatto precedere la parola all’atto creativo. Dunque il Signore confermò a Mosè che egli non avrebbe passato il Giordano e che invece Giosuè sarebbe stato alla testa del popolo nella conquista della terra promessa.

Mosè esortò Israele ad ascoltare statuti e leggi che egli insegnava, affinché potessero pervenire a possedere il paese che il Signore intendeva dar loro:

Non aggiungete niente a quanto io vi comando e non togliete nulla osservando i precetti del Signore vostro Dio, che io vi comando.

Rammentò Mosè ad Israele il giorno in cui il popolo si presentò al Signore, davanti al monte Chorev:

Egli vi espose il Suo patto che vi comandò di eseguire: dieci comandamenti che Egli scrisse su due tavole di pietra. In quel medesimo tempo il Signore mi comandò di insegnarvi statuti e leggi perché li mettiate in pratica nel paese che voi state per cominciare a conquistare.

Poiché al monte Chorev, quando fu udita la parola del Signore, non fu vista alcuna immagine, per questo motivo il popolo non avrebbe dovuto fare alcuna raffigurazione, né di esseri umani, né di animali di qualsiasi tipo, né tanto meno avrebbe adorato il sole, la luna e le stelle della volta celeste.

Io chiamo oggi a testimoni il cielo e la terra che se quando genererai dei figli e avrai dei nipoti e sarete divenuti vecchi nel paese e commetterete delle colpe facendovi immagini riproducenti qualsiasi cosa e farete ciò che è male agli occhi del Signore Iddio facendolo adirare, in breve sparirete da quella terra, per possedere la quale voi passaste il Giordano; non prolungherete i vostri giorni su di essa perché sarete distrutti. Il Signore vi disperderà fra i popoli e rimarrete una minoranza presso le nazioni verso le quali il Signore vi avrà condotto. Là voi servirete degli dèi opera delle mani dell’uomo, di legno e di pietra, che non vedono e non odono, non mangiano e non odorano. Di là voi ricercherete il Signore tuo Dio e tu Lo ritroverai quando Lo ricercherai con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima. Quando in avvenire ti troverai angustiato essendoti capitate tutte queste vicende, tornerai al Signore tuo Dio ed ascolterai la Sua voce. Siccome il Signore tuo Dio è un Dio pietoso, non ti abbandonerà, non ti distruggerà e non dimenticherà il patto che giurò ai tuoi padri.

Qui si dice che se Israele farà adirare il Signore, per aver smarrito la fiducia in Lui, allora Israele sarà distrutto. Ma la distruzione che il Signore infliggerà al Suo popolo per punirlo dei suoi peccati non sarà la cancellazione dell’esistenza del popolo, non sarà la morte di tutto il Suo popolo, sarà invece la dispersione, la schiavitù, l’umiliazione, che durerà fintantoché Israele non si renda conto dei propri peccati e di quanto abbia perduto con l’allontanamento dal Signore. Allora Israele potrà ancora ritrovare il Signore, se lo cercherà con tutta l’anima e con tutto il cuore. Ed il Signore sarà pietoso verso Israele e non dimenticherà il patto giurato con i suoi padri.

Il popolo d’Israele durante i quarant’anni del suo peregrinare dalla terra d’Egitto fino alla terra promessa ha veduto il verificarsi di numerosi episodi di eresia, ribellione e sfiducia nella parola del Signore, ed ha visto morire i colpevoli numerosi, tremila, trentamila, ventiquattromila, per l’ira del Signore. Ma l’intero popolo no, l’intero popolo non sarà sterminato perché il Signore terrà fede alla parola data.

Mosè disse del patto stabilito dal Signore sul monte Chorev e ripetè al popolo le parole pronunciate dal Signore, che esprimono il Decalogo, le dieci Parole, i dieci Comandamenti:

1) Io sono il Signore tuo Dio, non avrai altri dèi.
2) Non fare e non venerare alcuna immagine.
3) Non pronunciare il nome del Signore tuo Dio invano.
4) Santifica il giorno del Sabato.
5) Onora tuo padre e tua madre.
6) Non uccidere.
7) Non commettere adulterio.
8) Non rubare.
9) Non fare falsa testimonianza.
10) Non desiderare né la moglie, né i beni di altri.


Mosè proseguì esortando il popolo ad ascoltare ed osservare gli statuti ed i precetti allo scopo di poter vivere felicemente nella terra stillante latte e miele:

Ascolta Israele, il signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore, le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le legherai per segno sul tuo braccio e saranno come frontali fra i tuoi occhi e le scriverai sugli stipiti delle tue case e delle porte della città.

Sono queste le parole con le quali inizia la preghiera dello Shemah, che ogni ebreo recita almeno due volte al giorno e da queste parole traggono origine anche i Tefillin, che si legano al braccio e sulla fronte, e le Mezuzoth affisse sulla sinistra degli stipiti delle porte.

Disse infine Mosè al popolo che, quando sarebbero entrati nella terra promessa e l’avrebbero posseduta, sconfiggendo con l’aiuto del Signore le popolazioni ivi esistenti e ben più numerose ed agguerrite di loro, avrebbero dovuto distruggerle completamente, senza scendere a patti, senza consentire matrimoni misti. Gli altari, le immagini, le steli e i legni consacrati di quelle popolazioni avrebbero dovuto essere spezzati e bruciati nel fuoco.

La preoccupazione è sempre quella: che il popolo, ancora una volta, possa essere contaminato dall’idolatria praticata da quelle popolazioni. Si parla di distruzione di questi popoli e poi sappiamo che ciò non avvenne completamente, si parla di vietare i matrimoni misti ed invece sappiamo che dalla cananea Tamar, unitasi a Giuda, discenderà la stirpe di David. Allora questa distruzione va intesa non come eliminazione indiscriminata, ma circoscritta invece a chi persevera nella professione dell’idolatria e non a chi si dichiara disposto ad abbandonarla per unirsi al Signore ed al suo popolo.



Haftarà di Vaetchanan
(Is.40,1-40,26)

Il sabato in cui si legge la parashà di Vaetchanan è sempre il primo sabato dopo il 9 di Av. Per questo motivo le Haftarot di questo sabato e dei sei sabati successivi non trattano argomenti riconducibili alle rispettive parashot, ma hanno invece contenuto consolatorio, e sono tratte tutte dalla seconda parte del libro di Isaia, nella quale è annunciato il risorgimento di Israele dopo l’esilio.

Consolate, consolate il Mio popolo, dice il vostro D-o. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che è compiuto il tempo del suo servizio, che è espiato il suo peccato perché essa ha ricevuto dalle mani di D-o il doppio del corrispondente a tutti i suoi peccati.

domenica 22 luglio 2012

Tishà Beav

Il nove di Av, Tisha Beav, è il giorno di lutto per eccellenza del calendario ebraico. La tradizione colloca in questo giorno sia la distruzione del primo Tempio, avvenuta nell’anno 586 a.e.v. ad opera dei Babilonesi, sia la distruzione del secondo Tempio, avvenuta nell’anno 70 e.v. ad opera dei Romani. A questa data vengono collegate anche altre calamità che hanno colpito il popolo ebraico nella diaspora, compreso l’editto del 1492 di espulsione dalla Spagna (v. Arthur Green, Queste sono le parole, p.328), come pure il rogo dei libri talmudici avvenuto a Parigi nel 1244. Si ricordano anche, oltre la distruzione delle comunità sefardite di Andalusia ed Aragona, anche le distruzioni delle comunità aschenazite nella Germania e nella Francia (v. Yeshayahu Leibowitz, Le feste ebraiche, p. 104).

E’ una giornata di digiuno totale, dal crepuscolo della sera precedente fino al calare della sera, per un totale di venticinque ore. La sera la Sinagoga è oscurata e la Comunità siede su panche basse o sul pavimento. Vengono intonati i versi del rotolo delle “Lamentazioni” di Geremia, ai quali segue la lettura delle “kinot”, lamentazioni funebri per lo più di epoca medievale.

La mattina seguente proseguono le lamentazioni funebri e non si indossano i “tefillìn” in segno di estrema angoscia. L’obbligo quotidiano di indossarli verrà rispettato solamente nel pomeriggio per il servizio di “Minchàh”.

Le “Lamentazioni” di Geremia sono contenute nel terzo libro delle Meghilloth, che prende il nome di “Echà” dalla prima parola del testo, che significa “Come mai”. Si tratta di una raccolta di elegie ispirate al disfacimento del Regno di Giuda ad opera dei Babilonesi, e quindi alla distruzione del Tempio di Gerusalemme ed all’esilio del popolo ebraico.

Questi avvenimenti catastrofici sono trattati, spiegati e commentati non, come faremmo noi al giorno d’oggi, sulla base di considerazioni politiche, economiche e militari, bensì conformandosi esclusivamente a considerazioni di tipo religioso. Ecco che allora non si fa un ragionamento, che parta dall’esistenza da sempre nella regione di due grandi potenze, che si contendevano la supremazia, cioè l’Egitto e Babilonia, in mezzo alle quali la terra d’Israele, che potenza non era, era esposta a subire le pressioni, le scorrerie ed il vassallaggio imposti dai due imperi.

Si dice invece che nel mondo tutto avviene, sia nel bene, sia nel male, per volontà del Signore, connotandosi gli avvenimenti come premio o come punizione per il popolo d’Israele in relazione all’osservanza delle leggi da Lui impartite. Perciò la sventura della catastrofe, verificatasi con la distruzione del Tempio e la sconfitta e dispersione di Giuda è dovuta alla punizione divina inflitta al popolo ebraico a causa dei suoi peccati.

E’questa una visione completa dal punto di vista religioso, ma fatalmente irrealistica dal punto di vista storico e politico, giacché i veri protagonisti della Storia, vengono trattati qui come comparse incidentali, strumentali, che hanno la funzione di contribuire alla realizzazione degli avvenimenti che acquisiscono significato esclusivamente nel rapporto tra il Signore ed il popolo ebraico. Questa è la visione che chiude la porta al mondo, ma che nel contempo protegge da esso, e quella stessa visione che ritroviamo nell’istituzione del ghetto, luogo dove gli ebrei venivano rinchiusi dai gentili, ma che era anche il luogo dal quale, reciprocamente, gli ebrei escludevano i gentili. E’ la teoria delle due chiavi: una era quella da fuori usata dai gentili; l’altra era quella da dentro usata dagli ebrei.

Ma è proprio questa visione strettamente religiosa è uno dei fattori che hanno consentito, nell'ambito della tutela della tradizione, la sopravvivenza della peculiare identità ebraica nella diaspora. Avvenne invece, come sappiamo, che una setta ebraica deviante, che assumerà poi il nome di cristianesimo, scardinasse questa chiusura e conferisse alla concezione di popolo eletto connotati universali, sia dal punto di vista geografico, sia da quello etnico.

Torniamo però alle Lamentazioni ed estraiamo quindi dalla loro lettura, non la Storia, come siamo abituati noi a intenderla, ma il significato religioso che risiede nel rapporto tra il Signore e il popolo, tra il Signore e l’essere umano.

Un grave peccato commise Gerusalemme, perciò è diventata immonda: tutti coloro che l’onoravano ora la disprezzano, perché han visto le sue vergogne; anch’essa sospira e si volta indietro. La sua impurità e persino nei lembi delle sue vesti, non si era preoccupata della sua fine e cadde in modo sorprendente; nessuno ora la consola.” (Lam.1,8)

Il Signore divenuto nemico, distrusse Israele, atterrò tutti i suoi palazzi, abbattè le sue fortificazioni e fece dilagare in mezzo alla figlia di Giuda il pianto e la disperazione. Devastò la sua capanna come quella d’un orto; distrusse il luogo delle riunioni, il Signore fece dimenticare in Sion il giorno festivo e il sabato e rigettò nel furore della Sua ira re e sacerdote. Il Signore abbandonò il Suo altare, sprezzò il Suo santuario, consegnò le mura dei suoi palazzi in mano dei nemici; questi levarono la voce nella casa del Signore come in giorno di festa. Il Signore aveva deciso di distruggere le mura della figlia di Sion: prese quindi il regolo, non trattenne la mano dal distruggere, ridusse in luttuose condizioni bastioni e mura, che rimasero distrutti insieme. Le sue porte s’affondarono nella terra, Egli schiantò e spezzò le sue sbarre; il suo re e i suoi principi sono esuli tra le genti, non c’è più insegnamento sacerdotale e i profeti non trovano più visioni da parte del Signore.” (Lam. 2, 5-9)

Il Signore fece ciò che aveva deciso, mise in atto la Sua parola che aveva decretato da tempo, distrusse senza pietà, fece gioire il nemico sopra di te, esaltò la forza dei tuoi avversari.” (Lam. 2, 17)

Questi passi confermano l’interpretazione religiosa degli accadimenti: la catastrofe è avvenuta a causa dei peccati del popolo ebraico, ma non solo essa è avvenuta per volontà del Signore, ma è il Signore stesso che ha distrutto le mura di Gerusalemme, servendosi come proprio strumento dei Babilonesi, è il Signore che ha abbandonato il Suo altare ed il Suo Santuario. Seguono poi dei passi dove si esprime la desolazione per l’abbandono da parte del Signore e si comincia ad invocarne il ritorno.

C'è anche un brano di massima crudezza nel quale si narra dell’abiezione durante l’assedio di Gerusalemme quando si verificarono atti di cannibalismo, che videro le madri nutrirsi delle carni dei propri figli. Il Signore adirato diede alle fiamme Sion distruggendola fino alle sue fondamenta e disperse con gli abitanti, re, falsi profeti e sacerdoti, resi impuri dal sangue innocente di cui si erano macchiati.

Togliesti la pace all’anima mia ed io dimenticai che cosa è il bene. Dissi: è perduta la mia forza, la speranza mia nel Signore.” (Lam. 3, 17)

Chi mai stabilì una cosa e questa avvenne, senza che il Signore l’avesse comandata? Dall’eccelso non provengono forse il male e il bene? Perché dunque l’uomo si lamenta finché vive, ciascuno per i castighi dei suoi peccati?” (Lam. 3, 37-39)

Ti ammantasti d’ira e ci perseguitasti: uccidesti senza pietà. Ti copristi di una nube affinché non Ti giungesse la preghiera. Ci ponesti come spazzatura e rifiuto in mezzo ai popoli.” (Lam. 3, 43-45)

Invocai il Tuo nome, o Signore, dalle profondità del pozzo, e Tu hai certo sentito la mia voce; non chiudere l’orecchio ai miei sospiri e alle mie grida! Siimi vicino nel giorno in cui Ti invoco; dimmi: Non temere! Difendi, o Signore, la mia causa, rendimi la mia vita!” (Lam. 3, 55-58)

Mani di donne pietose fecero cuocere i propri figli, questi servirono loro da cibo durante la rovina della figlia del mio popolo. Il Signore diede sfogo alla Sua ira, riversando il Suo acceso furore, appiccò a Sion il fuoco che divorò le sue fondamenta. Né i re della terra, né tutti gli abitanti del mondo avrebbero mai creduto che il nemico, l’avversario sarebbe entrato per le porte di Gerusalemme. Ma questo avvenne per i peccati dei suoi falsi profeti, per le colpe dei suoi sacerdoti che avevano versato in mezzo ad essa sangue innocente. Essi barcollavano come ciechi per le strade, insozzati di sangue tanto che non si potevano toccare le loro vesti. Scostatevi!: un impuro! Si gridava. Scostatevi, scostatevi, non toccate!” (Lam. 4, 10-15)

La narrazione si conclude con la proclamazione della fiducia nel Signore e l’invocazione per il ritorno al Signore, così come fu un tempo.

Ricorda, o Signore, ciò che è accaduto a noi, osserva, guarda la nostra vergogna! Il nostro retaggio è passato nelle mani di stranieri, le nostre case sono in mano di estranei. Noi siamo rimasti orfani, senza padre, le nostre madri sono come delle vedove. Beviamo la nostra acqua pagandola, la nostra legna ci viene a caro prezzo. Ci perseguitano con un giogo sul collo, siamo affranti, non c’è dato di riposare. All’Egitto, all’Assiria stendemmo la mano per poterci saziare di pane.” (Lam. 5, 1-6)

Tu, o Signore, resti per sempre, il tuo trono esiste per tutte le generazioni. Perché ci vorrai dimenticare per sempre, abbandonarci per lungo tempo? Facci ritornare, o Signore, a Te ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come in antico. Poiché ormai ci hai veramente rigettato e ti sei grandemente sdegnato contro di noi.” (Lam. 5, 19-22)

La narrazione della meghillah, come abbiamo visto, non mette in risalto la sconfitta subita come opera di Babilonia, al contrario Babilonia ha una connotazione, come abbiamo visto, strumentale. La catastrofe è originata dal peccato e si realizza per l’abbandono del Signore da parte di Israele. Le conseguenze del peccato e dell’abbandono del Signore sono la caduta di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. Il rimedio, allora, non è la riconquista di Gerusalemme e la ricostruzione del Tempio, bensì la purificazione ed il ritorno al Signore, che, una volta attuati, porteranno come conseguenza la riconquista di Gerusalemme e la ricostruzione del Tempio.

Devarim

(De.1,1-3,22)

Giunto alle soglie della terra promessa Mosè, secondo quanto il Signore gli aveva comandato, rivolse al popolo un discorso, con il quale tracciò il riepilogo delle vicende che avevano vissute lungo tutto il percorso dell’esodo a partire dall’uscita dall’Egitto.

Rammentò in particolare la decisione della nomina dei giudici e quanto ad essi egli ebbe a raccomandare:

Ascoltate le questioni che sorgeranno fra i vostri fratelli e giudicate con giustizia fra un individuo ed il proprio fratello o uno straniero. Non abbiate riguardi nel giudicare, porgete ascolto al piccolo come al grande, non abbiate paura degli uomini poiché la giustizia appartiene a Dio. La cosa che vi sembrerà al di sopra delle vostre possibilità la sottoporrete a me ed io la ascolterò.

Parole sono queste. Parole che lette d’un fiato sembrano così ovvie da non meritare un attimo di riflessione. Siamo talmente avvezzi ad esercitare l’ingiustizia, o a convivere con essa, da arrivare ad innescare un meccanismo automatico di salvaguardia, che nega che nel nostro agire si sia mai verificata ingiustizia. Eppure ingiustizia è la nostra supponenza, ingiustizia è il privilegio del nostro egoismo, ingiustizia è il non ascolto dell’altro, ingiustizia è il disprezzo dell’altro, ingiustizia è il non amore.

Ingiusti perché aridi, ciechi, sordi. Oppure ingiusti perché intimoriti, plagiati, perché abbiamo rinunciato ad essere padroni del nostro pensiero e delle nostre azioni. Perché abbiamo perduto il senso della nostra responsabilità, quella responsabilità, che fa di noi degli esseri umani e non delle belve.

Potremmo essere ingiusti anche per simulazione, per recita, per impersonare una figura che stimiamo forte a confronto con la debolezza e l’insignificanza che inconsapevolmente riteniamo sia la nostra reale connotazione.

La giustizia, disse Mosè, appartiene a Dio ed a Lui renderemo conto, non agli uomini.

Proseguendo nella narrazione Mosè ricordò anche la mancanza di fiducia che il popolo ebbe a manifestare, al ritorno degli esploratori ed ascoltando il loro resoconto. Ciò fu causa della punizione divina, che portò al protrarsi della peregrinazione nel deserto per altri quarant’anni ed all’esclusione di un’intera generazione dall’accesso alla terra promessa. Fu mancanza di fiducia, fu scoramento, fu fiacchezza. Come poteva un popolo così svuotato e demotivato conquistare un paese, senza credere né nelle proprie forze, né nel sostegno del Signore? La storia del genere umano, non solo quella del popolo ebraico, è costellata di guerre sante, dove la presenza di Dio al proprio fianco è d’obbligo e genera il fanatismo che centuplica le forze e che conduce alla vittoria.

Rammentò quindi Mosè la fase finale di avvicinamento alla terra promessa e gli attraversamenti dei territori dove erano insediati altri popoli. Attraversamenti richiesti generalmente con parole di pace, come furono quelle rivolte al re di Cheshbon:

Lasciami passare attraverso la tua terra, soltanto sulla strada io camminerò, non devierò né a destra né a sinistra; tu mi venderai per denaro il cibo ed io mangerò; acqua mi darai per denaro ed io berrò; soltanto lasciami passare a piedi, come fecero per me i figli di Esaù che abitano in Se’ir, ed i Moabiti che stanno in ‘Ar, fino a che io passi il Giordano, dirigendomi verso la terra che il Signore Dio nostro dà a noi.

Era un atteggiamento estremamente rispettoso della proprietà e della sovranità altrui, che trova le sue radici nei comportamenti dei popoli di pastori, come fino a quel momento era il popolo ebraico, nei riguardi dei territori dei popoli agricoltori, nei quali è d’obbligo non produrre danni e quindi camminare sulle strade, facendo attenzione a non invadere i campi adiacenti.

Anche questo è un insegnamento purtroppo in gran parte perduto al giorno d’oggi e nel nostro paese, dove si deve constatare che la cosa comune è un concetto generalmente non percepito e la cosa dell’altro, se non vigilata, è esposta al danneggiamento.

Infine la narrazione si riferisce all’assegnazione alle tribù di Ruben, Gad e parte di quella di Manasse dei territori ad est del Giordano ed a ciò che Mosè comandò loro:

Il Signore vostro Dio vi ha dato in possesso questa terra, voi passerete armati all’avanguardia dei vostri fratelli figli d’Israele, tutti uomini valorosi. Le vostre donne ed i vostri figli ed il vostro bestiame soltanto (io so che avete gran numero di bestiame) rimarranno nelle città che io ho assegnato a voi, fino a che il Signore vostro Dio concederà quiete ai vostri fratelli come a voi ed anche essi possederanno il territorio che il signore vostro Dio è per dare a loro al di là del Giordano. Allora tornerete ognuno alla proprietà che io vi ho assegnato.

Il comportamento di queste due tribù e mezza sostanzia la prova che il popolo non è più soltanto un insieme di tribù ma costituisce ormai una nazione e che la solidarietà nazionale ha assorbito gli interessi delle singole tribù. Questo popolo litigioso e contestatore nei momenti nodali della sua storia ritrova la sua unità e la coscienza di costituire questa unità.



Haftarà di Devarim
(Is.1,1-1,27)

Nella settimana che segue la lettura della parashà di Devarim cade il 9 di Av, Tish’àh be-Av,che è giorno di lutto e di digiuno per Israele. Infatti la tradizione vuole che in questo stesso giorno siano avvenute sia la distruzione del primo Tempio nel 586 a.e.v. ad opera dei Babilonesi, sia la distruzione del secondo Tempio nel 70 e.v. ad opera dei Romani. Per questo motivo viene letta una Haftarà che contiene rimproveri e minacce.

La vostra terra è una desolazione, le vostre città sono incendiate, quanto al vostro paese, stranieri ne godono il prodotto sotto i vostri occhi: esso è una desolazione, come luogo sconvolto da stranieri.

Che me ne faccio Io dei vostri molti sacrifici? Dice il Signore. Sono sazio di olocausti di montoni e di adipe di animali ingrassati; non desidero oltre sangue di tori, di agnelli e di capri.

Non continuate a recarmi offerte vane, incenso che Mi è in abbominio, a indire riunioni festive nel capomese e nel sabato.

Su, venite a Me e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati sono come stoffa tinta di scarlatto, potranno divenire bianchi come la neve, anche se sono rossi come porpora, potranno divenire come lana. Se acconsentirete ed ascolterete, godrete dei buoni prodotti del paese. Ma se ricuserete e disubbidirete, sarete divorati dalla spada. Sì, perché è la bocca del Signore che ha parlato.

Come mai si è trasformata in una prostituta la città prima onesta? Era piena di giustizia, il diritto vi aveva stabile dimora, ed ora omicidi.

Ricostituirò i tuoi giudici come prima, i tuoi consiglieri come da principio, e dopo di ciò tu sarai chiamata città della giustizia, metropoli onesta. Sion sarà redenta con il diritto, e i suoi abitanti con la giustizia.

domenica 15 luglio 2012

Masè

(Num.33,1-36,13)

Siamo arrivati al termine del libro dei Numeri ed il capitolo 33 elenca tutte le tappe dei viaggi e delle soste del popolo ebraico da quando esso partì da Ra’meses, fino alle soglie della terra di Canaan. E’ per ordine del Signore che Mosè ha messo per iscritto l’elenco delle tappe di un itinerario, che per essere percorso ha richiesto quarant’anni di tempo: la vita di un’intera generazione.

Ci si può chiedere a cosa serva il lungo elenco di nomi delle località che hanno costituito le tappe, località di arrivo e di partenza del lungo viaggio. Sono paletti, sono le pietre miliari, che consentono di mantenere la concretezza del viaggio, che associano il racconto alla geografia del territorio, che faranno percepire, anche in futuro, quando i ricordi tenderanno a sfumare, che il viaggio non è stato un sogno, ma un’avvenimento reale, che le località toccate sono state località reali, che semmai capitasse di rivederle potranno richiamare alla mente l’epopea vissuta con una connotazione storica e non di leggenda.

Il capitolo 33 si conclude con le parole che il Signore disse a Mosè:

Quando avrete oltrepassato il Giordano e sarete entrati nella terra di Canaan, scaccerete dinanzi a voi tutti gli abitanti del paese, distruggerete tutte le loro pietre effigiate, tutte le loro immagini di getto e tutti i loro luoghi consacrati. Dovrete scacciare gli abitanti di quella terra, e abitarla voi, perché a voi ho destinato quel paese qual possesso. Spartirete la terra a sorte fra le vostre famiglie. Alle famiglie più numerose dovrete assegnare un possesso maggiore, a quelle meno numerose darete un retaggio minore. Dove gli sarà venuta la sorte, ognuno avrà il possesso presso la propria tribù paterna. Se non avrete scacciato dinanzi a voi gli abitanti del paese, allora quelli che ne lascerete, saranno come spine nei vostri occhi e come pungoli nei vostri fianchi e vi angustieranno nel paese dove abitate. Ciò che io pensavo di fare a loro, farò a voi.

Queste parole ci dicono innanzi tutto che la terra di Canaan è proprietà del Signore e che il suo possesso è assegnato al popolo d’Israele affinché la amministri, traendone sì il proprio sostentamento, ma, nel contempo, avendo cura, direi amore di essa, proprio perché affidata dal Signore, per il mantenimento di quelle doti naturali di fertilità, irrigazione e bellezza possedute al momento dell’affidamento, doti che non dovranno essere depauperate, ma semmai si dovrà cercare di migliorare ancora. Ma soprattutto queste parole ci dicono che il possesso è affidato in esclusiva al popolo d’Israele e che questo possesso dovrà realizzarsi scacciando tutti gli abitanti del paese, tenendo bene a mente che coloro di questi abitanti che dovessero ancora restare costituirebbero una continua insidia e turbativa all’esclusivo possesso del territorio.
Questi avvenimenti si collocano agli albori della storia d’Israele, ma trovano tuttavia una potente eco nell’attualità, dove il conflitto, ormai perdurante da sessant’anni, tra il moderno Stato d’Israele e le popolazioni arabe circostanti ha connotati politici, religiosi e territoriali.

Al capitolo 34 il Signore descrive i confini della terra di Canaan assegnata, dettagliandone le località lungo tutto il suo perimetro. Mosè allora comandò ai figli d’Israele:

Questo è il paese che darete in retaggio a sorte, che il Signore ha comandato di dare alle nove tribù e mezzo. Poiché la tribù dei figli di Ruben e le sue case paterne, la tribù dei figli di Gad con le case paterne, e metà della tribù di Manasse hanno preso il loro retaggio. Queste due tribù hanno preso il loro retaggio sulla riva orientale del Giordano di Gerico.

Si chiude il capitolo 34 con l’indicazione, che il Signore fornisce a Mosè, dei nomi degli uomini che provvederanno all’assegnazione dei terreni. Gli incaricati furono: il sacerdote El’azar; Giosuè già designato a condurre la conquista della terra di Canaan; un capo per ogni tribù, ad esclusione delle due tribù di Ruben e Gad che avevano già avuto l’assegnazione dei terreni ad est del Giordano.

Il capitolo 35 tratta delle città da assegnare ai Leviti. Siccome i Leviti non dovevano avere alcuna parte di territorio insieme alle altre tribù, ogni tribù doveva assegnare a loro delle città per abitarvi e dei recinti per pascolo e per i loro viveri. Le città da dare ai Leviti erano in tutto quarantotto con i relativi recinti e ciascuna tribù avrebbe partecipato a questa assegnazione in misura proporzionale alla quantità dei terreni a lei assegnati. Sei delle quarantotto città sarebbero state “città di rifugio”, città cioè dove chi avesse ucciso una persona per errore avrebbe potuto trovare rifugio, sottraendosi alla vendetta dei parenti dell’ucciso. Lo stesso capitolo esprime che, in ogni caso, l’omicida sarebbe stato sottoposto a giudizio ed indica le regole generali che potevano condurre ad esprimere un verdetto riguardo alla premeditazione o alla involontarietà dell’uccisione. L’uccisione premeditata, o ad essa assimilabile, conduceva alla morte dell’uccisore, mentre l’omicidio involontario prevedeva la sottrazione dell’uccisore alla vendetta dei parenti dell’ucciso ed il rilascio dell’uccisore, dopo l’emissione del giudizio di omicidio involontario, in una città di rifugio, ove egli avrebbe dovuto rimanere fino alla morte del Sommo Sacerdote, dopodiché sarebbe tornato libero.

Il capitolo 36, infine, torna ad occuparsi del caso delle figlie di Tselofchad, che già avevano ottenuto di essere censite ai fini dell’assegnazione delle terre. Qui viene trattato un altro aspetto riguardante le limitazioni da porre in essere, nel caso in cui le ragazze intendessero sposare uomini appartenenti ad altre tribù, cosa che avrebbe comportato come conseguenza che terreni assegnati ad una tribù potessero in questo modo transitare nella disponibilità di un’altra. Venne deciso che le ragazze avrebbero potuto sposare solamente uomini della loro stessa tribù, e così avvenne.




Haftarà di Masè
(secondo i riti spagnolo e tedesco)

Ed ora che motivo hai di andare per la strada dell’Egitto per bere le acque del Nilo, che motivo hai di andare
Per le strade dell’Assiria per bere le acque dell’Eufrate? La tua malvagità ti punirà e i tuoi atti di ribellione ti castigheranno e sappi e vedi che il tuo abbandonare il tuo D-o e il non avere tu timore di Lui vi sono causa di male e di amarezza.

(Geremia, 2,4-4,2)





Mattot

(Num.30,2-32,42)

Mosè parlò ai capi delle tribù per comunicare loro il comando del Signore secondo cui ciascuna persona del popolo d’Israele avrebbe dovuto rispettare voti e giuramenti fatti, impegnandosi per l’attuazione di quanto pronunciato dalle proprie labbra, e consentendo così di non profanare la parola data. E’ da tener presente che questo precetto non costituisce un precetto positivo, espresso cioè dal dover fare quello che si è promesso, è bensì un precetto negativo, quello cioè di “non profanare la parola” data al Signore. La parola ha nell’ebraismo un valore sacrale, perché è con la parola che il Signore ha creato il mondo e con la parola ha comunicato a Mosè ed è la parola che éleva l’uomo al di sopra degli animali. Ma i Saggi, che si posero il problema se un voto o un giuramento potessero mai essere sciolti, arrivarono ad interpretare la frase “non profanare la parola” come abbreviazione di un’espressione più estesa: “Tu non profanare la parola, ma gli altri possono profanala per te”.

Su questa interpretazione si fonda, come spiega Maimonide nel suo Sefer haMitzvòt, il precetto positivo dell’annullamento dei voti, che può essere pronunciato, dopo discussione e valutazione della richiesta, da parte del Tribunale. Il Tribunale, evidentemente, procede allo scioglimento qualora ravvisi che l’espressione del voto non sia stata in linea con gli insegnamenti della Torà. Per questa stessa interpretazione si comprende quanto viene detto nella parashà a proposito di voti e giuramenti fatti dalle donne.

Il capitolo 30 prosegue, infatti, trattando in maniera estesa, dal versetto 4 fino al conclusivo versetto 17, dei voti fatti dalle donne e degli effetti sulla loro validità dei divieti espressi dal padre o dal marito. La regola assegnava al padre o al marito la potestà di vietare un voto o un giuramento fatto dalla donna, ma egli poteva esercitare questa potestà una volta sola e nel momento in cui veniva a conoscenza del voto o del giuramento. Ma se l’uomo, nel venire a conoscenza del voto o del giuramento della donna, aveva taciuto, egli perdeva per sempre la prerogativa di poter esprimere il proprio divieto riguardo al quel voto.

L’esercizio di questa potestà al giorno d’oggi la ritroviamo solamente nella figura del padre verso i figli minori, e consiste nell’esercizio della cosiddetta “patria potestà”, mentre per quello che riguarda il marito direi che i tempi sono sostanzialmente cambiati, almeno in tutto il nostro mondo occidentale. I voti della donna per i quali il marito poteva trovarsi a voler esprimere il divieto erano evidentemente quelli che riteneva andassero a ledere i suoi interessi, diritti, o prerogative. Qui si tratta di voti che non sono evidentemente solo quelli, ad esempio, di non voler cucinare il pollo per un certo periodo di tempo, ma può trattarsi di un voto di castità, che andava a colpire quello che l’uomo riteneva un suo diritto e ne intaccava la dignità. Il trovarsi davanti a voti femminili di questo tipo sono ipotesi non lontane dalla realtà, quando si ricordi, ad esempio, che il voto di “nazireato” poteva essere pronunciato sia da parte di uomini, sia da parte di donne.

Il capitolo 31 si apre con l’assegnazione, da parte del Signore, dell’ultimo compito a Mosè: “Vendica i figli d’Israele sui Midianiti, dopo verrai raccolto al tuo popolo”. Vennero avanti, allora, mille uomini armati per ogni tribù, con loro era Pinchas, sacerdote figlio di El’azar, ed egli aveva in mano gli oggetti sacri e le trombe per impartire gli ordini. In esito all’attacco rimasero uccisi i cinque re di Midian ed anche il mago Bil’am, che si era rifugiato presso di loro. Tutti i midianiti furono distrutti e furono bruciate le loro città e le loro fortezze. Le donne, i bambini, insieme al bestiame furono catturati e portati davanti a Mosè, El’azar ed il popolo tutto nella pianura di Moab.

Mosè si adirò: “Avete lasciato in vita tutte le femmine? Erano ben esse che, per consiglio di Bil’am, sedussero i figli d’Israele a diventare infedeli al Signore nell’affare di Pe’or per cui scoppiò la mortalità nella congrega del Signore. Ed ora uccidete ogni maschio tra i bambini, e ogni donna atta a coabitazione con uomo uccidetela. Ogni bimba tra le femmine che non conobbero coabitazione con maschi, tenete in vita per voi. E voi accampate fuori dall’accampamento per sette giorni. Ognuno che abbia ucciso una persona o toccato un caduto, fatevi aspergere il terzo ed il settimo giorno, voi ed i vostri prigionieri. Ogni abito, ogni oggetto fatto di pelle, ogni oggetto fatto di pelo di capra e ogni oggetto di legno farete aspergere”. El’azar aggiunse quindi le istruzioni per la purificazione degli oggetti di metallo, che avrebbero dovuto essere aspersi con l’acqua della purificazione e poi essere passati per il fuoco.

Il Signore diede quindi a Mosè le istruzioni per la divisione del bottino e per l’individuazione del tributo. Il bottino, ivi compresi i prigionieri, sarebbe stato diviso in due parti uguali, da assegnarsi una ai combattenti, l’altra al popolo tutto.
Dalla parte assegnata ai combattenti avrebbe dovuto prelevarsi il tributo destinato al Signore, nella misura di uno su cinquecento, sia per le persone, sia per il bestiame grosso, sia per gli asini, sia per il bestiame minuto. Questo tributo avrebbe dovuto essere consegnato ad El’azar. Il tributo da prelevare dalla parte di bottino assegnata al popolo era invece fissato nella misura di uno su cinquanta di tutto il bestiame e doveva essere dato ai Leviti, che avevano la cura del Tabernacolo del Signore.

I comandanti ed i capi dell’esercito si recarono quindi da Mosè per portare gli oggetti e monili d’oro che ognuno di loro aveva preso come preda nel conflitto con i midianiti ed espressero che intendevano offrire tali oggetti al Signore in sacrificio di espiazione.

Al capitolo 32 si narra delle tribù di Gad e di Ruben che avevano molto bestiame e che, giunti ormai prossimi al Giordano, giudicarono quelle terre adatte per loro e pertanto chiesero a Mosè: “Se abbiamo trovato grazia ai tuoi occhi, sia dato questo paese qual retaggio ai tuoi servi. Non farci oltrepassare il Giordano”. E Mosè così rispose: “Devono i vostri fratelli entrare in guerra e voi rimanere qui? Perché volete suscitare l’opposizione dei figli d’Israele al passare nel paese che il Signore ha dato loro?” Mosè inoltre rammentò l’ira del Signore, che aveva colpito il popolo con quarant’anni di peregrinazione nel deserto e l’esclusione dell’intera generazione uscita dall’Egitto dalla terra promessa, tutto ciò per non avere amato questa terra dopo la prima esplorazione.

Ma Ruben e Gad chiarirono che essi avrebbero preso sì le terre ad est del Giordano, ma che avrebbero anche partecipato, come tutte le altre tribù, alla conquista della terra promessa. Dopo questo accordo Mosè diede ai figli di Gad, a quelli di Ruben e alla metà della tribù di Manasse, figlio di Giuseppe, il regno di Sichon, re degli Emorei, e il regno di ‘Og, re di Bascian, il paese diviso in città con i confini tutt’attorno.
Teniamo a mente questa distinzione: le terre dal Giordano al mare sono assegnate dal Signore; le terre ad est del Giordano sono assegnate da Mosè.



Haftarà di Mattot
(secondo i riti spagnolo e tedesco)

“E la parola del Signore si volse a me dicendo: Che cosa vedi tu, Geremia? Ed io risposi: Io vedo un bastone di mandorlo. (Il mandorlo è simbolo di rapidità perché fiorisce presto). Ed il Signore mi disse: Hai visto bene: infatti Io sto per affrettarmi ad eseguire quel che ho detto.
E la parola del Signore si rivolse a me una seconda volta, dicendo: Che cosa vedi tu? Ed io risposi:
Vedo una caldaia bollente, la cui parte anteriore è dal lato di settentrione. E il Signore mi disse: Da settentrione avrà inizio il male, che si abbatterà su tutti gli abitanti del paese.
(Geremia,1,1-2,3)





domenica 8 luglio 2012

Pinchas

(Num:25,10-30,1)

Pinchas con un atto violento e risoluto uccise Zimrì, della tribù di Simeone, e la sua amante midianita. L’impatto di questo gesto fu talmente forte che venne a ristabilirsi la fedeltà del popolo al patto di alleanza con il Signore. L’ira del Signore, come abbiamo visto anche alla fine della precedente parashà, si placò e cessò la pestilenza inviata per punire il popolo d’Israele. Pinchas, sacerdote figlio di El’azar figlio di Aron, per lo zelo dimostrato in questa circostanza ricevette dal Signore, per sé e per i suoi discendenti, la linea di supremo sacerdozio.

Pinchas è una figura severa, che con il suo gesto interrompe una prassi alla quale eravamo in un certo qual modo abituati. Durante il lungo viaggio verso la terra promessa molte furono le sommosse e le ribellioni del popolo d’Israele alle disposizioni impartite dal Signore. Ogni volta la punizione venne inflitta direttamente dal Signore ed ogni volta Mosè ebbe ad intercedere perché il popolo non fosse annientato e gli venisse concessa ancora una possibilità. Anche questa volta il popolo si disunì e numerosi furono gli atti di fornicazione dei figli d’Israele con donne moabite e midianite, molti si allontanarono dal culto del Signore per adorare il Baal Peor. Il Signore inviò una pestilenza che mietette ventiquattromila vittime e si placò questa volta, non per l’intercessione di Mosè, ma per l’azione con la quale Pinchas, sacerdote di severi costumi, pose fine allo scandalo uccidendo la coppia di amanti.

L’atto di Pinchas può apparire a noi, persone che apparteniamo ad una società decadente, avvezza ad unioni, che rapidamente si formano ed ancora più rapidamente si disfano, eccessivo, sproporzionato, addirittura condannabile. Potremmo addirittura pensare che male avessero mai commesso i due amanti, che si presume fossero giovani e di bell’aspetto, se non quello di seguire la voce del cuore, che è quello che l’etica corrente ritiene si debba fare in barba a qualsiasi costrizione e imposizione. La risposta che ha valore per il popolo d’Israele ed in base alla quale Pinchas ha agito la troviamo nella terza parte dello “Shemà”:

E parlò il Signore a Mosè dicendo: parla ai figli d’Israele, e dirai loro di fare, per loro e per tutte le loro generazioni Tzitzìt sulle ali estreme dei loro vestiti, e porranno sulla Tzitzìt all’estremità un filo azzurro. E sarà per voi come Tzitzìt, e guardando ricorderete tutte le mitzvòt del Signore, e le osserverete. E non vi perderete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, poiché vi prostituireste seguendoli. Affinché ricordiate ed osserviate tutte le mie mitzvòt e vi distinguiate per il vostro Signore. Io sono il vostro Signore, che vi ha tratti dalla terra d’Egitto per essere il vostro Signore. Io sono il vostro Signore.
(Num.15,37-41)

L’amore per il Signore e l’osservanza delle mitzvòt guidano quindi la vita dell’ebreo, dalla quale deve essere rimosso ogni altro interesse collidente ed in particolare il frutto delle passioni del cuore. Ciò detto appare chiaro che l’atto compiuto da Pinchas fu una punizione impartita per una grave infrazione della Legge. Potrebbe ancora essere incolpato Pinchas di eccesso di zelo, nel senso che si sarebbe arrogato il diritto di infliggere la punizione, prerogativa questa solitamente esercitata dal Signore, direttamente o per Sua disposizione. Ma per questo aspetto il Signore non manifestò doglianza, anzi vi fu apprezzamento, tant’è che Pinchas e la sua discendenza ricevettero eterna gratificazione per l’atto da lui compiuto.

Il capitolo 26 tratta del censimento di tutti i maschi di età da vent’anni in su, idonei per il servizio militare. Questo censimento riguarda solamente le nuove generazioni, giacché, come già sappiamo, nessuno di coloro che uscirono dall’Egitto, Mosè compreso, potrà entrare nella terra promessa. Il censimento ha lo scopo di definire la consistenza numerica di ciascuna delle dodici tribù, consistenza in base alla quale verrà stabilità l’entità delle terre da assegnare. Il censimento, oltre che numerico, è anche, a ben vedere, un censimento onomastico e molti dei nomi citati in questo capitolo trovano corrispondenza nell’onomastica ebraica contemporanea.

Al capitolo 27 è l’episodio delle cinque figlie di Tselofchad: Machlà, No’à, Choglà, Milchà, Tirtsà. Si ritiene che Tselofchad fosse il vecchio ebreo che fu colto a raccogliere legna di sabato e quindi messo a morte. Le ragazze presentatesi a Mosè fecero presente che, poiché nella loro famiglia non c’erano più componenti maschi, questa non sarebbe risultata nel censimento e loro non avrebbero avuto nessun terreno al momento dell’assegnazione. La richiesta delle ragazze fu accolta dal Signore con la disposizione che:

Quando un uomo muore e non ha figlio, voi passerete il suo retaggio alla sua figlia. E se non ha figlia, darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se no ha fratelli, passerete l’eredità ai fratelli del padre. E se il padre non aveva fratelli, darete la sua eredità al parente carnale più prossimo della sua famiglia, e questi la possederà.

Dopo di ciò il Signore disse a Mosè:

Sali su questo monte ‘Avarim e guarda la terra ch’Io ho dato ai figli d’Israele. E dopo averla veduta verrai raccolto alla tua gente anche tu, come è stato raccolto Aron tuo fratello. Poiché vi siete opposti al mio comando presso le acque della ribellione di Cadesh, nel deserto di Tsin, quando l’assemblea si ribellò, anziché santificarmi con l’acqua ai loro occhi. Questa è l’acqua di ribellione di Cadesh, nel deserto di Tsin.

Mosè, che tante volte intercedette presso il Signore per placarne l’ira contro il Suo popolo, in questa occasione non chiese indulgenza per sé e dev’essere stata veramente dura per lui arrivare a vedere dall’alto la terra promessa e sapere di non potervi entrare. Mosè non chiese per sé perché era consapevole della gloria che gli apparteneva per il ruolo rivestito di conduttore del suo popolo per tutto quel viaggio, durante il quale il popolo assunse la consapevolezza della propria identità, abbandonando la terra di schiavitù per ricevere la legge del Signore e superare gli ostacoli ed i contrasti frapposti al raggiungimento della meta. Mosè non chiese per sé ma, ancora una volta, chiese per il popolo, chiese che venisse designata la sua nuova guida:

Destini il Signore, Dio degli spiriti di ogni vivente, un uomo della congrega, il quale esca davanti a loro ed entri davanti a loro, li faccia uscire ed entrare affinché la congrega del Signore non sia come un gregge che non ha pastore.

Il Signore designò Giosuè e impartì le istruzioni per la sua presentazione e consacrazione. A Giosuè, uomo giovane e forte, animato da spirito battagliero e risoluto sarebbe spettato il compito della conquista della terra promessa.

A questo punto, siamo al capitolo 28, il Signore parlò a Mosè per istruirlo sui sacrifici da presentare al Tempio quotidianamente, su quelli da presentare il Sabato ed in tutte le altre feste dell’anno ebraico. Prosegue la descrizione dei sacrifici anche al capitolo 29, in un crescendo di vittime immolate, la cui consistenza raggiunge negli otto giorni di Succòt quella di un vero e proprio esercito fra tori, montoni ed agnelli.Tutti questi sacrifici di animali ci indurrebbero a connotarli come una manifestazione di barbarie, in quanto difficilmente giustificabili ai nostri occhi, anche per la loro entità, se visti esclusivamente come offerte alla Divinità. Dobbiamo però ricordarci che queste offerte avevano anche la funzione di provvedere al sostentamento dei Sacerdoti e dei Leviti addetti al funzionamento del Santuario, quindi di un elevato numero di persone e che a tale numero le offerte erano di fatto commisurate.


Haftarà di Pinchas
(I Re:18,46-19,21)

Narra l’Haftarà dello zelo verso il Signore dimostrato dal profeta Elia, per avere egli ucciso con la spada tutti i profeti del dio Ba’al, così come Pinchas aveva ucciso i due amanti e con lo stesso intendimento di riguadagnare al culto del Signore il popolo d’Israele. Ma il profeta Elia fu costretto a fuggire perché il re d’Israele Achav, che aveva incoraggiato i culti idolatri, ne aveva decretato la condanna a morte. Andò Elia nel deserto e camminò un’intera giornata ed a sera si coricò ai piedi di una ginestra e qui si addormentò. Gli apparve in sogno un inviato del Signore che gli disse:

Alzati e mangia, perché dovrai percorrere un lungo cammino.

Egli si alzò, mangiò e bevve e con la forza datagli da ciò che aveva mangiato camminò per quaranta giorni e quaranta notti, finché giunse al Chorev, il monte di D-o, ed entrò nella grotta. Qui il Signore gli chiese:

Che cosa fai tu qui, Elia?

Ed egli rispose:

Sono stato zelante per il Signore D-o Tsevaoth: i figli d’Israele hanno abbandonato il tuo patto, abbattuto i tuoi altari, ucciso con la spada i tuoi profeti, sicché ne sono rimasto io solo, ed hanno cercato di togliermi la vita.

Segue a questo punto un passo di potenza meravigliosa che riesce a farci intravedere la visione della presenza del Signore. Ad Elia D-o disse:

Esci, fermati sul monte davanti al Signore;
ecco il Signore passa
e davanti a Lui soffia un vento grande e forte
che sconquassa i monti e spezza le rupi,
ma non nel vento è il Signore;

dopo il vento verrà un terremoto,
ma non nel terremoto è il Signore.

Dopo il terremoto un fuoco,
ma non nel fuoco è il Signore,

e dopo il fuoco una voce sottile, quasi silenzio.


Ecco dunque che la presenza del Signore si manifesta con “una voce sottile, quasi silenzio”, “kol demamàh dakah”. Perché con un quasi silenzio e non con il fragore impetuoso del vento, perché non con lo scuotimento incontrollabile del terremoto, perché non con il crepitio delle fiamme? La risposta è perché il Signore parla ad un uomo, come se fosse una voce da dentro, un sussurro.

Elia si alzò e, avvoltosi nel mantello, uscì dalla grotta, fermandosi al suo ingresso. Ed ecco una voce gli disse:

Torna a camminare per la via verso il deserto di Damasco, e va’ ad ungere Chazael quale re di Aram, e Jehù figlio di Nimscì quale re di Israele e Eliseo figlio di Sciafat di Avel Mecholà quale profeta tuo successore. E chi si salverà dalla spada di Chazael lo farà morire Jehù, e chi si salverà dalla spada di Jehù lo farà morire Eliseo. Ed Io lascerò in vita in Israele settemila parsone, coloro le ginocchia dei quali non si sono piegate al Ba’al e la bocca dei quali non lo ha baciato.

Una punizione terribile per poter purificare Israele, una strage come fu quella dei ventiquattromila al tempo di Pinchas.




domenica 1 luglio 2012

Balak

(Num.22,2-25,9)

Il popolo d’Israele, nella sua marcia verso la terra promessa, era giunto ormai a ridosso del regno di Moab.

Balak, re di Moab, che aveva seguito le tappe di questa marcia di avvicinamento, era al corrente delle pesanti sconfitte inflitte da Israele agli altri re della regione, che avevano inutilmente tentato di ostacolarlo. Ora che vedeva Israele ai confini del suo regno Balak era molto preoccupato e disse agli anziani di Midian, suo alleato:

Ora questa moltitudine divorerà tutti i nostri dintorni, come il bue divora l’erba del campo.

Balak era consapevole che le proprie forze erano insufficienti per affrontare e battere un popolo così numeroso ed organizzato e ritenne quindi che fosse necessario ricorrere ad un aiuto soprannaturale. Egli inviò un’ambasceria a Bil’am, che viveva in Mesopotamia ed era noto in tutta la regione per la sua capacità di esercitare poteri di profeta e di mago. Così Balak mandò a dire a Bil’am:

Ecco un popolo uscito dall’Egitto, ricopre la superficie del paese. Esso mi sta di fronte. Ora vieni, maledici per me questo popolo, poiché esso è più forte di me. Forse potrò batterlo e scacciarlo dal paese, giacché so che chi tu benedici è benedetto e chi tu maledici è maledetto.

Per poter dare una risposta all’ambasceria Bil’am, pur non essendo ebreo, e pur esercitando le arti di mago e profeta, cosa che lo connotava come non credente nel Signore d’Israele, ritenne di dover comunicare proprio con il Signore d’Israele ed il Signore gli disse:

Non andare con loro. Non maledire quel popolo, poiché esso è benedetto.


Bil’am pertanto rispose alla richiesta degli ambasciatori di Balac dicendo:

Andate nel vostro paese, poiché il Signore ha rifiutato di lasciarmi venire con voi.

Ma quando Balak inviò una seconda ambasceria, offrendo ancora maggiori onori a Bil’am , e chiedendo nuovamente di maledire il popolo d’Israele, allora il Signore disse a Bil’am:

Se questi uomini sono venuti ad invitarti, va’ pure con loro, ma dovrai fare solo ciò che Io ti dirò.

A questo punto della narrazione abbiamo già alcuni quesiti, ai quali sentiamo di dover dare risposta prima di andare avanti. Il primo quesito riguarda il perché Bil’am si sia rivolto al Signore degli Ebrei e non ad un’altra divinità, ad esempio quella nella quale lui era credente. Le risposte possibili sono diverse ma quella che mi sembra più razionale è che Bil’am abbia preferito la strada più diretta. Era evidente, per tutti i successi conseguiti lungo il suo cammino, che il popolo ebraico fosse benedetto dal Signore e che la cosa più conveniente per modificare questa sua condizione non fosse certo quella di mettere in competizione tra loro divinità diverse, ma che fosse invece da esplorare presso il Signore d’Israele se la benedizione di cui quel popolo godeva potesse essere sospesa o cessare.

Il secondo quesito è come fosse possibile che Bil’am conoscesse il nome del Signore d’Israele e come sia stato possibile che il Signore gli abbia parlato. Ricordiamoci, a questo proposito, quante volte abbiamo letto che il Signore disse a Mosè di dire ad Aron. Quindi il Signore, che molto raramente ha parlato persino ad Aron, che pure era il suo Gran Sacerdote, ora, appena interpellato, parla a Bil’am, mago e profeta non ebreo. Credo che la spiegazione non sia tanto quella a posteriori, secondo cui il Signore è intervenuto per dire a Bil’am cosa dovesse fare, perché questo rientrava nel generale disegno divino. No, io penso che la chiave della spiegazione sia a priori, è Bil’am che ha assunto l’iniziativa di chiedere al Signore se fosse possibile maledire il Suo popolo. Ma, se è così, significa che Bil’am, pur profeta e mago non ebreo, aveva la capacità di comunicare con il Signore. Prima di lavarcene le mani, dicendo che si tratta di un racconto fantastico del quale occorre tenere in conto solo il significato, facciamo dei passi intermedi per arrivare a comprendere quale sia il livello massimo comprensibile della plausibilità razionale del racconto.

Il dialogo di Bil’am con il Signore avviene in sogno. Nel Tanak molti personaggi sognano ed altri interpretano i sogni. I personaggi che sognano non sono solamente ebrei: infatti anche il Faraone sogna, Nabucodonosor sogna. Il sogno avviene solitamente in una fase del sonno in cui il controllo sulla nostra anima è attenuato e l’anima ha la possibilità di mettere in atto le proprie facoltà percettive e comunicative. E’ una fase molto delicata questa che vede l’anima allontanarsi dal corpo per poi ritornarvi al risveglio. La preghiera del risveglio mattinale recitata dagli ebrei dice:

Modè anì, riconosco davanti a te, sovrano, vivente ed eterno, che mi hai reso la mia anima misericordiosamente. Grande è la tua fiducia.

Sappiamo anche che esistono altre modalità, oltre quella naturale del sonno, delle quali i sensitivi possono servirsi per raggiungere lo stato in cui l’anima si allontana dal corpo, aumentando la propria sensibilità e le proprie percezioni. Pensiamo molto semplicemente ai racconti di molte persone sottoposte ad interventi chirurgici in anestesia totale; essi parlano di questo distacco dell’anima dal corpo e delle sensazioni di lieta lucidità e completezza che accompagnano questa esperienza. I sensitivi hanno anche capacità di raggiungere uno stato di trance in autoipnosi, e realizzano esperienze di allontanamento dell’anima, che rendono possibile vivere percezioni altrimenti inarrivabili. Ed allora ecco che, con queste premesse, diventa plausibile il fatto che Bil’am abbia posseduto le capacità necessarie ad interloquire con il Signore d’Israele.

Ma subito dopo la figura di Bil’am riceve nella narrazione un pesante ridimensionamento. Egli infatti, dopo aver ricevuto le parole del Signore, si alzò la mattina, sellò la sua asina e andò con i principi di Moab, senza precisare loro che egli avrebbe fatto solo quello che il Signore gli avrebbe detto. Per ostacolare i proponimenti di Bil’am, che sembravano orientati per la pronuncia della maledizione del popolo d’Israele, il Signore inviò un proprio emissario per fermarlo. Tre volte si presentò l’emissario con la spada sguainata sulla strada percorsa da Bil’am e per tre volte Bil’am non lo vide, mentre lo vide la sua asina, cha scartò bruscamente fuori dal sentiero e gli salvò la vita. Per tre volte Bil’am bastonò la sua asina, rimproverandola per gli scarti che aveva compiuto, finché il Signore aprì la bocca dell’asina che disse:

Non sono io la tua asina sulla quale hai cavalcato da quando esisti fino ad oggi? Ho io mai usato di farti così?

A quel punto il Signore aprì gli occhi a Bil’am che vide l’inviato del Signore, il quale gli disse:

Perché hai battuto la tua asina già tre volte? Ecco io ero uscito per esserti di ostacolo, perché la tua vita è contraria a me, L’asina mi vide e mi scansò già tre volte. Ove non m’avesse scansato, avrei ucciso te e lasciato in vita lei.

L’episodio induce ad una riflessione sulla figura di Bil’am. Il profeta, il mago, conoscitore di uomini e di Dei, che ha la capacità di dialogare con il Signore, si rivela come colui che non appena si allontana dalle istruzioni che il Signore gli ha dato, non vede più e la facoltà di vedere tocca ora alla sua asina, con un significato che da un lato evidenzia le carenze dell’uomo, per quanto dotato egli sia di poteri e facoltà degni di nota, ma dall’altro rende onore all’asina, proprio all’animale tanto utile ma tanto poco apprezzato, all’istinto animale che percepisce ciò che l’occhio umano non vede.

Stavolta Bil’am mostrò di aver compreso le parole del Signore e quando, giunto a Moab, si trovò davanti a Balak gli disse:

Eccomi venuto da te. Ma ora, potrei io dire la minima cosa? Ciò che il Signore mi porrà in bocca quello solo io dirò.

Ed egli terrà fede a quanto il Signore gli aveva detto. Per tre volte Balak tenterà di fargli pronunciare la maledizione per il popolo d’Israele e per tre volte la bocca di Bil’am pronuncerà invece la benedizione del popolo del Signore:

Ma tovù ohalécha Yaakòv, mishkenotécha Israél! Come sono belle le tue tende, Yaakòv, le tue residenze, Israel.

La benedizione di Bil’am viene recitata ogni volta che si entra al bet hakenésset in ricordo della distinzione operata dal Signore per il popolo d’Israele tra tutti i popoli della terra.

Balak, sconcertato ed irritato per il fallimento delle aspettative che egli aveva riposto nella venuta di Bil’am, scaccia il mago dalle proprie terre e questi, andandosene, pronuncia la sua ultima profezia a Balak. Verrà un astro da Giacobbe che sottometterà Moab, Edom e Se’ir. Parla quindi della dominazione dell’Assiria, che renderà dura la vita dei popoli sottoposti. La narrazione ci dice anche di un consiglio che Bil’am avrebbe dato a Balak senza però precisare di che si tratti. I Rabbini spiegano che si tratta di un consiglio segreto col quale Bil’am persuase Balak a corrompere Israele mandando le donne a sedurlo.

Infatti, frutto o meno che fosse del consiglio di Bil’am, il popolo cominciò a fornicare con le figlie di Moab, ed a celebrare ed adorare i loro idoli. Il Signore ordinò allora a Mosè che fossero impiccati pubblicamente tutti i capi del popolo. Mentre venivano giustiziati coloro che avevano seguito il Ba’al di Pe’or, uno dei figli d’Israele presentò una Midianita, della quale era invaghito, ai suoi fratelli ed agli occhi di Mosè e di tutta l’Assemblea. Pinechas, figlio di El’azar, figlio del sacerdote Aron, si alzò, imbracciò una lancia e trafisse d’un colpo insieme l’uomo e la donna Midianita. Questa esecuzione fu l’ultimo atto della strage dei figli d’Israele, che in tutto causò ventiquattromila morti.


Haftarà di Balak
(Michà 5,4-6,8)

Siamo nell’VIII secolo avanti all’E.V. e il profeta Michà annuncia l’invasione di Israele da parte dell’Assiria, ma, al tempo stesso, dice anche della salvezza e della liberazione dall’invasore, che verrà inseguito fin nei suoi territori ed annientato.
Quando verrà quel giorno non serviranno armi e cavalli, non servirà avere città fortificate, non serviranno stregonerie e indovini, né idoli e steli, perché il Signore distruggerà tutte queste cose e prenderà vendetta con ira e furore contro coloro che non vorranno ascoltare. Ascoltate il Signore, dice il profeta, ascoltate quel che dice:

Popolo Mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho procurato affanno? Fa’ le tue dichiarazioni contro di Me. Perché Io ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, ti ho redento dalla casa degli schiavi e ho mandato davanti a te Mosè, Aron e Miriam. Popolo mio ricorda qual era l’intenzione di Bakak re di Moab contro di te e che cosa gli ha risposto Bil’am, figlio di Be’or, quel che è accaduto da Shittim a Ghilgal, affinché tu riconosca i benefici che ti ha arrecato il Signore.

Il popolo allora, udite queste parole, chiede con che cosa debba presentarsi al Signore per fare sacrifici ed espiare le proprie colpe, se debba offrire vitelli, migliaia di montoni, e miriadi di otri di olio d’oliva, o se invece debba presentare in sacrificio i suoi stessi primogeniti.

E la risposta del Signore è:

Uomo, il Signore ti ha detto che cosa è bene, e che cosa Egli richiede da te se non che tu operi con giustizia, ami la bontà e proceda umilmente con il tuo D-o.