martedì 28 giugno 2011

Chuccath

(Num. 19-22)
La Parashà si apre con la mitzvà della Parà Adumà, la Vacca Rossa. Questa mitzvà viene definita nel secondo versetto "statuto della Torà". Ricordiamo che “Chukim”, statuti, sono le mitzvot per le quali non è possibile una spiegazione razionale, non riuscendo a cogliere collegamenti con aspetti di utilità, di igiene, di opportunità, di moralità, ma per le quali ci si deve limitare a comprendere che il loro rispetto deve avvenire semplicemente perché così è comandato dal Signore.


Di’ ai figli d’Israele che ti prendano una vacca rossa perfetta, che non abbia alcun difetto, e sulla quale non sia stato messo giogo. La darete al sacerdote El’azar; egli la faccia uscire fuori dall’accampamento e la si scanni in sua presenza. Il sacerdote El’azar prenda del suo sangue col dito, e spruzzi del sangue sette volte in direzione della facciata anteriore della tenda di convegno. Si abbruci la vacca davanti ai suoi occhi: la pelle, la carne, il sangue oltre alle feci. Il sacerdote prenda del legno di cedro, dell’issopo e della lana scarlatta e li getti dentro il fuoco che consuma la vacca. Il sacerdote si lavi le vesti, si lavi il corpo con acqua, e il sacerdote sarà impuro sino alla sera. Colui che abbrucia la vacca si lavi le vesti con acqua e si lavi il corpo con acqua e sia impuro sino alla sera. Un uomo raccolga la cenere della vacca e la deponga al di fuori dell’accampamento, in un luogo puro. Ciò sia per i figli d’Israele da osservare per fare dell’acqua purificatrice. E’ un chattath. Colui che raccoglie le ceneri della vacca, si lavi le vesti e sia impuro sino alla sera. Ciò sarà statuto per sempre per i figli d’Israele e per il forestiero che soggiorni in mezzo a loro".
Seguono le prescrizioni per il rituale di aspersione con l’acqua della purificazione che verrà eseguito per eliminare l’impurità da chiunque sia venuto a contatto con un morto, nonché per purificare gli oggetti che si trovavano in un ambiente chiuso dove era stato un morto.

Perché proprio la mitzvà della Vacca Rossa è stata scelta per rappresentare l’intera categoria degli statuti dei quali fanno parte, tra l'altro, mitzvot di più frequente applicazione, come quelle relative a carne e latte, la proibizione degli incroci, il radersi con una lama, ecc.? Perché la Torà si riferisce a questa mitzvà come allo statuto dell'intera Torà e non, più limitatamente, come allo statuto delle leggi dell'impurità?
Premesso che una completa spiegazione razionale non è possibile proprio a causa, come già detto, della natura stessa degli “”Chukim”, dobbiamo constatare anche come siano misteriose le norme di questa Mitzvà, che secondo i maestri del Talmud neanche il saggio re Salomone riuscì a comprenderle. Solamente Moshè ebbe questo merito, come è detto “a te rivelo la ragione della vacca [rossa]” (Bemidbàr Rabbà 19, 6).
Possiamo tentare di cogliere o intuire le ragioni del primato di questa norma. L’essere in vita è il requisito che consente ad una persona di avere rapporti con il sacro, che si concretizzano con l’ingresso al Santuario, con lo studio della Torà, le tefillot di lode rivolte al Signore, l’attuazione delle mitzvot. Con questi atti, compiuti da vivente, l’individuo si sforza di avvicinarsi al Signore, che è la fonte della Vita. La morte costituisce quindi un’interruzione di questo rapporto con il sacro: il cadavere è inerte, non può interagire e per questo motivo è sorgente di impurità ed il contatto con esso provoca impurità. In generale ogni contatto con la sfera della morte è legato all'impurità. Di contro un neonato è considerato la cosa più pura che ci sia, perché esso è la manifestazione più recente della creazione della vita. Ecco dunque la ragione del primato di questo statuto che quindi assume la dimensione non di un semplice statuto di purificazione ma di statuto della Torà.
Altro aspetto di difficile comprensione è la particolarità secondo cui , se è vero che il rituale purifica chi è impuro, è altrettanto vero che tutti coloro che hanno a che fare con la sua preparazione diventano impuri. A prima vista questa mitzvà sembrerebbe collidere con ogni logica razionale. Ma, anche per questa particolarità, si può tentare di avvicinarsi ad una spiegazione. Pensiamo ai Cohanìm coinvolti nella preparazione delle acque che venivano spruzzate sulla persona impura per purificarla, che diventavano a loro volta impuri per effetto di quelle stesse acque, con le quali loro purificavano gli impuri! I Cohanìm sono leaders spirituali-religiosi, che sono responsabili della purezza spirituale del popolo, delle cui impurità vengono a contatto, conoscendole ed, in un certo senso, facendosene carico, quasi novelli capri espiatori e quindi divenendo a propria volta impuri.
Un leader spirituale è uno che è disposto ad abbassarsi, a scendere al livello degli altri, pur sapendo che questo potrebbe avere un effetto negativo su di sè. Perché è così? Secondo il Midràsh c’è un nesso con la colpa commessa con il vitello d’oro. “Venga la madre (la vacca) ad espiare per il figlio (il vitello d’oro)”. Nello stesso modo, i leader sono considerati responsabili del benessere spirituale del popolo.

La Parashà è densa di altri avvenimenti. Il popolo giunto nel deserto di Tsin nel capomese, si fermò a Cadesh. Qui morì Miriam, quasi in punta di piedi, perché la notizia della sua morte non occupa neanche mezza riga nella narrazione e non da luogo ad alcun commento.Il popolo era stanco ed era assetato, perché nel deserto non aveva trovato acqua. Ed il Signore disse a Mosè: “Prendi la verga e raduna la congrega, tu e tuo fratello Aron, e parlate alla rupe davanti ai loro occhi, che dia la sua acqua. Farai uscire per loro dell’acqua dalla rupe e farai bere la congrega ed il loro bestiame”. Mosè eseguì quanto il Signore aveva comandato, ma non fedelmente, perché Mosè non parlò alla roccia, come gli era stato comandato, ma la battè con la verga e l’acqua sgorgò.
Il Signore disse a Mosè e ad Aron: “Siccome non avete avuto fiducia in Me sì da santificarmi agli occhi dei figli d’Israele, perciò voi non condurrete questa congrega alla terra che ho deciso di dare loro”.

Mosè da Cadesh mandò ambasciatori al re di Edom, chiedendo il consenso all’attraversamento del paese da parte del suo popolo, ma ottenne un severo rifiuto. Il popolo allora si spostò e giunse al monte Hor. Qui morì Aron, e la sua morte avvenne seguendo un rituale, che espresse l’investitura sacerdotale a suo figlio El’azar.
E qui il popolo d’Israele venne attaccato dal re cananeo di Arad, che però, grazie all’aiuto del Signore, venne pesantemente sconfitto.

Partito dal monte Hor verso la via del Mar Rosso, per aggirare il paese di Edom, il popolo divenne nuovamente impaziente e disse: “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per morire nel deserto? Poiché non c’è pane né acqua, e noi siamo stanchi del pane leggerissimo”. Il Signore mandò contro il popolo i serpenti serafim, i quali morsicavano il popolo e morì molta gente in Israele. Il popolo venne da Mosè e disse: “Abbiamo peccato poiché abbiamo parlato contro il Signore e contro te. Prega il Signore affinché tolga da noi il serpente”. Mosè pregò per il popolo: Il Signore disse a Mosè: “Fatti un saraf e ponilo su una pertica. Chi sarà stato morsicato lo guarderà e guarirà”. Mosè fece un saraf di rame e lo pose sulla pertica. Avveniva che se il serpente aveva morsicato una persona, questa guardava il serpente di rame e risanava.

Rashì fornisce questa spiegazione per la punizione dei serpenti. Il popolo si lamenta della manna, che è l’unico cibo che ha, ma che ha la prerogativa di assumere il sapore di ogni cibo che venga desiderato; quando viene inflitta la punizione ed il popolo viene aggredito dai serpenti, su di esso ricade la stessa maledizione del serpente del Eden, e quindi qualsiasi cosa verrà mangiata avrà un solo sapore, quello della polvere.
In effetti gli elementi di questo passo della parashà hanno molti punti di contatto, sia pure in opposizione, con quelli dell'Eden. Nell’ Eden ci troviamo di fronte alla possibilità di mangiare ogni tipo di frutto, tranne quello dell'Albero della conoscenza del bene e del male. Nel deserto abbiamo invece un solo cibo che rende inutile ogni altro cibo. In entrambi i casi è il Signore che procura il cibo. Vale a dire chela nostra unica occupazione è quindi lo studio della Torà, ed i Maestri dicono che la Torà non è stata data altro che a coloro che mangiavano la manna. C'è poi la presenza del serpente. Esso è considerato simbolo dello “yetzer harà”, l'istinto del male, in particolare per il suo modo subdolo di presentarsi, quando ci vuole convincere di essere nel giusto anche se trasgrediamo la Torà. Nell'Eden avevamo una sola mitzvà. La proibizione di mangiare dall'Albero della conoscenza del bene e del male. È interessante notare come l'Eden ed il Deserto siano legati da un rapporto inverso. L'Eden è un giardino, il deserto è un luogo arido. Nel Deserto abbiamo tante mitzvot ed un solo cibo, nell'Eden tanto cibo ed una sola mitzvà. Il solo cibo del deserto prende il sapore di tutti i cibi, la sola mitzvà dell'Eden racchiude il senso di tutte le mitzvot.
Per effetto della trasgressione del precetto dell'Eden, una nuova presenza, prima sconosciuta, appare nel mondo: la morte. E con la morte, di pari passo, l’impurità. Ciò che riabilita l'uomo dopo il contatto con la morte diventa il “tikun”, la riparazione della trasgressione dell’unica mitzvà che ha in se tutta la Torà. Questo “tikun” deve essere fatto per mezzo di un “chok”, una mitzvà la cui motivazione non è razionalizzabile. Questo è il “chok” dell'intera Torà, racchiusa nella prima mitzvà dell’Eden.

Il popolo riprese la marcia e, giunti ai limiti dei territori degli Emorrei, furono mandati ambasciatori al loro re Sichon per chiedere di poter attraversare il paese. Ma questi si oppose e dette battaglia. Gli Emorrei furono sconfitti ed il loro paese venne occupato dal popolo d’Israele. Stessa sorte toccò ad Og, re di Bascian, che pure era sceso in battaglia contro Israele.

lunedì 20 giugno 2011

Còrach

(Num. 16-18)
Già altre volte il viaggio verso la terra promessa era stato travagliato da malcontento, sfiducia e ribellioni, ma questa volta la contestazione, capeggiata dal levita Còrach affiancato da Dathan e Aviram ed, inizialmente anche da On, si era espressa in modo argomentato, prendendo di mira l’autorità stessa di Mosè ed Aron, ed era sostenuta da duecentocinquanta rappresentanti autorevoli delle tribù.
Si noti per inciso che il fatto che Còrach fosse un Levita è espresso dalle stesse radici del suo nome, che sono “qof-resh-chet”, le medesime di radersi i capelli, che danno luogo ad una immagine di testa rasata, prerogativa appunto dei Leviti per i riti di purificazione.
Si tratta di quello che oggi chiameremmo un tentativo di colpo di stato e non di una sommossa popolare. Ci sono tutti gli elementi del colpo di stato e cioè un’organizzazione dei congiurati, un’ideologia dichiaratamente egualitaria, come è giusto che sia quando si ritiene che ci sia un tiranno da eliminare, sostenuta da una plausibile interpretazione delle parole del Signore, e con la precisa individuazione dei soggetti da abbattere, e cioè i due fratelli Mosè e Aron.
L’argomentazione a sostegno della contestazione era così espressa: “Vi basti! Tutta la comunità sono tutti santi e in mezzo a loro è il Signore, e perché vi elevate al di sopra della congrega del Signore?

A questa accusa di voler esercitare il proprio potere personale sul popolo Mosè ribattè sdegnato, dicendo che l’indomani il Signore avrebbe fatto conoscere chi fosse il prescelto. Cercò inoltre Mosè di rammentare a Còrach ed ai Leviti l’onore loro concesso dal Signore per averli designati al servizio del Tabernacolo. Mandò anche a chiamare Dathan e Aviram per avere con loro un colloquio che potesse distoglierli dal loro proponimento, ma da loro ebbe la risposta più aspra, perché essi dissero: “Non verremo. Ti par poco di averci fatto salire da una terra stillante latte e miele per farci morire nel deserto, che vorresti ancora signoreggiare su di noi? Tu non ci hai portato in un paese stillante latte e miele per darci un possesso di campi e di vigne. Vorresti forse accecare gli occhi di questa gente? Noi non verremo”.

Ci troviamo quindi davanti a due diverse motivazioni della ribellione, infatti mentre le parole di Còrach esprimono la contestazione della leadership rappresentata da Mosè ed Aron, la posizione di Dathan ed Aviram è invece di sfiducia nella riuscita dell’impresa di poter giungere alla terra promessa e di nostalgia per la terra d’Egitto.
Le due posizioni sono entrambe in contrasto con la volontà del Signore e quindi entrambe saranno condannate ed i loro sostenitori saranno puniti con la morte.

Si potrebbe operare una distinzione tra queste due posizioni, e potrebbe, a prima vista, ritenersi molto più grave quella di Dathan ed Aviram rispetto a quella di Còrach, potendo apparire la colpa dei primi due doppia rispetto a quella dell’ultimo. Si potrebbe dire infatti che Dathan ed Aviram non solamente hanno perso la fiducia nella conduzione da parte dei due fratelli, ma hanno perso anche, e soprattutto, la fiducia nella possibilità di giungere alla terra promessa dal Signore.
E’ da tener presente che l’obiettivo del viaggio non avrebbe potuto venir meno perché era stato promesso dal Signore, mentre i condottieri, forse, avrebbero potuto cambiare, anche in considerazione dei comportamenti di entrambi in occasione dell’episodio del vitello d’oro. Ricordiamoci che Aron non si era opposto, come avrebbe dovuto, alla richiesta del popolo di fabbricare l’idolo e ricordiamoci anche che Mosè, quando ridiscese dalla montagna, ordinò che fossero uccisi tutti coloro che nell’occasione non si erano mantenuti fedeli al Signore, e che quel giorno morirono perciò tremila persone, mentre a suo fratello Aron non toccò pena maggiore di un rimbrotto.
Però Còrach, nel contestare il primato di Mosè ed Aron, non fa nessun riferimento ad errori commessi dai due, ed avrebbe potuto farlo come abbiamo appena evidenziato, e la sua critica in questo caso avrebbe assunto i connotati di una critica al loro operato umano, alla loro adeguatezza nell’eseguire il disegno divino. Còrach invece mette in dubbio la legittimità del primato loro conferito, perché a suo dire, e diversamente da quanto stabilito fin qui dal Signore, poichè tutto il popolo è santo non è legittimo che esistano posizioni di preminenza .

Ma a tutte queste possibili disquisizioni pose termine il giudizio del Signore, per cui la terra si aprì ed inghiottì Còrach, Dathan ed Aviram insieme alle loro famiglie. Un fuoco inoltre divorò i duecentocinquanta notabili che avevano sostenuto la rivolta.

Il popolo non comprese e non accettò la punizione, che il Signore aveva impartito, e ne dette la colpa a Mosè ed Aron. L’ira del Signore si accese nuovamente e si abbatte sul popolo e quando cessò, per l’espiazione compiuta da Aron, si contarono quattordicimilasettecento morti oltre quelli per i fatti di Còrach.

A questo punto, allo scopo di far conoscere chi fosse prescelto per le funzioni sacerdotali, il Signore disse a Mosè di porre nella tenda della radunanza davanti alla Testimonianza dodici verghe, una per ogni tribù, e quella che fosse fiorita avrebbe indicato la scelta operata dal Signore. Così fu fatto ed il giorno dopo era fiorita la verga di Aron.

Qui, finalmente il Signore, che generalmente parla solo a Mosè, parlò direttamente ad Aron ed a lui dette le istruzioni per il servizio di sacerdozio al Santuario, che egli avrebbe dovuto prestare con i suoi figli, e con l’aiuto dei Leviti, assegnati al servizio della tenda della radunanza.
Vennero definite inoltre le spettanze sulle offerte presentate dal popolo in sacrificio, tenendo presente che i Leviti non avevano proprietà terriere e vivevano quindi dei proventi loro assegnati dei sacrifici.

Per quanto riguarda poi il sacrificio di spettanza dei Leviti, il Signore disse a Mosè: - Parla ai Leviti e di’ loro: “Quando prenderete dai figli d’Israele la decima che Io ho dato a voi da loro in retaggio, preleverete da quella il tributo al Signore: decima dalla decima. Il vostro tributo vi sarà calcolato come il grano dall’aia e come il vino dal torchio. In tal modo offrirete anche voi un tributo al Signore da ogni vostra decima, che prenderete dai figli d’Israele e da essa darete un’offerta del Signore al sacerdote Aron. …”

giovedì 16 giugno 2011

Scelach

La parashà comprende i capitoli da 13 a 15 di Bemidbar, il libro dei Numeri.
Si narra come un popolo, già uscito dalla terra d’Egitto e messosi in marcia per raggiungere la terra promessa, sia arrivato alle soglie del suo traguardo, senza però farcela ed abbia ricevuto la punizione di dover vagare ancora per quarant’anni nel deserto. L’abbiamo visto, questo popolo, ricevere la Legge, e sappiamo come abbia proceduto per l’edificazione del Santuario, e conosciamo l’ordinamento secondo cui avviene la celebrazione dei suoi riti religiosi, il suo schieramento sul campo e per la procedura e l’ordine adottati per i suoi spostamenti. Tutto ciò darebbe l’idea di un popolo-esercito organizzato e disciplinato, ma sappiamo anche delle traversie di questa massa di persone in movimento, sappiamo delle lamentele, delle contestazioni, delle nostalgie per la terra di schiavitù, che sin qui hanno costellato il suo percorso.

Ora, arrivati alle soglie della terra promessa, il Signore dice a Mosè: “Manda degli uomini ad esplorare il paese di Canaan che Io sto per dare ai figli d’Israele. Un uomo per ogni tribù paterna, ognuno sia un preposto fra loro”.
Gli esploratori designati partirono quindi con il compito di esaminare le ricchezze del paese, le sue risorse agricole, la fertilità della terra, ma anche per scoprire la consistenza e l’indole delle popolazioni abitanti, nonché la loro organizzazione e se le città esistenti fossero o meno fortificate.
Tornarono dopo quaranta giorni e riferirono che il paese era veramente stillante latte e miele, perché era fertile e produceva frutti in abbondanza, però le città erano fortificate e le popolazioni che le abitavano erano forti, e gli abitanti di quella terra sembravano fisicamente dei giganti al confronto con loro, che invece apparivano come piccole locuste.
Solamente Caleb e Giosuè, che pure avevano fatto parte del gruppo degli esploratori, si espressero riguardo al possibile conflitto con gli abitanti della terra promessa dicendo che non bisognava nutrire alcun timore perché il Signore era con il popolo di Israele.
Ma il popolo mostrò di non avere fiducia nel Signore e di non avere il coraggio e la determinazione necessarie per la conquista della terra promessa. Nuovamente cominciarono i lamenti ed i proponimenti di tornare nella terra d’Egitto, dove dopo tutto non avrebbero corso il rischio di essere passati a fil di spada da popolazioni agguerrite e di vedere le proprie donne ed i propri figli diventare prede di guerra.

A questo punto ci viene in mente una riflessione: ma chi mai potrà sperare di raggiungere una meta a lungo desiderata, se non è in possesso del coraggio necessario a superare gli ostacoli che si frappongono al suo raggiungimento? Come possiamo affrontare una prova che ci si presenta davanti se non abbiamo la fiducia nella possibilità di superarla? Nella nostra vita quotidiana sono molte le “terre promesse” da conquistare, gli obiettivi al cui raggiungimento si frappongono ostacoli. Sono gli esami a scuola, i concorsi o le selezioni per le posizioni lavorative, gli obiettivi di lavoro nei quali crediamo e che vogliamo conseguire. Sono la famiglia, i figli, l’aiuto che riusciamo a dare loro. Ecco tutte queste cose vanno fortemente volute e vanno conquistate, quindi con fiducia e determinazione, e comprendiamo che senza queste qualità tutto resterebbe affidato al caso nella migliore delle ipotesi ovvero tutto sarebbe alla mercè dei nostri avversari.

Il popolo d’Israele aveva l’organizzazione necessaria per compiere l’impresa, ma aveva perso il coraggio di battersi con altri popoli e soprattutto aveva perso la fiducia nel fatto che il Signore, schierato dalla sua parte, lo avrebbe portato alla vittoria.
Il Signore dispose allora la punizione del suo popolo, stabilendo che nessuno degli uomini, dall’età di vent’anni in su, ad eccezione di Caleb e Giosuè, sarebbe maie ntrato nella terra promessa e che il popolo avrebbe continuato a vagare ancora per quarant’anni nel deserto, prima di potervi accedere.

Il Signore dettò quindi le disposizioni riguardanti i sacrifici, che il popolo avrebbe dovuto effettuare, quando fosse finalmente entrato nella terra promessa. I sacrifici di animali e di farinacei, di olocausto e di celami, offerti sia da parte del popolo, sia da parte degli stranieri che, dimorando in esso, sarebbero stati soggetti alle medesime norme ed agli stessi diritti.
Molte volte la Torà fa riferimento a questi stranieri, che vivono in mezzo al popolo d’Israele e che perciò sono soggetti alle medesime leggi e questo ci fa pensare che la loro presenza doveva essere numericamente significativa, che molti dovevano essersi uniti al popolo d’Israele a partire dall’uscita dall’Egitto e durante il viaggio.

Ci fa pensare anche, attualizzando il viaggio e dando ad esso il significato di un percorso personale che ci conduce, da una condizione di schiavitù, dovuta all’assenza della Torà, con un percorso lungo quanto una vita ed irto di ostacoli, ad una nuova condizione di consapevolezza della fiducia nel Signore e della forza che da ciò ci deriva. Ed è la presenza dello straniero che ci consente di connotare come universale tutta la narrazione, potendo sussistere altrimenti una visione limitativa connotante il solo popolo ebraico come popolo eletto.

Segue poi l’episodio dell’uomo trovato di Sabato nel deserto a raccogliere legna e condotto davanti a Mosè ed Aronne. Per quest’uomo il Signore dispose la morte per lapidazione da eseguirsi fuori dall’accampamento. La punizione fu feroce ma giustificata dall’essere il Sabato il santuario d’Israele, il giorno del Signore, che ci ama, ed al quale dobbiamo rispetto, obbedienza e amore.

La parashà si conclude con i versetti che sono la parte finale dello Shemà: i figli d’Israele facciano delle frange agli angoli delle proprie vesti, affinchè vedendole ricordino ed eseguano tutti i precetti che il Signore ha dato loro, senza deviazioni per seguire il proprio cuore o i propri occhi, che li renderebbero infedeli.
Sto pensando ad un libro scritto da Susanna Tamaro qualche anno fa, che si intitolava “Va’ dove ti porta il cuore”, che parrebbe in chiara opposizione alla linea comportamentale che ci dice di anteporre ad ogni cosa il rispetto dei precetti dettati dal Signore. In realtà la Tamaro intendeva esprimere la preferenza che si deve assegnare al sentimento rispetto alle indicazioni del razionale. Ma anche qui c’è da intendersi sul significato di sentimento e sul significato di razionale, parole al giorno d’oggi tanto inflazionate da averne smarrito il significato. "Sentimento" non è passione, sentimento è ciò che affiora di noi, quando, soli con noi stessi, allontaniamo ogni passione, ma anche ogni preconcetto, per scoprire quello che c’è di amore autentico, non quello inflazionato e mercificato con il quale oggi si etichettano narcisismi ed egoismi, ma quello che ci fa desiderare il bene dell’altro come preminente su ogni nostra esigenza personale, bene dell’altro che si realizza in silenzio anche con il nostro sacrificio e la nostra sofferenza, ma che pur così ci ripaga con la gioia immensa di attuare amore
L’altro termine, la parola “razionale” si presenta a prima vista come asettica, parrebbe andare a braccetto con la parola “giustizia” e invece non è così. Quando diciamo che una data scelta o una data posizione è razionale dovremmo scavare per capire a che cosa risponde questo concetto di razionalità, se questo razionale sia in realtà il frutto di preconcetti sociali o di convenienza, e vada quindi a connotarsi più propriamente come frutto di un egoismo.

Ecco che allora il cerchio si chiude: il cuore e gli occhi di cui parla la Torà, sono le passioni, violente ed effimere, episodi sui quali non può costruirsi una vita, ma che invece causano deviazioni che allontanano dalla fiducia nel Signore.
Ma il sentimento vero, quello profondo, duraturo, incrollabile , quello che costa sacrificio, quello che a volte sembra non premiare, ecco questo sentimento, liberato dal razionale di convenienza, questo è il distillato della vera natura umana, quella verso cui dovremmo tendere universalmente, nonostante le deviazioni numerose che nella nostra vita noi facciamo perché siamo umani e siamo fallibili. Ma la consapevolezza di quale sia la verità sarebbe già un grande risultato da raggiungere. E il sentimento, quello vero, quello maiuscolo, è allineato con la Torà.

martedì 7 giugno 2011

Be-ha'alotechà

Siamo nei capitoli da 8 a 12 di Bemidbar, il libro dei Numeri. In questa parashà c’è una trattazione ricca di molti argomenti di diversa natura che spazia dal rituale alla narrativa storica d’insieme, e di dettaglio.

Si comincia con la prescrizione riguardante le luci della menorah, che devono illuminarne la parte anteriore verso chi guarda.

Segue la descrizione dei riti di purificazione dei Leviti, uomini in età da 25 a 50 anni addetti al servizio del santuario. La preparazione prevede la rasatura di tutto il corpo, la presentazione di offerte, la dimenazione davanti al Signore. Ne traiamo di questa dedicazione dei leviti una immagine efebica, del tutto opposta a quella dei nazirei, anch’essi dedicati al Signore ma di maschio aspetto selvatico perché irsuti di barba e capelli incolti, vigendo per questi ultimi il divieto di taglio e rasatura per tutto il tempo della dedicazione. Dunque i leviti accantonano la propria sessualità nel compiere il servizio al santuario, mentre i nazirei mantengono la sessualità con la quale però lottano per domarla e mantenere viva la propria dedica al Signore. A quest’ultimo proposito ci si richiama alla mente la figura di Sansone, nazireo, dedicato al Signore da sua madre, ed in eterna lotta con le sue pulsioni sessuali dalle quali sarà liberato solo dalla morte.

Si istituisce infine “Pesah shenì”, una seconda occasione di celebrare Pesah per chi non abbia potuto farlo nella prima celebrazione.

Dopo questi aspetti rituali si passa alla narrazione degli spostamenti del popolo verso il deserto di Paran. Abbiamo visto stabiliti, già nelle precedenti parashiot, il posizionamento del tabernacolo e delle tribù nell’accampamento, nonché quale fosse la sequenza prevista per la messa in marcia del popolo. Ora si stabiliscono i segnali che due trombe d’argento dovranno emettere per impartire gli ordini stabiliti di movimentazione.

Mosè volle provvedersi di una guida esperta per il viaggio, un conoscitore del deserto che essi avrebbero dovuto attraversare, e si rivolse per questo a Chovav, figlio del midianita Re’uel suo suocero, dicendo: “Noi partiamo verso il luogo del quale il Signore disse - Quello Io darò a voi - , vieni con noi e ti faremo del bene, giacchè il Signore ha promesso del bene ad Israele”. Ma Chovav rispose: “ Io non andrò; ma al mio paese ed al mio luogo di nascita andrò”, E Mosè disse: “Deh! Non abbandonarci giacché tu hai conosciuto il nostro accamparci nel deserto, e ci sei stato quale guida. Se verrai con noi, tutto il bene di cui il Signore ci beneficherà, lo faremo anche a te”. Che senso ha questo dialogo, perché Chovav prima rifiuta e poi accetta?

Il nome di Chovav ha le medesime radici di “chovev”, dare e avere amore. La prima offerta di Mosè è “noi ti faremo del bene”, è un compenso che viene promesso dal popolo per la sua prestazione, ma Chovav rifiuta perché non è quello il compenso che egli desidera. La seconda offerta di Mosè è ben diversa “tutto il bene di cui il Signore ci beneficherà, lo faremo a te” e l’offerta qui è il bene del Signore e questo non può che essere in primo luogo l’amore.

Il viaggio ha inizio e strada facendo cominciarono a manifestarsi difficoltà crescenti, fino all’aperta contestazione. Insofferenza alla disciplina, stanchezza, fame resero sempre più frequente la necessità di interloquire, incoraggiando ed esortando il popolo a proseguire verso la meta prefissata.
Per svolgere questa opera Mosè istituisce un’assemblea di settanta anziani con il compito di svolgere per lui quest’opera di persuasione e stimolo nei confronti del popolo.

C’è poi l’episodio di Eldad e Medad, che pur scelti a far parte dell’assemblea, stavano “profetizzando” nell’accampamento per loro conto. Mosè, richiesto da Giosuè per l’adozione di un provvedimento punitivo, si mostrò invece indulgente e condiscendente dicendo “Magari tutti del popolo del Signore fossero profeti!”

La parashà chiude con la contestazione di Mosè da parte di Miriam ed Aronne. I motivi della contestazione sono:
- l’avere Mosè preso con sé una donna kushit , di pelle scura, cosa che l’avrebbe portato a trascurare i suoi doveri coniugali;
- il ritenersi Mosè l’unico abilitato a ricevere la parola del Signore.
A questo punto il Signore chiarì ai tre che Egli avrebbe rivolto la parola solo a Mosè, mentre agli altri due avrebbe potuto apparire solamente in sogno o in visione.
Miriam per punizione venne colpita da lebbra e solo per l’intercessione del fratello Mosè potè rientrare guarita nell’accampamento dopo sette giorni, e riprendere la marcia con il popolo.

lunedì 6 giugno 2011

il significato del convertito per israele

Negli anni ’80 arrivò in Israele un forte flusso migratorio dall’allora Unione Sovietica. Gli emigranti si dichiaravano ebrei ed avevano con sé la documentazione per comprovarlo ed ottenere così l’ingresso nella terra promessa. Entrarono, ma molti di questi documenti si sarebbero rivelati ad un successivo e più attento esame insufficienti e forse addirittura non autentici. Entrarono, perché Israele aveva bisogno del loro apporto demografico, quanto a forza lavoro, a contributo professionale, a giovani da arruolare nelle forze armate.
Questo ingresso insufficientemente controllato fu criticato in seguito molto severamente in Israele. Si diceva che questa massa di gente, senza una vera appartenenza religiosa, che si ostinava a parlare solo russo, che nella notte disseminava le strade di Tel Aviv di bottiglie di birra, avrebbe compromesso la natura ebraica dello Stato. Molti ebrei ortodossi osservanti avrebbero voluto liberarsi di tutta questa gente che costituiva, ai loro occhi, dissacrazione ed impedimento alla realizzazione di uno Stato che essi desideravano ebraico e confessionale.
Molti giovani russi furono giudicati quindi non idonei per il riconoscimento della loro ebraicità, ma idonei per essere arruolati nella Tzahal e combattere per Israele. Molti di loro morirono combattendo e furono seppelliti non dentro un cimitero ebraico, ma fuori, accanto ad esso: la loro morte per Israele non era bastata a fare riconoscere la loro ebraicità.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma queste sono cose che sono successe in Israele, perché è uno Stato dove il Gran Rabbinato ha influenza determinante ed è un Paese in stato di guerra permanente; da noi non succederebbero mai! Io penso, invece, che da noi succederebbero. L’ebraismo italiano è organizzato nell’unione delle comunità ebraiche italiane, riconosciuta dalla Repubblica anche ai fini dell’8 per mille. Di questa unione fanno parte esclusivamente comunità ortodosse, dalle quali, tanto per capirsi, anche uno tra i più noti rabbini riformati americani, che non fosse figlio di madre ebrea, avrebbe non solo difficoltà a farsi riconoscere come rabbino, ma anche come ebreo.

Ma, a proposito, che cos’è l’ebraismo riformato? Cerchiamo di comprendere almeno un flash del problema. C’è una meravigliosa opera di Chaim Nachman Bialik che si intitola “Halachah we-Aggadah”, norma e leggenda, aspetti che vanno a costituire i due volti di una medesima creatura, due aspetti, regole ed accadimenti, in movimento, che si intrecciano e si rincorrono, che non sono mai statici. Come si colloca la “tradizione” rispetto ad Halachah e Aggadah? La “tradizione” esprime l’essenza identitaria di una comunità e riguarda:
- Il rito delle tefillot ed dei canti dello Shabbat e delle Feste;
- le abitudini alimentari;
- le 613 mitzvot, le 39 melachot e relative toledot;
- le usanze, i motti, le credenze proprie di ogni comunità.
La componente ortodossa dell’ebraismo italiano è gelosa delle proprie tradizioni, che, in quanto identitarie, ritiene di dover conservare resistendo ad ogni tentazione che, sia pure sulla base di enunciazioni logiche, tendesse a dimostrare la necessità di un loro aggiornamento.
L’ebraismo riformato, con una visione forse più prossima a quella di Bialik, desidera, da un lato, custodire la memoria della tradizione ma, dall’altro, verificare quali regole possano essere adeguate al mutare degli accadimenti, nell’intento di rendere ottimale l’osservanza della vita ebraica.
A titolo esemplificativo per lo Shabbat una delle melachot prescrive di non guidare auto e non usare mezzi di trasporto. Questa prescrizione era applicabile senza particolari problemi quando le comunità vivevano nei ghetti, luoghi in cui le distanze erano comunque contenute. Oggi che i ghetti non esistono più e le comunità sono disperse in ambiti cittadini anche di grande dimensioni, questa prescrizione può tradursi in un ostacolo per alcuni insormontabile e condurre alla rinuncia a partecipare alle attività religiose del Tempio ed, in linea indotta, all’assuefazione ad un diradarsi delle interrelazioni nell’ambito delle comunità stesse.
Per questo argomento l’ebraismo riformato potrebbe proporre, ad esempio, questa formulazione diversa: “Guida l’auto o prendi i mezzi di trasporto solo per andare al Tempio, quando non ti è possibile raggiungerlo altrimenti.”
Altro esempio eclatante è quello delle chiavi di casa che, se messe in tasca danno luogo ad un trasporto, che quindi è vietato, mentre, se sono infilate alla cintura sono indossate, cosa che è consentita. Anche qui non v’è ombra di dubbio che le chiavi di casa non si possono buttare, né lasciare a qualcun altro e che quindi vanno portate con sé.
Senza dilungarmi oltre direi che al giorno d’oggi, in Italia, ed in particolare a Roma, capitale dell’ebraismo ortodosso, l’ebreo riformato ed a maggior ragione il convertito riformato non ha un significato per l’ambiente ortodosso, che, seppure dovesse guardare in questa direzione, non avrebbe sostanziale interesse a vedere, perché non ha intenzione di cambiare alcunché.
Ben diversa è la situazione negli altri Paesi dell’Europa occidentale, negli Stati Uniti, Canadà, Argentina, ecc. nei quali sono presenti in percentuale comparabile le branche riformata, ortodossa e conservative dell’ebraismo, con notevole beneficio, secondo me, per il confronto d’idee e la vitalità che ne scaturisce. Nello stesso Israele sono riconosciute dallo Stato, a fianco dell’ebraismo ortodosso, anche le componenti riformate e conservative.
Quante difficoltà al giorno d’oggi per far sì che gli occhi vedano e riconoscano sé stessi nell’altro!

Eppure il Tanakh attribuisce onori allo straniero che vive insieme al popolo ebraico e stabilisce la piena parità del convertito con l’ebreo di nascita al punto tale da esprimere il monito dell’ostracismo per chi non rispetti tale parità.

Eppure il viaggio di quarant’anni nel deserto verso la terra promessa vide molti egiziani compierlo insieme al popolo ebraico cui si erano uniti.

Eppure la stirpe di Davide esce dalle viscere di donne convertite.

Donne straniere che furono giganti per il popolo ebraico al quale si unirono, donne determinate al conseguimento del loro obiettivo, forti ed, all’occorrenza, pronte anche ad usare persino l’inganno nei confronti dell’uomo, del maschio, così spesso ottuso perché troppo sicuro di sé, affinchè il disegno del Signore potesse realizzarsi.

In Genesi 38 si narra che Giuda, lasciati i suoi fratelli, si unì ad una donna cananea dalla quale ebbe tre figli maschi. In seguito Giuda prese anche per il suo primogenito Er una moglie cananea di nome Tamar. Ma Er morì ed a Tamar, rimasta vedova senza figli, Giuda promise che sarebbe andata in moglie ad un altro suo figlio secondo il precetto del levirato. Però anche il secondogenito morì ed a quel punto Giuda promise a Tamar il matrimonio con il suo terzo figlio, non appena questi fosse stato adulto. Ma, pur essendo trascorso il tempo necessario, Giuda esitava a mantenere la promessa fatta a Tamar per timore che anche il suo terzo ed ultimo figlio potesse morire.
A questo punto del racconto biblico emerge la personalità di questa donna, che fino ad allora era stata strumento del volere maschile, e che ora ribalta la sua posizione facendo del maschio lo strumento per l’affermazione dei propri diritti. Tamar si traveste da prostituta e si fa ingravidare da Giuda ricevendone un pegno, che le servirà ad attestare davanti a lui il proprio diritto.
Da questa unione di Giuda con Tamar nasceranno Pèrets e Zèrach e ad essi seguirà tutta la dinastia fino al Re David.

La Meghillat di Ruth vede protagonista la giovane moabita, cui spetterà il compito di riscattare la stirpe di Elimèlech dalla perdita della fiducia nella terra promessa dal Signore, per averla essa abbandonata emigrando nella terra di Moab. Dopo la morte di Elimèlech e dei suoi due figli maschi, Ruth accompagnerà la suocera Noemi nel suo viaggio di ritorno in Eretz Israel e qui sarà sposa a Boaz e dalla loro unione nascerà Oved, che generò Isciài e Isciài generò David.

Il significato del convertito per Israele nei testi biblici costituisce quindi linfa vitale per il popolo eletto e strumento per la realizzazione dell’era messianica, giacché il Mashìach verrà dalla stirpe di David.

giovedì 2 giugno 2011

i nomi nella meghillat di Ruth

Secondo un detto latino “nomen omen”, il nome è un presagio, ed i nomi nella meghillat di Ruth da soli ne anticipano la storia.

La Meghillat inizia narrando che al tempo dei Giudici ci fu una carestia nel paese ed un uomo di Beth-Lèchem di Giuda, andò ad abitare nelle campagne di Moab con la sua famiglia. L’uomo si chiamava Elimèlech, sua moglie Noemi ed i suoi due figli Machlon e Kilion.

Abbiamo detto che il nome è il presagio, ed i nomi di questa famiglia sono effettivamente un presagio che, particolarmente per i due figli, assume un connotato di tragicità.
Così Elimèlech significa “il mio Signore è Re” e ciò sarà per lui se riuscirà a mantenere la fiducia nel Signore, mentre se questa fiducia dovesse venir meno il significato rischierebbe di ribaltarsi e divenire “il Re è il mio Signore” e quindi la mia fiducia è nelle cose terrene.
Noemi è “colei che da piacere intorno a sé”, o più semplicemente “dolce” ed il suo nome non pone particolari problemi.
I due figli hanno invece nomi preoccupanti, giacché Machlon ha la stessa radice di “machalah” che significa “malattia”, mentre Kilion ha in sé la radice di “chilaion” cioè di “distruzione”.

I due figli sposano due donne moabite di nome Orpà e Ruth.
Orpà contiene “oref” che è la “nuca” e quindi è “colei che gira la nuca” ed infatti sarà quella che se ne andrà.
Ruth ha invece nel nome le lettere di “tor”, la “tortora”, il volatile da sacrificio. Il valore numerico delle lettere di “tor” sommato da 606, che aggiunto a 7 che sono le leggi noachidi alle quali Ruth sottostà in quanto non ebrea, fornisce il numero 613, che sono invece il totale delle “mitzvot” cui ella dovrà uniformarsi divenendo ebrea.

La meghillat ci dice che Elimèlech ed i due figli Machlon e Kilion muoiono lasciando sole Noemi e le due nuore Orpà e Ruth. Tutto questo in due mezze righe, senza commento, senza dolore, senza rimpianto, quasi fosse una liberazione da uno stato di costrizione. Si potrebbe essere indotti a chiedersi se la morte del padre e dei due figli, così improvvisamente spariti, sia stata una morte fisica reale, ovvero una morte spirituale e quindi in realtà un abbandono dell’anima ebraica oltre che delle tre donne. E’ un’ipotesi sostenuta, per i due figli proprio dal significato dei loro nomi, e per il padre dal fatto che egli lasciò la sua terra per stabilirsi definitivamente in terra straniera perché nella sua terra e nel Signore aveva perso la fiducia. Non andò a cercare provviste, come i fratelli di Giuseppe, ma scelse di andar via definitivamente dalla terra che il Signore aveva dato al suo popolo.

Noemi decide invece di tornare nella sua terra. Solo Ruth verrà con lei esprimendole il suo atto d’amore: “ovunque andrai tu, andrò anch’io, dormirò dove dormirai, il tuo popolo è il mio, il tuo Dio è il mio”.

Tornate a casa incontreranno Boaz, un parente ricco ed importante di Noemi, che sarà il loro “goel”, il riscattatore delle proprietà, che erano state vendute tanti anni prima da Elimèlech prima della partenza per la terra di Moab.
Boaz prende in moglie Ruth ed il loro figlio sarà capostipite della discendenza di Davide.
Boaz è anche il nome della colonna posta sulla sinistra davanti al Tempio di Salomone (1Re, 7, 21 e 2Cr, 3,17), al quale, in questo caso, viene dato il significato di “stabilità” per il tempio stesso, così come del resto nella meghillat il personaggio Boaz ha impersonato la stabilità per Noemi e Ruth.