domenica 17 marzo 2013

Tzav

(Le.6,1-8,36)

Anche questa “parashà”, come la precedente, tratta dei sacrifici che si compiono al Santuario. La differenza consiste nel fatto che “Vaikrà” è indirizzata all’offerente, mentre nella “parashà” di “Tzav” si tratta degli ordini rivolti ai Coanim.

La narrazione inizia con Il Signore che impartisce a Mosè la legge dell’”olà”, cioè dell’olocausto, del tutto bruciato. L’olocausto potrà ardere sull’altare dei sacrifici per tutta la notte fino al mattino, quando il sacerdote, indossati gli abiti di lino, provvederà a raccoglierne la cenere presso l’altare, per portarla poi, indossati altri abiti, fuori dall’accampamento in un luogo puro. Il fuoco dell’altare non dovrà spegnersi mai.

Molteplici quindi potranno essere le specie di sacrificio, diversi i motivi per cui esso si presenta, diverse le modalità con cui si offre, ma una cosa deve essere costante e immutabile, ed è il fuoco dell'altare su cui il sacrificio deve presentarsi. L’insegnamento personale sotteso da questa prescrizione, assimilando il fuoco del’altare alla nostra aspirazione alla santità, è che diversi possono essere i nostri sentimenti, diverse le vie o i motivi che ci spingono a ricercare l’avvicinamento al Signore, ma la disposizione dell'animo deve essere sempre la stessa.

Ripetutamente la Torà ci mostra il fuoco come l’elemento che avvolge la presenza del Signore o dei suoi messaggeri: in un fuoco appare il Signore a Mosè sul roveto; in un fuoco racchiuso in una nube Egli scende sul Sinai; in un fuoco si posa sul Santuario quando esso è inaugurato. Questo fuoco è anche quello che, in senso metaforico, arde in noi quando ci sentiamo attratti verso il Signore e proviamo il desiderio di compiere il bene e amare i nostri simili. Sarà questo il fuoco che dovremo rinnovare ogni giorno della nostra vita a partire dal nostro risveglio, quando ringraziamo il Signore per averci restituito la nostra anima, ancora una volta rinnovata e purificata.

Prosegue la “parashà” con il dettare la legge per l’offerta farinacea, della quale una parte sarà bruciata sull’altare, mentre ciò che resta sarà destinato al sostentamento di Aron ed i suoi figli. Ogni figlio maschio di Aron ne potrà mangiare sotto forma di pani azzimi in un luogo sacro.

I sacerdoti presenteranno inoltre al Signore un’offerta farinacea che verrà interamente arsa. L’offerta sarà presentata quotidianamente dal Sommo Sacerdote, mentre la presentazione da parte degli altri sacerdoti avverrà nel giorno della loro unzione. Faranno inoltre i sacerdoti il sacrificio di “chattat”, di espiazione, scannando l’offerta animale nello stesso luogo in cui viene scannato l’olocausto e il sacerdote che presenta il “chattat” ha diritto di precedenza nel mangiarne la carne, poi la carne viene divisa tra tutti i sacerdoti che sono di turno al Santuario nel giorno della presentazione del sacrificio.

Il sacrificio di ”asciam” verrà compiuto scannando l’animale e spargendone il sangue intorno all’altare. Il grasso, la coda, i due reni e la membrana del fegato saranno interamente arsi sull’altare. Il rimanente potrà essere mangiato dai sacerdoti di turno. Il rituale per l’”asciam”, che è come quello del “chattat” e ne segue le medesime leggi, e l’offerta appartiene al sacerdote che compie l’espiazione.
Le pelli degli animali offerti in olocausto restano di appartenenza dei sacerdoti che effettuano i sacrifici e dei sacerdoti di turno.

Per queste “mitzvot” l’ordine viene dato usando il verbo “zav”, cioè di comandare ai Coanim di fare una certa cosa in un certo modo. I Coanim eseguiranno quindi i rituali delle offerte perché a ciò comandati e non per loro libera adesione e perciò con agiranno con l’umiltà derivante dalla sottomissione al comando. I Coanim perciò sono privilegiati in mezzo al popolo d’Israele, ma devono essere consapevoli del fatto che il loro privilegio è rigorosamente finalizzato alla celebrazione del culto Divino. Il sacerdote è garante della continuità del servizio del Santuario ed affinché non insuperbisca per l’avere indossato le vesti sacerdotali, deve svolgere come primo compito un lavoro umile e cioè rimuovere dall’altare la cenere del giorno precedente. L’insegnamento è rivolto a tutti noi affinché non sia l’apparenza a nutrire la nostra religiosità, ma la concretezza delle azioni, anche se dovessero risultare in qualche modo gravose, così come rimuovere la cenere può costare al sacerdote la perdita del candore delle sue vesti.

E questa è la legge del sacrificio cruento di shelamim che si presenti al Signore. Se qualcuno lo presenterà come rendimento di grazie presenterà oltre al sacrificio cruento di ringraziamento pani azzimi intrisi nell’olio e pani azzimi di forma allungata unti con l’olio e fior di farina ammollita in olio bollente, cotto in pani intrisi nell’olio. Insieme con pani lievitati presenterà il suo sacrificio, oltre al sacrificio di shelamim di ringraziamento.” (Le.7,11-7,13)

Shelamim” sono le offerte di pacificazione, cioè offerte di animali compiute volontariamente. La radice verbale che dà il nome all’offerta viene dalla parola “shalom”, pace. Una parte dell’offerta viene arsa sull’altare e la rimanente viene consumata dal Sacerdote e dall’offerente. Si realizza così l’armonica pacificazione tra la Divinità, il celebrante e l’offerente. Ma il termine “shelamim” ha anche però la medesima radice di “shallem”, che significa integro, venendo così ad esprimere che l’offerente non vuole espiare una trasgressione, bensì vuole perfezionarsi e rendere partecipe il Signore ed il suo prossimo della propria gioia.

Nella categoria dei “shelamim” rientra l’offerta di ringraziamento “korban todà”. I Saggi hanno individuato quattro circostanze nelle quali le persone sono tenute a presentare un “korban todà”: quando si è sopravvissuti ad un viaggio nel deserto (o ad un viaggio pericoloso), ovvero alla prigione, oppure ad una malattia grave o, ancora, ad un viaggio per mare. L’importanza di questa offerta e la sua attualità sono avvalorate dal Midrash (Vaikrà Rabbà 9:7), che sostiene che in futuro non ci sarà più bisogno di offerte espiatorie perché Israele non peccherà più. Allora continueranno però ad essere presentate offerte di ringraziamento. Le offerte di ringraziamento sono quindi il cardine del servizio del prossimo Santuario e lo studio delle loro regole è un’importante occasione di preparazione per i tempi futuri oltre che di riparazione per il presente.

I Maestri hanno approfondito il concetto di ringraziamento rammentando che fu “Leà” la prima a ringraziare il Signore e lo fece in occasione della nascita del suo quarto figlio, cui pose il nome di “Jeudà”, che deriva dalla parola “hoda”, il cui significato è rendere omaggio (Gen.29,35). Il nome "Jeudà" è formato da cinque lettere. Quattro sono le lettere del nome del Signore, più la lettera “dalet” (valore numerico quattro) che secondo i Maestri esprime i quattro punti cardinali e quindi tutta la terra. “Jeudà” è colui che porterà il dominio di D-o su tutti punti cardinali poiché da lui discenderà il Messia. Sembra quindi che ringraziare sia un operazione da compiersi quando riceviamo qualche cosa in più rispetto a ciò che speravamo o abbiamo meritato.

La penultima benedizione della “Amidà”, che oggi sostituisce il sacrificio quotidiano, è la benedizione di “modim” (noi ti ringraziamo). Essa è l’unica per la quale l’officiante non può essere delegato dal pubblico: i Maestri hanno stabilito che mentre lo “shaliach zibbur” pronuncia tale benedizione il pubblico reciti il “modim derabbanan”, che è un’apposita formula di ringraziamento. Questo perché il ringraziamento deve necessariamente essere personale.

Quando noi sapremo ringraziare il Signore quotidianamente, perché avremo compreso che tutto quello che fa è sempre finalizzato al bene, allora saremo pronti ad aprire le porte al mondo futuro. In questo senso il dominio del Signore e persino il Suo Nome non saranno completi fino a che non ci sarà la redenzione finale. La redenzione, le cui radici si individuano nella nascita di “Jeudà”, progenitore del Re Messia, che nasce per un atto di umiltà, compiuto da “Leà” che ci ha insegnato a ringraziare il Signore.



Haftarà di Tzav
(estratto da Ger.7,21-9,23)

“ … non ho parlato ai vostri padri di olocausti o di sacrifici per comandare loro di offrirli. Questo è invece quello che ho comandato loro: - Date retta alla Mia voce ed Io sarò il vostro D-o, e voi sarete il Mio popolo; seguite la via che Io vi comanderò se volete avere bene.”

“ … ma essi non Mi hanno dato retta, non Mi hanno porto orecchio, si sono comportati con testardaggine, hanno fatto ancora peggio dei loro padri.”

“ … gli abitanti della Giudea hanno fatto ciò che a me dispiace, detto del Signore, ed hanno messo le loro abbominazioni nella casa che porta il Mio nome e l’hanno resa impura.”

“Ed Io farò cessare dalle città della Giudea e dalle strade di Gerusalemme ogni voce di gioia e di giubilo, ogni voce di sposo e di sposa, e tutto il paese sarà desolato.
In quel giorno, detto del Signore, si trarranno fuori dai loro sepolcri le ossa dei re e dei principi di Giuda, le ossa dei profeti e degli abitanti di Gerusalemme. E saranno esposte al sole, alla luna e a tutti gli astri del cielo, … “

domenica 10 marzo 2013

Vaikrà

(Le.1,1-5,26)

E chiamò”, con queste parole inizia il terzo libro della Torà, il Levitico. Il libro è formato da una sequenza di gruppi di capitoli che trattano argomenti che sono in successione logica coordinata e che in gran parte interessano i sacerdoti appartenenti alla tribù di Levi:

a) I capitoli da uno sette trattano dei vari tipi di sacrifici che sono l’olocausto, il sacrificio incruento o oblazione, il sacrificio pacifico o di contentezza, il sacrificio di espiazione, il sacrificio di riparazione.

b) I capitoli da otto a dieci riguardano l’inizio del culto e quindi la consacrazione degli arredi sacri, dell’altare e dei sacerdoti e narrano anche dei primi sacrifici e dell’errore commesso da Nadab e Abiu, figli di Aron, nell’offerta dell’incenso.

c) I capitoli da undici a quindici trattano delle leggi della purità sia degli animali, sia delle azioni e di alcuni stati particolari della vita e danno le norme per la purificazione e la riammissione al cerimoniale di culto della comunità.

d) Il capitolo sedici è dedicato al rituale del giorno dell’espiazione.

e) I capitoli da diciassette a ventisei trattano delle leggi di santità e contengono prescrizioni riguardanti il Santuario, prescrizioni morali, prescrizioni rituali, in gran parte riguardanti i sacerdoti, e poi prescrizioni liturgiche con le date delle feste religiose.

f) Il capitolo ventisette infine reca prescrizioni riguardanti i voti e indica la misura delle tariffe e dei riscatti.

La nostra parashà dunque inizia con il compiere l’elencazione e la descrizione dei vari tipi di sacrifici da presentarsi al Santuario, che potevano essere:

a) di olocausto e quindi consistenti in animali da ardersi completamente in offerta al Signore;

b) di oblazione, che consistevano in offerte non cruente e di tipo farinaceo non fermentato, delle quali una parte veniva arsa in offerta al Signore e la rimanente era di appartenenza di Aron e dei suoi figli;

c) “shelamim”, pacifico o di contentezza che consisteva nell’ardere in offerta al Signore il grasso, la coda, le interiora, i reni, la rete del fegato;

d) “chattat”, di espiazione per una mancanza commessa inavvertitamente, che avveniva, come per il sacrificio di contentezza, con l’arsura del grasso e delle altre parti , ma in più prevedeva l’arsura del resto della carcassa da compiersi in un luogo puro fuori dal campo;

e) “asham”, di riparazione o di pentimento per essersi contaminati con impurità, o per aver contravvenuto ad un giuramento, o aver defraudato il prossimo, o aver commesso una rapina, che poteva essere cruento, con aspersione del sangue intorno all’altare dei sacrifici, o non cruento, come per l’oblazione, a seconda del tipo e della gravità del peccato commesso.

La parola “korban” è usualmente tradotta in italiano con il termine “sacrificio”, che esprime l’atto con il quale ci priviamo di qualcosa e sottintende una sofferenza che questa privazione provoca all’offerente. Analogamente il termine usato in italiano per tradurre la parola “teshuvà” è “pentimento”, e anche questo termine sottintende uno stato di sofferenza per avere avuto comportamenti giudicati, con il senno di poi, non più condivisibil . Ora è bene puntualizzare che i concetti di “sacrificio” e “pentimento”, espressi dai due termini in italiano, sono estranei allo spirito della “Torà”.

Korban” e “Teshuvà” esprimono infatti, rispettivamente, il desiderio di riavvicinamento ed il ritorno al Signore. I due termini pertanto non assumono una connotazione negativa che si prefigga di umiliare l’individuo ed i suoi comportamenti per rimarcarne la pochezza rispetto alla grandezza del Signore, bensì si propongono, in modo positivo, di esaltare l’aspirazione ed il ritorno dell’essere umano all’essenza divina dalla quale egli proviene.

Soffermandoci ora sull’aspirazione umana al ritorno verso la santità, resta da comprendere la funzione del “Korban” , che è l’atto materiale e concreto con il quale l’offerente manifesta il suo desiderio e la sua volontà di ritorno alla santità. Ci si può chiedere per quale motivo questo atto materiale sia ritenuto necessario e perché non sia invece giudicato sufficiente l’intimo convincimento e il desiderio del ritorno ad una condizione di condivisione della santità.

Segnalo al proposito la citazione riportata da Rav Jonathan Pacifici nel suo commento a questa parashà redatto nell’anno 5760. Il “Sefer Hachinuch”, cioè il “Libro della formazione”, che è un trattato attribuito a Aharon Halevi di Barcellona di commento alle 613 “mitzvot”, ed a cui è caro il principio secondo il quale “i cuori vanno appresso alle azioni”, spiega che il processo del ritorno al Signore, come ogni altra cosa nella “Torà” non può rimanere fondato solamente sul piano delle idee perché queste, come tali, sono volatili: solo l’azione riesce ad incidere nel cuore dell’uomo tracciando la retta via.

Assodata quindi la necessità di un’azione concreta che esprima il desiderio del ritorno alla santità, resta da capire perché questa azione debba consistere nel sacrificio di un animale. Sempre il “Sefer Hachinuch” spiega che il corpo dell’essere umano e quello degli animali sono in pratica equivalenti e che è la ragione l’elemento che distingue l’essere umano dall’animale:

…siccome il corpo dell’essere umano esce dalla categoria della ragione nel momento della trasgressione, egli deve sapere che entra in quel momento nella categoria degli animali … e per questo è stato comandato di prendere un pezzo di carne come lui e di portarlo nel luogo scelto per l’elevazione della ragione e cancellare il suo ricordo … affinché disegni nel suo cuore con forza che la sua questione di un corpo senza ragione è cancellata ed annullata completamente, e gioisca nella sua parte di anima raziocinante che gli ha concesso e che essa esiste per sempre.

Per comprendere appieno la “mitzva” del sacrificio animale è da tener presente che, dopo il diluvio, fu consentito al genere umano di nutrirsi di alcuni animali “kasher”, alla stregua dei prodotti vegetali della terra, sicché gli animale allevati dall’uomo furono considerati come un “raccolto” alla pari dei prodotti della terra, necessario al sostentamento e disponibile per l’offerta al Signore.

Il “Sefer Hachinuch” afferma la coincidenza dell’anima umana con la sua capacità di discernimento. In particolare la volontà umana “razon” assume rilevanza nell’ambito delle “Karbanot” in quanto tendente al conseguimento della pacificazione. Con questo ultimo passaggio quindi il “Korban” viene identificato come lo strumento per la pacificazione tra l’uomo e il Signore.

Questo naturalmente finché è esistito il Tempio. La distruzione del Tempio ad opera dei Romani nel 70 e.v. ha reso tecnicamente impossibili i sacrifici, giacché la “Torà” imponeva che questo fosse l’unico luogo in cui fosse possibile effettuarli. Da allora il sacrificio è stato sostituito dalla preghiera, quale concreta manifestazione del desiderio di ritorno alla santità.



Haftarà di Vaikrà
(estratto da Is.43,21-44,23)

Il tuo antico padre ha peccato, e coloro che intercedono per te hanno mancato verso di Me. Ed Io ho reso profani i principi consacrati, ed ho abbandonato Giacobbe alla distruzione ed Israele agli oltraggi.

Ricorda questo, Giacobbe, ricordalo Israele, perché tu sei Mio servo; ti ho creato perché sia Mio servo, Israele, non dimenticarti di Me. Io annullo le tue mancanze come una nube, annullo i tuoi peccati come il fumo; ritorna a Me perché Io ti salvo. Cantate, o cieli, perché il Signore ha compiuto prodigi, innalzate grida di gioia, o terre, situate in basso, prorompete in canto, monti, selve e loro alberi, perché il Signore redime Giacobbe e si mostra glorioso con quello che fa in Israele.

lunedì 4 marzo 2013

Pekudè

(Es.38,21-40,38)

Questa parashà inizia con il resoconto delle quantità di oro, argento e rame impiegate nella realizzazione delle opere per il Santuario e prosegue poi con l’elencazione del vestiario sacerdotale confezionato ivi compreso il dorsale ed il pettorale con i loro castoni di pietre dure e preziose.

Per la realizzazione delle opere in oro erano stati impiegati in tutto ventinove kiccar e settecento trenta sicli, calcolati secondo il siclo del Santuario, vale a dire, poiché un kiccar corrispondeva a tremila sicli e il siclo del Santuario pesava circa dieci grammi, che l’oro impiegato era in totale pari a oltre ottocentosettantasette chilogrammi.

Il peso dell’argento utilizzato ammontava a complessivi cento kiccar e millesettecentosettantacinque sicli, vale a dire oltre tremila chilogrammi e per questo quantitativo venne impiegato la disponibilità proveniente dal riscatto dei primogeniti. Il peso del rame fu di settanta kiccar e duemilaquattrocento sicli, pari a oltre duemiacento chilogrammi.

I figli d’Israele presentarono a Mosè le opere realizzate ed egli constatò che queste erano state realizzate così come erano state ordinate:

Esattamente come il Signore aveva comandato a Mosè, così i figli d’Israele eseguirono tutto il lavoro. Mosè esaminò tutto il lavoro e constatò che essi l’avevano eseguito precisamente secondo quanto il Signore aveva ordinato; quindi Mosè li benedisse.

Il Signore disse a Mosè che l’erezione del Tabernacolo, servendosi di tutti i materiali già preparati nonché l’unzione di Aron e dei suoi figli sarebbe avvenuta nel primo giorno del primo mese dell’anno secondo dall’uscita dall’Egitto. Così avvenne e nel giorno indicato dal Signore furono collocate le basi, tirate su le colonne ed eretto il Tabernacolo.

Mosè collocò le tavole della Testimonianza nell’Arca e posizionò su di essa il coperchio e quindi l’Arca fu introdotta nel Tabernacolo, nel Santo dei Santi oltre la tenda della Testimonianza. Tutto fu collocato: la tavola con i pani di presentazione, il candelabro, l’altare dei profumi e fuori, davanti all’ingresso del Tabernacolo, l’altare degli olocausti e la conca delle abluzioni dove Mosè, Aron e i suoi figli si lavarono le mani e i piedi. Fu recintato il cortile e disposta la tenda d’ingresso:
Quando tutto fu terminato discese la nube divina:

Allora la nube avviluppò la tenda della radunanza e la maestà divina riempì il tabernacolo. Mosè non poté penetrare nella tenda della radunanza, perché la nube posava su di essa e la maestà divina riempiva il Tabernacolo. Quando la nube si ritirava da sopra il Tabernacolo, i figli d’Israele si spostavano da un luogo all’altro. Ma quando la nube non si ritirava, essi non si muovevano fino al momento in cui la nube si dipartisse. Poiché la nube divina era sul Tabernacolo di Giorno, e durante la notte vi era in essa fuoco agli occhi di tutta la casa d’Israele durante tutti i loro viaggi.

Termina qui il libro dell’Esodo, con il perdono quindi del Signore per il Suo popolo, che si era macchiato del più grave peccato contro cui era stato sempre ammonito: l’idolatria, manifestatasi in questo caso con l’adorazione del vitello d’oro. Termina però il libro con una prova superata dal popolo: la costruzione del Santuario che offre al Signore, perché con il Signore ha stretto un patto. E il Signore, constatato che i figli d’Israele hanno edificato il Santuario, rispettando tutte le mitzvòt costituite dalle minuziose prescrizioni che Egli ha impartito, la prima delle quali è il rispetto dello Shabbat, scende tra loro manifestando la Sua maestà per assisterli nel loro viaggio. L’essere umano quindi, creatura facile alla dimenticanza, riuscirà ad accogliere il Signore dentro di sé ed ottenerne la guida solamente se riuscirà a costruire anch’egli, nella sua individualità, il Santuario da dedicare al Signore. In questo riuscirà eseguendo tutte le mitzvòt prescritte per regolare la sua vita, prima e fondamentale delle quali è l’osservanza dello Shabbat quale giorno di cessazione dalle attività umane e da dedicare allo studio, alla preghiera ed all’amore per il Signore.

Questa disciplina di vita potrà apparire impegnativa e gravosa, e lo è sicuramente, ma è l’unico modo per impedire che l’essere umano, sia pure intimamente convinto della fedeltà al Signore, si smarrisca progressivamente perdendo ogni giorno un pezzo di questa sua fedeltà.



Haftarà di Pekudè
(di rito tedesco, estratto da 1Re.7,51-8,21)

Si narra della collocazione dell’Arca nel Tempio, in analogia con la parashà che narra della collocazione degli arredi nel Santuario.

I sacerdoti introdussero l’arca del patto del Signore nel suo luogo nel Devir della casa, nel luogo santissimo, sotto le ali dei Cherubini.

“Quando i sacerdoti uscirono dal luogo santissimo, la casa del signore si riempì della nube. E i sacerdoti non poterono restare a fare il servizio a causa della nube, perché la casa del Signore era piena della maestà divina.


Haftarà di Pekudè
(di rito italiano e spagnolo)
Vedi Haftarà di Vaiakel di rito tedesco

Vaiakel

(Es.35,1-38,20)

Esaurita la fase di progettazione del Santuario, siamo arrivati ora alla realizzazione dell’opera. Mosè chiamò a raccolta i figli d’Israele, ma per prima cosa riferì il comandamento del Signore relativo al rispetto del Sabato:

Ecco le cose che il Signore ha comandato di fare. Per sei giorni si lavorerà, ma il settimo giorno sarà per voi giorno di riposo assoluto, Sabato consacrato al Signore; chiunque faccia qualche lavoro in questo giorno, sarà fatto morire. Non accenderete fuoco in tutte le vostre dimore nel giorno di Sabato.

Il fatto che questo comandamento venga enunciato per primo non è frutto di casualità, ma serve per affermare il principio che il Sabato è la finalità della creazione, ricordiamoci infatti che, dopo aver creato l’uomo nel sesto giorno, il Signore si riposò e benedisse e santificò il settimo giorno. Lo Shabbat è la principessa, la sposa che accogliamo il venerdì sera con il canto del Lechà Dodì :

Andate, andiamo incontro allo Shabbat, che è fonte di benedizione, dall’inizio dei tempi fu consacrato, fine della Creazione, ma presente nel pensiero fin dall’inizio.

La costruzione del Santuario avrebbe dovuto avvenire quindi rispettando per prima cosa la mitzvà dello Shabbat, perché il rispetto dello Shabbat doveva essere mitzvà dominante, anche rispetto alla necessità di realizzare il luogo dove il Signore si sarebbe manifestato al Gran Sacerdote. E se lo Shabbat fosse stato rispettato allora avrebbe potuto realizzarsi il Santuario, se invece lo Shabbat non fosse stato rispettato non ci sarebbe stata la costruzione del Santuario per il Popolo d’Israele. Se l’ebreo non rispetta lo Shabbat non ci sarà santificazione per lui.

Mosè riferì quindi che tutti avrebbero dovuto fare un’offerta al Signore in oro, argento, rame, ma anche lana azzurra, porpora, scarlatto, lino e pelo di capra, pelli di montone tinte di rosso, pelli di “tachash” e legno di acacia e poi olio per l’illuminazione, aromi per l’olio di unzione e incenso, infine pietre d’onice da incastonare nel pettorale e nel dorsale dei paramenti sacri di Aron. Inoltre tutti coloro che avevano capacità tecniche e manuali avrebbero dovuto presentarsi per collaborare alla realizzazione delle opere del Santuario.

Iniziò Mosè con l’elencare al popolo tutto ciò che era da realizzarsi e quindi: il Tabernacolo, l’Arca, la tavola, il candelabro, l’altare dei profumi e quello per gli olocausti, la tenda di ingresso al tabernacolo, e poi ancora la conca, le cortine del cortile con le loro colonne di sostegno e la tenda d’ingresso al cortile. Disse anche dell’olio per l’illuminazione e dell’olio per l’unzione e dei profumi. Infine parlò dei vestiti sacri di cui occorreva provvedere Aron e i suoi figli.

Quando ebbe terminato, accorsero in folla uomini e donne recando le offerte di oro, argento e rame e lana azzurra, porpora e scarlatto e lino, pelo di capra e pelli di montone e pelli di “tachash”. Chi possedeva legname di acacia lo consegnò e tutte le donne che erano abili a lavorare la lana recarono filati di lana, di lino e di pelo di capra. I capi delle tribù recarono le pietre d’onice per il dorsale ed il pettorale.

Disse Mosè al popolo che il Signore aveva designato Betsalel della tribù di Giuda per concepire le opere artistiche in oro, argento e rame, per incastonare le pietre e per intagliare il legno. Betsalel avrebbe anche insegnato ad altri, come aveva fatto con Aholiav della tribù di Dan, affinché insieme potessero concepire e portare a termine tutte le opere necessarie, compresi gli arazzi, la tessitura ed il ricamo delle stoffe.

Betsalel con Aholiav ed i loro collaboratori presero le offerte che il popolo aveva portato ed iniziarono a programmarne l’utilizzo, accorgendosi ben presto della loro sovrabbondanza. Di ciò avvisarono Mosè che disse al popolo di cessare dal portare offerte per il Santuario.

Era accorso dunque l’intero popolo a portare le sue offerte e qui erano accorsi tutti, uomini e donne, e questo era avvenuto dopo la punizione per l’adorazione del vitello d’oro, e fu il riscatto del popolo che portò le sue offerte avendo già ascoltato le parole con le quali Mosè aveva riaffermato il comandamento del rispetto dello Shabbat.

Cominciarono gli artisti e gli artigiani con la costruzione del Tabernacolo e lo portarono a termine con tutte le opere in legno in argento in oro e rame, compresa la tenda interna che separava il Santissimo e la tenda esterna di ingresso al tabernacolo.
Costruì quindi Betsalel l’Arca, corredata dalle stanghe e dal coperchio d’oro sormontato da due cherubini; fece la tavola in legno di acacia, anch’essa ricoperta d’oro e con le sue stanghe per il trasporto; fece il candelabro tutto d’oro e in un sol pezzo; e poi l’altare dei profumi e l’altare dell’olocausto; fece le cortine del cortile e le colonne di sostegno.

Betsalel della tribù di Giuda, intagliatore, ebanista, orefice, ideatore dotato dal Signore del genio necessario a concepire ed eseguire. Oggi a Gerusalemme c’è l’Accademia delle Arti e del Design che porta il suo nome, erede degli artisti ed artigiani che fecero il Santuario e ne curarono la manutenzione.

I Saggi si ispirarono a questa parashà, che comanda l’astensione dai lavori di realizzazione del Santuario nel giorno dello Shabbat, per definire le trentanove categorie di lavori dalle quali occorre astenersi il Sabato.


Haftarà di Vaiakel
(di rito tedesco, estratto da 1Re.7,40-50)

Vengono qui enumerati oggetti e suppellettili consacrati al culto del Tempio di Gerusalemme, con richiamo agli oggetti elencati nella parashà.

“ … Salomone fece tutti gli arredi della casa del Signore: l’altare d’oro, la tavola d’oro su cui stava il pane di presentazione; i candelabri d’oro puro, cinque a destra e cinque a sinistra … “



Haftarà di Vaiakel
(di rito italiano e spagnolo, estratto da 1Re.7,13-26)

Si parla della costruzione del Tempio, in analogia alla costruzione del Santuario di cui parla la parashà.

“Il re Salomone mandò a prendere Chiram da Tiro. Egli era figlio di una donna vedova della tribù di Naftali, e suo padre era un abitante di Tiro, lavoratore del rame, ed era pieno di esperienza, di intelligenza e di conoscenza per eseguire qualsiasi lavoro in rame. Egli andò dal re Salomone ed eseguì tutto il suo lavoro.”