domenica 26 maggio 2013

Shelach lechà

(Nu.13,1-15,41)

Qui si narra di come il popolo, già uscito dalla terra d’Egitto e messosi in marcia per raggiungere la terra promessa, sia arrivato alle soglie del suo traguardo, senza però raggiungerlo ed abbia ricevuto invece la punizione di dover vagare ancora per quarant’anni nel deserto.
L’abbiamo visto, questo popolo, ricevere la Legge, e sappiamo come abbia proceduto per l’edificazione del Santuario, e conosciamo l’ordinamento secondo cui fu stabilita la celebrazione dei suoi riti religiosi, il suo schieramento sul campo e la procedura e l’ordine adottati per i suoi spostamenti.
Tutto ciò darebbe l’idea di un popolo-esercito organizzato e disciplinato, ma sappiamo anche delle traversie di questa massa di persone in movimento, sappiamo delle lamentele, delle contestazioni, delle nostalgie per la terra di schiavitù, che sin qui hanno costellato il suo percorso.

Ora, arrivati alle soglie della terra promessa, il Signore dice a Mosè:

“Manda degli uomini ad esplorare il paese di Canaan che Io sto per dare ai figli d’Israele. Un uomo per ogni tribù paterna, ognuno sia un preposto fra loro.

Gli esploratori designati partirono quindi con il compito di esaminare le ricchezze del paese, le sue risorse agricole, la fertilità della terra, ma anche per scoprire la consistenza e l’indole delle popolazioni abitanti, nonché la loro organizzazione e se le città esistenti fossero o meno fortificate.
Tornarono dopo quaranta giorni e riferirono che il paese era veramente stillante latte e miele, perché era fertile e produceva frutti in abbondanza, però le città erano fortificate e le popolazioni che le abitavano erano forti, e gli abitanti di quella terra apparivano fisicamente come giganti al confronto con loro, che invece sembravano come piccole locuste.

Solamente Caleb e Giosuè, che pure avevano fatto parte del gruppo degli esploratori, si espressero riguardo al possibile conflitto con gli abitanti della terra promessa dicendo che non bisognava nutrire alcun timore perché il Signore era con il popolo di Israele.

Ma il popolo mostrò di non avere fiducia nel Signore e di non avere il coraggio e la determinazione necessari per la conquista della terra promessa. Nuovamente cominciarono i lamenti ed i proponimenti di tornare nella terra d’Egitto, dove dopo tutto non avrebbero corso il rischio di essere passati a fil di spada da popolazioni agguerrite e di vedere le proprie donne ed i propri figli diventare prede di guerra.

A questo punto ci viene da pensare: ma chi mai potrà sperare di raggiungere una meta a lungo desiderata, se non è in possesso del coraggio e della determinazione necessari a superare gli ostacoli che si frappongono al suo raggiungimento? Come possiamo affrontare una prova che ci si presenta davanti se non abbiamo fiducia nella possibilità di superarla? Nella nostra vita quotidiana sono molte le “terre promesse” da conquistare, gli obiettivi al cui raggiungimento si frappongono ostacoli. Sono gli esami a scuola, i concorsi o le selezioni per le posizioni lavorative, gli obiettivi di lavoro nei quali crediamo e che vogliamo realizzare. Sono la famiglia, i figli, l’aiuto che riusciamo a dare loro. Ecco tutte queste cose vanno fortemente volute e vanno conquistate, quindi con fiducia e determinazione, e dobbiamo essere consapevoli del fatto che senza queste qualità tutto resterà affidato al caso, nella migliore delle ipotesi, ovvero tutto sarà alla mercé dei nostri avversari.

Il popolo d’Israele aveva l’organizzazione necessaria per compiere l’impresa, ma aveva perso il coraggio di battersi contro gli altri popoli e soprattutto aveva perso la fiducia nel fatto che il Signore, schierato dalla sua parte, lo avrebbe portato alla vittoria.

Il Signore dispose allora la punizione per il suo popolo, stabilendo che nessuno di quegli uomini, dall’età di vent’anni in su, ad eccezione di Caleb e Giosuè, sarebbe mai entrato nella terra promessa e che il popolo avrebbe continuato a vagare ancora per quarant’anni nel deserto, prima di potervi accedere.

Il Signore dettò quindi le disposizioni riguardanti i sacrifici, che il popolo avrebbe dovuto effettuare, quando fosse finalmente entrato nella terra promessa. I sacrifici di animali e di farinacei, di olocausto e di shelamim, offerti sia da parte del popolo, sia da parte degli stranieri che, dimorando insieme, sarebbero stati soggetti alle medesime norme ed agli stessi diritti.

Molte volte la Torà fa riferimento a questi stranieri, che vivono in mezzo al popolo d’Israele e che perciò sono soggetti alle medesime leggi e questo ci fa pensare che la loro presenza doveva essere numericamente significativa, che molti dovevano essersi uniti al popolo d’Israele a partire dall’uscita dall’Egitto e durante il viaggio.

Ci fa pensare anche, attualizzando il viaggio e dando ad esso il significato di un percorso personale che dura tutta una vita, che è irto di ostacoli, ma ci conduce ad una nuova condizione di consapevolezza della fiducia nel Signore e della forza che da ciò ci deriva. Ed è la presenza dello straniero che ci consente di connotare come universale tutta la narrazione, potendo sussistere altrimenti una visione limitativa connotante il popolo eletto esclusivamente limitato al solo popolo ebraico.

Segue poi l’episodio dell’uomo trovato di Sabato nel deserto a raccogliere legna e condotto davanti a Mosè ed Aronne. Per quest’uomo il Signore dispose la morte per lapidazione da eseguirsi fuori dall’accampamento. La punizione, che a prima vista potrebbe apparirci eccessivamente severa e feroce, deve giustificarsi considerando che il Sabato costituisce il Santuario d’Israele, il giorno del Signore, che ci ama, ed al quale dobbiamo rispetto, obbedienza e amore.

La parashà si conclude con i versetti che sono la parte finale dello Shemà: i figli d’Israele facciano delle frange agli angoli delle proprie vesti, affinché vedendole ricordino ed eseguano tutti i precetti che il Signore ha dato loro, senza deviazioni per seguire il proprio cuore o i propri occhi, che li renderebbero infedeli.

Sto pensando ad un libro scritto da Susanna Tamaro qualche anno fa, che si intitolava “Va’ dove ti porta il cuore”, che parrebbe in chiara opposizione alla linea comportamentale che ci dice di anteporre ad ogni cosa il rispetto dei precetti dettati dal Signore. In realtà la Tamaro intendeva esprimere la preferenza che si deve assegnare al sentimento rispetto alle indicazioni del razionale, ma sicuramente intendeva che si dovesse seguire il cuore, senza lasciare a casa il cervello. Ma anche qui c’è da intendersi sul significato di sentimento e sul significato di razionale, parole al giorno d’oggi tanto inflazionate da averne smarrito il significato. "Sentimento" non è passione, sentimento è ciò che affiora di noi, quando, soli con noi stessi, allontaniamo ogni passione, ma anche ogni preconcetto, per scoprire quello che c’è di amore autentico, non quello inflazionato e mercificato con il quale oggi si etichettano narcisismi ed egoismi, ma quello che ci fa desiderare il bene dell’altro come preminente su ogni nostra esigenza personale, bene dell’altro che si realizza in silenzio anche con il nostro sacrificio e la nostra sofferenza, ma che pur così ci ripaga con la gioia immensa di attuare amore.

L’altro termine, la parola “razionale” si presenta a prima vista come asettica, parrebbe andare a braccetto con la parola “giustizia” e invece non è così. Quando diciamo che una data scelta o una data posizione è razionale dovremmo scavare per capire a che cosa risponde questo concetto di razionalità, se questo razionale sia in realtà il frutto di preconcetti sociali o di convenienza, e vada quindi a connotarsi più propriamente come frutto di un egoismo.

Ecco che allora il cerchio si chiude: il cuore e gli occhi di cui parla la Torà, sono le passioni, violente ed effimere, episodi sui quali non può costruirsi una vita, ma che invece causano deviazioni che allontanano dalla fiducia nel Signore.

Ma il sentimento vero, quello profondo, duraturo, incrollabile , quello che costa sacrificio, quello che a volte sembra non premiare, ecco questo sentimento, liberato dal razionale di convenienza, questo è il distillato della vera natura umana, quella verso cui dovremmo tendere universalmente, nonostante le deviazioni numerose che nella nostra vita noi facciamo perché siamo umani e siamo fallibili. Ma la consapevolezza di quale sia la verità sarebbe già un grande risultato da raggiungere. E il sentimento, quello vero, quello maiuscolo, è allineato con la Torà.



Haftarà di Shelach lechà
(Gios.2,1-2,24)

Giosuè mandò due uomini ad esplorare il paese alle cui soglie erano giunti ed in particolare la città di Gerico. I due andarono e, giunti in città, trovarono ospitalità presso una prostituta di nome Rachav.. Di ciò giunse voce al re di Gerico, che mandò a dire a Rachav, che facesse uscire dalla sua casa i due uomini, che erano venuti ad esplorare tutto il paese. La donna però rispose che i due erano andati via e che ella non sapeva dove fossero. Essa invece li aveva nascosto in soffitta in mezzo alla legna. Cessato il pericolo, la donna chiese ai due esploratori di ricordarsi di lei e della sua famiglia, risparmiando la loro vita quando il Signore avrebbe consegnato la città al loro popolo, e li aiutò quindi a fuggire. Gli uomini nell’accomiatarsi dissero alla donna che certamente la sua famiglia sarebbe stata risparmiata e che lei perciò avrebbe dovuto legare, in segno di riconoscimento, una matassa di filo rosso alla finestra della sua casa. Così fece la donna, mentre i due esploratori tornarono da Giosuè e riferirono tutto ciò e dissero che gli abitanti erano disfatti dalla paura del popolo d’Israele.

martedì 21 maggio 2013

Behaalotechà



Quando accendi”. Siamo nei capitoli da 8 a 12 di Bemidbar, il libro dei Numeri. In questa parashà c’è una trattazione ricca di molti argomenti che spaziano dal rituale alla narrativa storica d’insieme, e di dettaglio.

Si comincia con la prescrizione riguardante le luci della menorah, che devono illuminarne la parte anteriore verso chi guarda.

Segue la descrizione dei riti di purificazione dei Leviti, uomini in età da 25 a 50 anni addetti al servizio del santuario. La preparazione prevede la rasatura di tutto il corpo, la presentazione di offerte, la dimenazione davanti al Signore. Ne traiamo di questa dedicazione dei leviti una immagine efebica, del tutto opposta a quella dei nazirei, anch’essi dedicati al Signore ma di maschio aspetto selvatico perché irsuti di barba e capelli incolti, vigendo per questi ultimi il divieto di taglio e rasatura per tutto il tempo della dedicazione. Dunque i leviti accantonano la propria sessualità nel compiere il servizio al santuario, mentre i nazirei mantengono la sessualità con la quale però lottano per domarla e mantenere viva la propria dedica al Signore. A quest’ultimo proposito ci si richiama alla mente la figura di Sansone, nazireo, dedicato al Signore da sua madre, ed in eterna lotta con le sue pulsioni sessuali dalle quali sarà liberato solo dalla morte.

Si istituisce infine “Pesah shenì”, una seconda occasione di celebrare Pesah per chi non abbia potuto farlo nella prima celebrazione.

Dopo questi aspetti rituali si passa alla narrazione degli spostamenti del popolo verso il deserto di Paran. Abbiamo visto stabiliti, già nelle precedenti parashot, il posizionamento del tabernacolo e delle tribù nell’accampamento, nonché quale fosse la sequenza prevista per la messa in marcia del popolo. Ora si stabiliscono i segnali che due trombe d’argento dovranno emettere per impartire gli ordini stabiliti di movimentazione.

Mosè volle provvedersi di una guida esperta per il viaggio, un conoscitore del deserto che essi avrebbero dovuto attraversare, e si rivolse per questo a Chovav, figlio del midianita Re’uel suo suocero, dicendo: “Noi partiamo verso il luogo del quale il Signore disse - Quello Io darò a voi - , vieni con noi e ti faremo del bene, giacché il Signore ha promesso del bene ad Israele”. Ma Chovav rispose: “ Io non andrò; ma al mio paese ed al mio luogo di nascita andrò”, E Mosè replicò: “Deh! Non abbandonarci giacché tu hai conosciuto il nostro accamparci nel deserto, e ci sei stato quale guida. Se verrai con noi, tutto il bene di cui il Signore ci beneficherà, lo faremo anche a te”. Che senso ha questo dialogo, perché Chovav prima rifiuta e poi accetta?

Il nome di Chovav ha le medesime radici di “chovev”, dare e avere amore. La prima offerta di Mosè è “noi ti faremo del bene”, è un compenso che viene promesso dal popolo per la sua prestazione, ma Chovav rifiuta perché non è quello il compenso che egli desidera. La seconda offerta di Mosè è ben diversa “tutto il bene di cui il Signore ci beneficherà, lo faremo a te” e l’offerta qui è il bene del Signore e questo non può che essere in primo luogo l’amore.

Il viaggio ha inizio e strada facendo cominciarono a manifestarsi difficoltà crescenti, fino all’aperta contestazione. Insofferenza alla disciplina, stanchezza, fame resero sempre più frequente la necessità di interloquire, incoraggiando ed esortando il popolo a proseguire verso la meta prefissata.
Per svolgere questa opera Mosè istituisce un’assemblea di settanta anziani con il compito di svolgere per lui questa azione di persuasione e stimolo nei confronti del popolo.

C’è poi l’episodio di Eldad e Medad, che pur scelti a far parte dell’assemblea, stavano “profetizzando” nell’accampamento per loro conto. Mosè, richiesto da Giosuè per l’adozione di un provvedimento punitivo, si mostrò invece indulgente e condiscendente dicendo “Magari tutti del popolo del Signore fossero profeti!

La parashà chiude con la contestazione che Miriam ed Aronne esprimono nei confronti del fratello Mosè. I motivi della contestazione sono:
- l’avere Mosè preso con sé una donna “kushit”, di pelle scura, cosa che l’avrebbe portato a trascurare i suoi doveri coniugali;
- il ritenersi Mosè l’unico abilitato a ricevere la parola del Signore.
A questo punto il Signore chiarì ai tre che Egli avrebbe rivolto la parola solo a Mosè, mentre agli altri due Egli avrebbe potuto apparire solamente in sogno o in visione.
Miriam per punizione venne colpita da lebbra e solo per l’intercessione del fratello Mosè ebbe la possibilità di rientrare guarita nell’accampamento dopo sette giorni, e di riprendere la marcia con il popolo.


Haftarà di Behaalotechà

“E l’inviato di D-o che parlava con me ritornò, e mi svegliò come uno che si desta dal suo sonno. E mi disse: ‘Che cosa vedi tu?’. E io risposi: ‘Ho visto, ed ecco un candelabro tutto d’oro con una sfera sulla sua cima, e sopra di questa sette suoi lumi e sette canali, uno per ciascuno dei lumi che vi sono sopra, e presso di essa due ulivi, uno a destra ed uno a sinistra della sfera.’ Ed io dissi all’inviato divino che parlava con me: ‘Che cosa sono questi o mio Signore?’ E l’inviato divino che parlava con me mi disse: ‘Non sai che cosa sono essi?’ Ed io risposi: ‘No, mio Signore.’ Ed egli mi disse: ‘Questo è quello che dice il Signore a Zerubavel. Non con la prodezza e non con la forza, ma con il mio spirito, ha detto il Signore Tsevaoth. Chi sei tu grande monte, davanti a Zerubavel? Diventerai pianura. Egli farà uscire la pietra fondamentale e si udranno acclamazioni: Favore, favore ad essa!
(Zac.4,1-4,7)

Il candelabro, con i suoi sette lumi, esprime la luce divina che si spanderà sul Tempio e sulla terra. I due ulivi sono Zerubavel e Yehoshùa, che furono, il primo, colui che ricondusse in Israele i primi ritornati dall’esilio babilonese e, il secondo, il sommo sacerdote, anch’egli rientrato da Babilonia. Non la maestria e non la forza, ma la fiducia nel Signore consentiranno a Zerubavel la ricostruzione del Tempio, che tutti acclameranno.

mercoledì 8 maggio 2013

Bamidbar

(Nu.1,1-4,20)

Bamidbar: nel deserto. Questo è il titolo della parashà che apre il quarto libro della Torà, al quale dà anche il nome. Numeri è il titolo in italiano, allineato con Aritmoi, titolo della versione greca dei settanta, che meglio esprime l’attività di contare, cioè il censimento dei maschi di età maggiore di venti anni di ciascuna tribù, ed il censimento dei Leviti, di cui appunto qui si parla.

A proposito di questo censimento ricordiamo che in Esodo 30, 11-16 il Signore disse a Mosè:

Quando farai il censimento dei figli d’Israele, cioè di quelli che sono da passare in rassegna, ciascuno di loro pagherà al Signore il riscatto della propria persona quando ne verrà fatta l’enumerazione, … . Questo dovranno dare tutti quelli compresi nell’enumerazione: un mezzo siclo calcolando il siclo sacro che è di venti gherà, mezzo siclo sarà il contributo da pagarsi al Signore. Chiunque farà parte delle persone censite dall’età di vent’anni in poi, darà il contributo al Signore. … . Riceverai dai figli d’Israele la somma di questo riscatto, e l’impiegherai a servizio della tenda della radunanza; …

Inoltre in Esodo 32, 26-29, in occasione dell’episodio del vitello d’oro, si dice che Mosè chiese gridando che venissero presso di lui coloro che avevano mantenuto fedeltà al Signore e che a tale richiesta tutti i figli di Levi si aggrupparono intorno a lui. E allora Mosè disse ai Leviti:

Consacratevi da quest’oggi al Signore, poiché ciascuno di voi se ne rese degno, con la punizione inflitta anche al proprio figlio o fratello, e tale attaccamento al Signore merita oggi la benedizione divina.

Ed è appunto ora che si opera questo censimento, determinando per ogni tribù, ad eccezione della tribù di Levi, la consistenza numerica dei maschi maggiori di vent’anni, e ricavando poi il numero totale dei censiti per l’intero popolo. Per la tribù di Levi si procederà, separatamente, a contare i maschi da trenta a cinquant’anni.

Il censimento ha un molteplice scopo:
- raccogliere il riscatto dovuto da tutti i primogeniti maschi di età superiore a vent’anni da destinarsi a finanziare il funzionamento del Tabernacolo e più in generale del Tempio;
- determinare, separatamente dalle altre tribù, il numero dei Leviti, che, in sostituzione dei primogeniti delle altre tribù, avrebbero da allora in poi espresso la loro appartenenza al Signore prestando servizio presso la Tenda della Radunanza ed il Tabernacolo;
- determinare l’eccedenza del numero complessivo dei primogeniti rispetto al numero dei Leviti ed individuare chi dovesse, conseguentemente, offrire il riscatto stabilito in cinque sicli a testa del peso in uso nel Santuario.

E’ questa una parashà di attuazione di decisioni già assunte in Esodo, ma non per questo è priva di un messaggio proprio. Al contrario è una parashà di ordine, di disciplina, è la parashà dove un insieme di persone si trasforma in un popolo ed un popolo si trasforma in esercito, dove ad ognuno è assegnato un compito da svolgere ed una posizione di marcia. Numeri, ordine e posizioni sono elementi sui quali l’ermeneutica ebraica spazia alla ricerca di significati, collegamenti, commenti, previsioni. Resta il significato più prossimo e palese che ci dice che un popolo non può raggiungere un obiettivo collettivo importante se non mettendo a punto un’organizzazione, che abbia lo scopo di coordinare ed ottimizzare le azioni delle singole unità secondo le direttive che saranno impartite da chi ne avrà assunto la direzione ed il comando. La marcia nel deserto verso la terra promessa è un’impresa epica, c’era un popolo spesso recalcitrante e contestatore ed occorreva, per arrivare alla meta, agire con fermezza e durezza, ed anche, quando occorresse, soffocare nel sangue i tentativi di rivolta.

Mosè, ispirato dal Signore, è stato per il popolo ebraico l’equivalente di quello che nella Repubblica Romana prendeva il nome di “dictator”, il capo unico risoluto ed unico nelle decisioni, che agisce per conseguire uno scopo in circostanze eccezionali, e che a far ciò è stato delegato. Il “dictator” romano, però, poteva durare in carica al massimo sei mesi, mentre Mosè è stato in carica per quarant’anni.

Ma questa vicenda nel deserto è per noi veramente tanto lontana? Si perde veramente nella notte dei tempi di più di 3.300 anni addietro? C’è qualcosa che può aiutarci a comprendere quello che è avvenuto ed a partecipare emotivamente a questi avvenimenti? Certo che è possibile! Ma ci si deve calare nella narrazione, immergersi in essa e viverla come fosse la nostra storia personale e su questa falsa riga scrivere il proprio diario, all’incirca così:

Io ero in terra d’Egitto, il mio mondo era per me come la terra d’Egitto. Il mio lavoro era come se fabbricassi e cuocessi mattoni per il Faraone e lì io ho mangiato il pane dell’afflizione. Un giorno il Signore mi ha detto di lasciare tutto ed avviarmi alla ricerca della mia terra promessa, la terra della mia libertà, la terra dove le mie opere avrebbero potuto essere benedette perché dedicate al Signore. Il cammino è stato lungo, quarant’anni, tutta una vita, un cammino lungo e disseminato di ostacoli. Canti di sirene hanno tentato di farmi deviare, alcuni facilmente riconoscibili, altri più insidiosi perché connotati di innocenza. Ho ricordato allora la voce del Signore che dice: ‘Parla ai figli d’Israele e di’ loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti per le loro generazioni e mettano sulla frangia dell’angolo un filo di lana azzurra. Esse saranno per voi delle frange, le quali, quando voi le vedrete, ricorderete tutti i precetti del Signore e li eseguirete, e non devierete seguendo il vostro cuore e i vostri occhi, seguendoli voi diverreste infedeli. Affinché vi ricordiate ed eseguiate tutti i Miei precetti e siate santi al vostro Dio. Io, il Signore Dio vostro, che vi fece uscire dalla terra d’Egitto per esservi Iddio, Io, il Signore, sono Dio vostro.


Haftarà di Bamidbar

Così la punirò per i giorni in cui ha arso incenso ai Ba’al, si è adornata dei suoi monili per andare dietro ai suoi amanti, e Mi ha dimenticato. Perciò Io voglio attirarla a Me, condurla nel deserto e parlare al suo cuore, e quando sarà là le darò le sue vigne, trasformerò la valle di Achor in porta di speranza e là Mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, e come quando uscì dal paese d’Egittto.
(Osea, 2,15-2,17)

Ruth, la Moabita

“Nomen omen”, il nome è un presagio, recita un antico detto latino ed in effetti se analizziamo il significato dei nomi dei personaggi del libro di Ruth ne ricaviamo l’anticipazione del racconto.

La Meghillat inizia narrando che al tempo dei Giudici ci fu una carestia nel paese ed un uomo di Beth-Lèchem di Giuda, andò ad abitare nelle campagne di Moab con la sua famiglia. L’uomo si chiamava Elimèlech, sua moglie Noemi ed i suoi due figli Machlon e Kilion.

Abbiamo detto che il nome è il presagio, ed i nomi di questa famiglia esprimono un presagio che, particolarmente per i due figli, assume un connotato di tragicità.

Così Elimèlech significa “il mio Signore è Re” e ciò sarà a patto che egli riesca a tenere viva la fiducia in Lui. Se questa fiducia dovesse venir meno il significato del nome rischierebbe di ribaltarsi e divenire “il Re è il mio Signore” e quindi la mia fiducia è nelle cose terrene.

Noemi è “colei che da piacere intorno a sé”, o più semplicemente “dolce” ed il suo nome non pone particolari problemi in quanto è coerente con la sua indole, così come viene a rivelarsi nel corso della narrazione.

I due figli hanno invece nomi preoccupanti, giacché Machlon ha la stessa radice di “machalah” che significa “malattia”, mentre Kilion ha in sé la radice di “chilaion” cioè di “distruzione”.

I due figli sposano due donne moabite di nome Orpà e Ruth. Il nome Orpà contiene la radice di “oref” che è la “nuca” e quindi è “colei che gira la nuca” ed infatti sarà quella che se ne andrà e non seguirà Noemi nel suo viaggio di ritorno alla terra d’Israele. Ruth ha invece nel nome le stesse lettere di “tor”, la “tortora”, il volatile da sacrificio. Il valore numerico delle lettere di “tor” sommato fornisce il numero 606, che aggiunto a 7 che sono le leggi noachidi alle quali Ruth già sottostà in quanto non ebrea, fornisce il numero 613, che sono invece il totale delle “mitzvot” cui ella dovrà uniformarsi divenendo ebrea.

La meghillat racconta che Elimèlech ed i due figli Machlon e Kilion muoiono lasciando sole Noemi e le due nuore Orpà e Ruth. Tutto questo è detto in due mezze righe, senza commento, senza dolore, senza rimpianto, quasi fosse una liberazione da uno stato di costrizione. Si potrebbe essere indotti a chiedersi se la morte del padre e dei due figli, così improvvisamente spariti, sia stata una morte fisica reale, ovvero una morte spirituale e quindi in realtà un abbandono dell’anima ebraica oltre che delle tre donne. E’ un’ipotesi sostenuta, per i due figli proprio dal significato dei loro nomi, e per il padre dal fatto che egli lasciò la sua terra, vendendo tutte le sue proprietà, per stabilirsi definitivamente in terra straniera perché egli nella sua terra e nel Signore aveva perso la fiducia. Non andò a cercare provviste, come i fratelli di Giuseppe, ma scelse di andar via definitivamente dalla terra che il Signore aveva assegnato al suo popolo.

Noemi, rimasta senza marito e senza figli, decide di tornare nella sua terra. Ella invita le due nuore a lasciarla andare e a rimanere nel loro paese. Ma Ruth verrà con lei esprimendole il suo atto d’amore: “ovunque andrai tu, andrò anch’io, dormirò dove dormirai, il tuo popolo è il mio, il tuo Dio è il mio”.

Tornate a casa incontreranno Boaz, un parente ricco ed importante di Noemi, che sarà di fatto il loro “goel”, il riscattatore delle proprietà, quelle che erano state vendute tanti anni prima da Elimèlech prima della partenza per la terra di Moab.

Boaz prende in moglie Ruth ed il loro figlio sarà capostipite della discendenza di Davide.

Boaz è anche il nome della colonna posta sulla sinistra davanti al Tempio di Salomone (1Re, 7, 21 e 2Cr, 3,17), nome che, in questo caso, assume il significato di “stabilità” per il tempio stesso, così come del resto nella meghillat il personaggio di Boaz ha impersonato la stabilità per Noemi e Ruth.

E’ una storia di accoglienza quella di Ruth. E’ la storia di una donna straniera, una moabita, una non ebrea, dal carattere dolce ma determinato che sceglie il suo destino, abbandona il suo popolo e la sua terra, abbandona gli idoli del suo popolo, abbraccia la fede nel Signore e segue la suocera Noemi in quella che sarà la sua nuova terra, la terra di Giuda. Dal suo matrimonio con Boaz nascerà Oved, che genererà Ishai e Ishai genererà David . Lei dunque, la moabita, sarà la bisnonna del re David.

Questa vicenda di Ruth induce a riflettere, sull’immutabilità dei sentimenti umani, che si mantengono a distanza di millenni sostanzialmente uguali, nonostante che le condizioni ambientali di vita siano certamente di molto cambiate in virtù dell’evoluzione e del progresso sociale, economico, tecnico e cultutale del mondo attuale rispetto a quello di allora.

Ma siamo indotti anche a riflettere sulla disponibilità all’accoglienza dello straniero da parte della comunità ebraica di quel tempo rispetto alla situazione di oggi. Oggi la comunità ortodossa italiana, a fronte di una dichiarata disponibilità all’accoglienza nei confronti dello straniero, avrebbe di fatto grandi difficoltà a concretizzare tale accoglienza, motivandole con la necessità di preservare il patrimonio tradizionale della comunità da presunte possibili contaminazioni. Temo che al giorno d’oggi nella comunità italiana non sarebbe nato nessun re David.

i Dieci Comandamenti

(Es.20,1-20,17; Deu.5,6-5,18)

Si narra in Esodo, secondo libro della Torà, che il Signore pronunciò sul monte Chorev le parole della Legge: i Comandamenti del Patto che Egli intese stringere con i figli d'Israele. L'elenco dei Comandamenti, ricavato da questo pronunciamento, è quello qui di seguito riportato:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al Mio cospetto. Non ti farai alcuna scultura né immagine.
3) Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano.
4) Ricordati del giorno del Sabato per santificarlo.
5) Onora tuo padre e tua madre.
6) Non uccidere.
7) Non commettere adulterio.
8) Non rubare.
9) Non fare falsa testimonianza.
10) Non desiderare ciò che appartiene ad altri.

Si racconta poi nel quinto libro della Torà, il Deuteronomio, che Mosè radunò gli Israeliti per rammentare loro il patto stabilito dal Signore sul monte Chorev, e che ripetè quindi in questa occasione le dieci Parole, i dieci Comandamenti che il Signore aveva pronunciato quarant'anni prima lasciandoli atterriti.

L’enunciazione dei comandamenti, così come espressa nei due diversi libri della Torà, induce sia alcune incertezze interpretative, riguardanti il primo ed il secondo comandamento, sia alcune considerazioni in merito ad altri quattro comandamenti, cosa che assume particolare rilievo in quanto tali incertezze e considerazioni riguardano i cardini della Legge che le dieci Parole vanno a sostanziare.
Vediamo quindi di che si tratta, tentando di arrivare ai chiarimenti che fossero necessari.

A)PRIMO E SECONDO COMANDAMENTO: IO SONO IL SIGNORE DIO TUO - NON AVRAI ALTRI DEI AL MIO COSPETTO.NON TI FARAI ALCUNA SCULTURA NE' IMMAGINE.

Le incertezze si colgono dalla lettura della traduzione italiana, come riportata nella Bibbia Ebraica edita a cura di Rav Dario Disegni. Se confrontiamo infatti le traduzioni relative ai due passi biblici, osserviamo una lieve differenza alla quale non può però riconoscersi esclusiva valenza formale, quanto invece l’origine di due diverse interpretazioni. Infatti in Esodo nel primo capoverso, e quindi riferibili al primo comandamento, figurano unicamente le parole "Io sono il Signore Dio tuo" , mentre nel secondo sono le parole, riferibili al secondo comandamento, "Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non ti farai alcuna scultura né immagine".

In Deuteronomio, invece, fanno parte del primo capoverso oltre le parole "Io sono il Signore tuo Dio", anche le parole "Non avrai altri dèi al mio cospetto", mentre al secondo capoverso sono le parole "Non ti farai alcuna scultura nè immagine".

Nel testo ebraico, ovviamente, non essendoci la forma del punto e a capo, non ci sono capoversi, ma una semplice sequenza di frasi e questo dà luogo, a seconda di come i gruppi di parole vengono associati, a diverse possibili interpretazioni. In questo caso il problema dell’esatta interpretazione è di particolare rilevanza, trattandosi dell’enunciazione dei cardini della legge che i comandamenti vanno a sostanziare.

In definitiva il dubbio che si profila riguarda la scritturazione dei primi due comandamenti e precisamente se, invece di quelli enunciati in Esodo, non debbano invece intendersi i due comandamenti rispettivamente espressi come segue:

1) Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altri dèi al mio cospetto.
2) Non ti farai alcuna scultura né immagine.

Questa versione, adottata anche in altre fonti non ebraiche, conferisce rilevanza autonoma alla prescrizione contraria a sculture ed immagini e costituisce una sicura incentivazione alla concezione iconoclastica.

A mio parere quest’ultima scritturazione proposta per i primi due Comandamenti non è condivisibile e ciò perché dovrebbe obiettivamente intendersi che il divieto di fare sculture e immagini sia stato espresso non di per sé, ma nel fondato timore che queste potessero divenire oggetto di culto e adorazione, come del resto avvenne con il vitello d'oro. Inoltre il solo comandamento di riconoscere il Signore come proprio Dio non esclude di per sé il riconoscimento di altri dèi e perciò è impartito il secondo comandamento, sicché avremmo:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non ti farai alcuna scultura né immagine.

Ora se il divieto di sculture e immagini è impartito allo scopo di evitare che queste divengano oggetto di culto e adorazione, ecco allora che il divieto appare derivato dalla prima parte "Non avrai altri dèi al mio cospetto".

E’ da notare infine che il divieto di fare sculture e immagini resta associabile al divieto di avere altri dèi, anche nel caso di sculture ed immagini fatte per rappresentare non già altri dèi, ma il Signore. Anche in questo caso infatti il rischio sarebbe sempre quello di arrivare a venerare la scultura o l’immagine come se essa stessa divenisse la sostanza del Signore, cosa che ne farebbe un idolo e dunque, un dio distinta dal Signore.

B) SESTO E NONO COMANDAMENTO: NON UCCIDERE - NON FARE FALSA TESTIMONIANZA.

Ho voluto raggruppare questi due comandamenti perché intendo evidenziare che, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere a prima vista, la loro infrazione è molto più frequente di quanto non si pensi.

C’è infatti una specie di omicidio che si commette non già uccidendo fisicamente l’altro, ma uccidendolo civilmente, uccidendo la sua immagine, la sua dignità, la sua rispettabilità, servendosi per raggiungere questo scopo abietto della falsa testimonianza o della maldicenza. Questo è un delitto estremamente frequente, commesso sia per favorire noi stessi o altre persone che desideriamo vengano privilegiate a scapito ed a danno di altri, sia a volte per semplice leggerezza, non avendo valutato appieno le conseguenze delle nostre parole. E’ questa la forma di delitto più infame, anche perché a volte è compiuto all’insaputa del danneggiato, il quale può arrivare a scoprire il complotto in modo casuale, perché lo apprende con sorpresa da altre persone. La maldicenza va quindi ad assumere i connotati della congiura, della falsità e della vigliaccheria.

L’ebraismo condanna la maldicenza e la diffamazione definendole “Lashòn haRà” e il Talmud afferma che le male lingue abituali non sono tollerate alla presenza del Signore e che “Lashòn haRà” è una delle cause della malattia “tzaraath”. In Numeri 12 si narra che Miriam per avere messo in discussione il primato del fratello Mosè nella guida del popolo d’Israele venne colpita da “tzaraath”, la malattia della lebbra, e che dovette rimanere fuori dall’accampamento per tutto il periodo della malattia e che durante questo tempo tutto Israele fu costretto ad aspettarla.

C) SETTIMO COMANDAMENTO: NON COMMETTERE ADULTERIO.

Un'altra considerazione merita di essere fatta a proposito del settimo Comandamento, per il quale altre fonti propongono la dizione "Non commettere atti impuri", come riportato, ad esempio, nel Decalogo in uso per la catechesi cattolica, dove peraltro occupa il sesto posto nel seguente elenco:

Ascolta Israele! Io sono il Signore Dio tuo:
1) Non avrai altro Dio all'infuori di me.
2) Non nominare il nome di Dio invano.
3) Ricordati di santificare le feste.
4) Onora il padre e la madre.
5) Non uccidere.
6) Non commettere atti impuri.
7) Non rubare.
8) Non dire falsa testimonianza.
9) Non desiderare la donna d'altri.
10) Non desiderare la roba d'altri.

Il Comandamento, che nell'elenco soprariportato da settimo è diventato sesto, non risulta in nessuno dei due passi biblici e fornisce una visione non coerente con la finalità sociale che si intravede nei Comandamenti dal quinto al decimo. Pertanto resta, a mio parere, confermatala validità della dizione:
7) Non commettere adulterio.

D) DECIMO COMANDAMENTO: NON DESIDERARE CIO' CHE APPARTIENE AD ALTRI.

Segnalo infine l'atipicità del decimo Comandamento, conclusivo della sequenza dei cinque comandamenti negativi, che prescrivono cioè le cose da non fare, perché quello che si prescrive di non commettere in questo caso non è un'azione ma un pensiero, un desiderio, che, a mio parere, finché rimane tale può costituire un'ossessione per chi lo prova, ma non produce danno ad altri.

10) Non desiderare ciò che appartiene ad altri.

Con questa dizione si comprendono sia la donna, sia i servi, sia i beni materiali che gli altri possiedono.

Ritengo che questo Comandamento, proprio perché condanna il pensiero, sia il più severo e che proprio per questo ci sia da chiedersi la ragione di questa anomalia. E' un Comandamento verso sé stessi e non verso gli altri e trova giustificazione nella scelta che deve compiersi mirata alla disciplina del controllo e della repressione del desiderio, con la finalità di condurci a dare valore non tanto a ciò che vorremmo avere, quanto a ciò che già possediamo.

domenica 5 maggio 2013

Shavuot

Quest’anno Shavuot avrà inizio la sera del 14 maggio, quando il 6 di Sivan sarà entrato. Shavuot: settimane. Si festeggia quando sono trascorse sette settimane dall’inizio di Pesach. Sette settimane di sette giorni. Sette come i sette giorni della creazione. Sette come il ciclo dell’anno sabatico, l’anno in cui la terra cessa di essere coltivata e torna al Signore. Sette volte sette come il ciclo dell’anno giubilare. Sette è espresso dalla lettera "zàin" dell’alfabeto ebraico, una lettera alla quale è tradizionalmente legato il concetto di spirito, sostentamento, lotta.

Dovrai contarti sette settimane; comincerai il computo delle sette settimane da quando si comincia a mettere la falce nelle messi, quindi farai la festa delle settimane in onore del Signore tuo D-o recando l’offerta che dovrai donare secondo il benessere col quale il Signore tuo ti avrà benedetto. Ti rallegrerai davanti al Signore tuo D-o, tu e tuo figlio, la tua figliola, il tuo schiavo e la tua schiava, il Levita che è nella tua città e il forestiero, l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te, nel luogo, che sceglierà il Signore tuo D-o come residenza del Suo Santuario. Ricorderai che fosti schiavo in Egitto e osserverai e attuerai questi statuti.
(De.16,9-16,12)

E’ dunque una festa descritta dalla Torà come una festa agricola, nella quale si celebra la maturazione dei raccolti e durante la quale le primizie vengono portate in offerta al Tempio.

Successivamente però, in epoca post-biblica, l’ebraismo rabbinico dette a questa festa il significato di festeggiamento del giorno in cui il Signore donò la Torà al popolo ebraico e quindi l’uso di adornare le Sinagoghe con foglie verdi sarebbe dovuto, non tanto al voler richiamare l’antico significato agricolo della festa, quanto al voler rappresentare l’aspetto della vegetazione delle pendici del monte Sinài.

E’ tradizione nel primo giorno di Shavuot di mangiare cibi a base di latte. Uno dei motivi a base di questa usanza risiederebbe in una interpretazione di un passo della Torà (Nu.29,26) in cui le lettere iniziali di una espressione sono le stesse che compongono la parola “di latte”. E’ però anche fatto obbligo di consumare della carne, in quanto il giorno di festa è “Yom Tov” e ciò dovrà farsi senza violare la proibizione di mescolare carne e latte.

Si trascorrerà la notte della vigilia rimanendo svegli e studiando in preparazione del dono della Torà, che tradizionalmente avverrà all’alba. Si darà lettura allora dei capitoli 19 e 20 di Esodo e conclusivamente dei comandamenti, le dieci parole:

1) Io sono il Signore Dio tuo.
2) Non avrai altri dèi al Mio cospetto.
3) Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano.
4) Ricordati del giorno del Sabato per santificarlo.
5) Onora tuo padre e tua madre.
6) Non uccidere.
7) Non commettere adulterio.
8) Non rubare.
9) Non fare falsa testimonianza.
10) Non desiderare ciò che appartiene ad altri.


I primi quattro si riferiscono strettamente al rapporto tra l’essere umano e il Signore, mentre gli altri sei riguardano i rapporti con gli altri esseri umani. Direi che se i primi quattro hanno contenuto esclusivamente religioso, gli altri sei hanno contenuto che ha anche valenza etico-sociale. Tre sono positivi in quanto prescrivono cosa fare, sette sono negativi perché indicano le cose da non fare.

Contravvenire a questi comandamenti significa non seguire la parola del Signore, sostituire al Signore qualche altra cosa e quindi, in definitiva, scivolare ancora una volta verso l’idolatria. L’idolatria è in sostanza la matrice alla quale possono ricondursi tutte le azioni umane che non sono ossequienti verso la parola del Signore.

Si dà poi lettura della visione del carro divino, tratta dal primo capitolo di Ezechiele (Ez.1,1-28), visione che per il profeta costituì un’esperienza spirituale il cui impatto emotivo è paragonabile a quello vissuto da Mosè sul monte Sinài.

Osservai: ed ecco un vento procelloso sopraggiungere da settentrione; una grande nube con lingue di fuoco che si avviluppavano e che irradiavano all’intorno mirabile splendore; nel centro, in mezzo al fuoco, sfavillava un bagliore come di chashmal (luminosità).

L’aspetto delle loro facce era così: avevano una faccia d’uomo; tutte e quattro, poi, avevano una faccia di leone a destra, una faccia di toro a sinistra, e una faccia d’aquila.

Quando le chajjot procedevano, anche le ruote procedevano con loro, e quando le chajjot si levavano da terra, anche le ruote si alzavano.

Come l’aspetto dell’arcobaleno che è nella nube in giorno di pioggia tale era l’aspetto della luminosità tutt’intorno: esso era l’aspetto dell’immagine della gloria del Signore!

Il secondo giorno di Shavuot è tradizione che si dia lettura della meghillà di Ruth, la moabita, che fu esempio di fedeltà e di dedizione e che, unendosi al popolo d’Israele divenne ebrea e fu ava di re David ed antenata del Messia. Ruth rappresenta simbolicamente la madre di tutti i convertiti ed è significativo che il suo accoglimento nel popolo d’Israele venga ricordato ogni anno nel giorno in cui si celebra la rinnovata alleanza del Sinài, affinché tutti ricordino la predilezione che il Signore volle dimostrarle nell’assegnarle il ruolo di progenitrice del Messia.