lunedì 25 febbraio 2013

Ki Tissà

(Es.30,11-34,35)

Siamo ancora sul monte Sinài, dove il Signore prosegue nell’impartire una serie di disposizioni a Mosè riguardanti gli adempimenti che egli dovrà compiere e che a sua volta dovrà chiedere ai figli d’Israele. Si comincia con il riscatto che i maschi in età superiore a vent’anni dovranno pagare in occasione del censimento. Pagheranno tutti in misura uguale, ricchi e poveri, e ognuno verserà mezzo siclo d’argento secondo il siclo sacro del Santuario. La somma raccolta verrà impiegata a servizio della tenda della radunanza.

Dovrà poi essere fatta una conca di rame per le abluzioni, da collocarsi tra l’altare e la tenda della radunanza. Nella conca Aron e i suoi figli laveranno mani e piedi prima di accostarsi all’altare per officiare o per ardere i sacrifici.

Dovrà prepararsi, secondo una precisa ricetta, un olio profumato sacro per l’unzione. Con questo olio saranno unti la tenda della radunanza, l’Arca della Testimonianza, la tavola, il candelabro, l’altare dei profumi, l’altare degli olocausti e tutti i loro accessori, nonché la conca, che saranno in questo modo consacrati. Verranno unti anche Aron e i suoi figli, che saranno anch’essi così consacrati per il ministero sacerdotale.

Saranno presi degli aromi e dell’incenso in parti uguali e con essi verrà realizzato un profumo che poi verrà salato e macinato e la sua polvere verrà mesa davanti alla Testimonianza, nel luogo ove il Signore incontrerà Mosè.

Per la realizzazione di tutte queste cose occorrenti per il Santuario il Signore designò Betsalel della tribù di Giuda, che possedeva l’abilità e l’inventiva necessarie per la lavorazione dei metalli, per l’incisione delle pietre, per l’intaglio del legno. Betsalel sarebbe stato aiutato da Aholiav, della tribù di Dan e da altri uomini dotati di ingegno e abilità.

Infine il Signore disse a Mosè di parlare ai figli d’Israele ricordando loro la necessità di osservare il Sabato, che era e sarà per sempre il segno della loro santificazione.

I figli d’Israele dunque osserveranno il Sabato, celebrandolo di generazione in generazione come patto eterno. Fra Me e i figli d’Israele è un segno perpetuo attestante che in sei giorni il Signore fece il cielo e la terra e che il settimo giorno cessò e si riposò.” (Es.31,16-31,17)

Il Signore dette quindi a Mosè le due tavole della Testimonianza, realizzate in pietra e scritte ad opera del Signore. Ma nel frattempo era accaduto che il popolo, non vedendo tornare Mosè e non avendone nessuna notizia cominciò a perdere sempre più la fiducia che in lui riponeva finché si radunò attorno ad Aron ed a lui disse:

Orsù facci un dio che marci alla nostra testa perché di questo Mosè, colui che ci fece uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa ne sia avvenuto.” (Es.32,1)

A questa richiesta Aron non si scompose, forse per paura, non provò neanche a dissuaderli, e invece disse loro di raccogliere tutti i pendenti d’oro che portavano le loro donne, i loro figli e le loro figlie e di portarglieli. Aron, ricevuto tutto questo oro, lo pose in uno stampo e realizzò un vitello d’oro e il popolo fu contento e disse:

Questo è il tuo dio, o Israele, che ti fece uscire dalla terra d’Egitto.” (Es.32,4)

Aron eresse un altare dinanzi al vitello e proclamò per l’indomani festa solenne in onore del Signore.La mattina seguente furono offerti olocausti e shelamim al vitello d’oro, dopodiché il popolo si mise a mangiare e bere e si abbandonò ai divertimenti più sfrenati.

Il Signore, vedute tutte queste cose, disse a Mosè di scendere da monte perché il popolo si era corrotto e gli confidò il proposito di distruggere questo popolo di dura cervice e di creare invece solamente dalla discendenza di Mosè una grande nazione. Ma Mosè supplicò il Signore di non accendere la sua ira contro quel popolo che Lui aveva prescelto facendolo uscire dall’Egitto:

Ricordati di Abramo, Isacco ed Israele Tuoi servi, ai quali Tu giurasti per Te stesso, dicendo loro: Io renderò la vostra discendenza numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese che ho promesso di darlo alla vostra posterità, essi lo possederanno in perpetuo.” (Es.32,13)

Il Signore allora revocò la condanna che aveva minacciato d’infliggere al Suo popolo. Mosè cominciò a scendere dal monte portando in mano le due tavole della Testimonianza, scritte da entrambi i lati, con caratteri incisi nella pietra, caratteri scritti dal Signore. Quando giunto in prossimità dell’accampamento vide il vitello d’oro e le danza sfrenate del suo popolo, Mosè si accese d’ira e gettò in terra le tavole mandandole in frantumi.

Prese poi Mosè il vitello d’oro, ne bruciò le parti in legno e macinò tutta la parte in oro riducendola in polvere. Sparse questa polvere nell’acqua del torrente che discendeva dal monte e la fece bere ai figli d’Israele. Poi Mosè disse ad Aron suo fratello:

Che cosa ti ha fatto questo popolo ché tu l’hai indotto ad una così grave colpa?” (Es.32,21)

Aron rispose dicendo della richiesta che il popolo gli aveva rivolto di fare un dio che li guidasse perché non sapevano cosa fosse accaduto a lui, Mosè, dopo un così lungo periodo di assenza e disse dell’oro che aveva chiesto e di come gli fosse stato consegnato e che egli lo aveva fuso ricavandone il vitello d’oro.

Si fermò Mosè sulla porta dell’accampamento e gridò rivolto al popolo che andassero presso di lui tutti coloro che si erano mantenuti fedeli al Signore. Tutti i figli di Levi si raggrupparono presso di lui ed a loro Mosè disse di setacciare tutto l’accampamento e di uccidere tutti i peccatori, fossero anche i propri fratelli, i propri amici, i propri parenti. I figli di Levi eseguirono l’ordine ricevuto e in quel giorno morirono più di tremila uomini del popolo d’Israele. E allora Mosè disse ai Leviti:

Consacratevi da quest’oggi al Signore, poiché ciascuno di voi se ne rese degno, con la punizione inflitta anche al proprio figlio o fratello, e tale attaccamento al Signore merita oggi la benedizione divina.” (Es.32,29)

A questo punto mi viene proprio da dire che Aron l’ha scampata bella. L’avrà pur fatto per pavidità, però è stato lui ad assecondare la richiesta idolatra del popolo, è stato lui a concepire e realizzare la statua d’oro del vitello, è stato lui a proclamare la festa per il giorno dopo ed a fare sacrifici all’idolo. Mosè l’ha risparmiato mentre ha ordinato l’uccisione di tutti coloro che avevano preso parte al culto idolatra. Aron è, a questo punto, probabilmente l’unico primogenito fortunato della Torà. Di fronte a queste avvenimenti il nostro spirito razionale deve arrestarsi e prendere nota semplicemente del fatto accaduto e non pretendere di trovare la spiegazione di ogni cosa né tanto meno di sostenere un atteggiamento di critica. Vedremo che più avanti Aron riceverà una punizione terribile perché perderà i suoi due figli maggiori d’un sol colpo, bruciati dal fuoco divino per un errore commesso al loro primo sacrificio nel Santuario.

Peraltro la severa e feroce punizione inflitta in quest’occasione ai figli d’Israele sarà la prima di una lunga serie di punizioni, di stragi, al termine delle quali per loro effetto e per effetto di tutte le traversie affrontate nel lungo viaggio la torma di sbandati fuoruscita dall’Egitto si sarà trasformata in un popolo con una propria identità e con precise regole religiose e sociali.

Il giorno dopo Mosè si rivolse al popolo dicendo che sarebbe salito nuovamente dal Signore nella speranza di poter espiare il grave peccato che essi avevano commesso. Salì Mosè e, tornato presso il Signore, implorò il perdono per il popolo, chiedendo altrimenti di pagare con la propria vita l’oltraggio che essi avevano commesso. Ma il Signore rispose dicendo che avrebbe cancellato dal libro della vita i colpevoli e che lui, Mosè, invece tornasse pure al popolo per condurlo alla meta stabilita. Il Signore poi punì il popolo che aveva adorato il vitello con il flagello di una pestilenza.

Ridiscese Mosè all’accampamento e disse al popolo di spogliarsi di tutti gli ornamenti poi prese la sua tenda e la portò fuori dal campo, lontana da esso e la chiamò tenda della radunanza. Ogni volta che Mosè entrava nella tenda in essa discendeva la Maestà divina ed egli parlava con il Signore. Poi Mosè tornava all’accampamento e Giosuè rimaneva di guardia nella tenda. Aveva chiesto Mosè al Signore che fosse Lui stesso a guidare il Suo popolo nel cammino verso la terra promessa ed il Signore lo rassicurò ed accolse la sua richiesta. Chiese poi Mosè di poter vedere l’essenza divina, ma il Signore gli rispose che nessun vivente ne avrebbe potuto avere la visione e poi però aggiunse:

C’è un luogo presso di Me, resta là sopra la roccia. Poi quando passerà la Mia gloria, ti nasconderò nella cavità della roccia, ti ricoprirò con la Mia mano, finché Io sia passato. Poi ritirerò la Mia mano e tu Mi vedrai per di dietro, ma la Mia faccia è invisibile.” (Es.33,21-33,23)

Questo antropomorfismo, secondo Rav Dario Disegni, sta a significare che l’uomo può rendersi conto degli effetti dell’opera del Signore e conoscerlo così indirettamente, ma non può percepire direttamente la sua essenza.

Disse poi il Signore a Mosè di tagliare due nuove tavole di pietra uguali alla precedenti e di salire l’indomani mattina sul monte. Sul monte il Signore avrebbe scritto sulle tavole le parole, che erano già nelle precedenti, che Mosè aveva spezzato. L’indomani Mosè salì sul monte e qui il Signore gli disse dell’alleanza che si apprestava a concludere con il Suo popolo e delle condizioni che poneva perché l’alleanza permanesse. Egli li avrebbe condotti alla terra stillante latte e miele, ma il Suo popolo non si sarebbe contaminato con l’idolatria praticata dalle popolazioni che in quella terra erano stanziate, anzi ne avrebbe distrutto gli idoli e gli altari e sarebbe rimasto fedele al Signore. Avrebbe osservato il popolo la festa delle azzime, per sette giorni avrebbe sempre mangiato azzime nel mese di Aviv in ricordo dell’uscita dall’Egitto. Le primizie agricole e i primi nati maschi, degli animali sarebbero stati proprietà del Signore e proprietà del Signore sarebbero stati anche i primogeniti maschi del popolo e come tali da riscattare. Lo Shabbat sarebbe stato sempre giorno di riposo dedicato al Signore, perché il Signore per sei giorni lavorò alla creazione e il settimo giorno cessò da ogni opera e si riposò creando lo Shabbat, finalità ultima della creazione. Sarebbe stata celebrata la festa delle settimane per il raccolto delle primizie e la festa autunnale al termine dei raccolti. Tre volte l’anno i maschi d’Israele sarebbero comparsi davanti al Signore, per le feste di pellegrinaggio: Pesah, Shavuot e Sukkot.

Il Signore quindi disse a Mosè di mettere per iscritto quelle parole, perché a quelle precise condizioni Lui concludeva l’alleanza con Mosè e con il popolo d’Israele.

Quaranta giorni rimase Mosè sul monte, senza mangiare né bere, e scrisse sulle tavole le parole del patto, i dieci comandamenti. Quando ridiscese dal monte recando le due tavole, Aron e i figli d’Israele videro che la pelle del suo volto risplendeva e non osarono avvicinarsi a lui. Mosè allora li chiamò e si avvicinarono per primi Aron ed i capi del popolo e ad essi parlò. Si fecero avanti quindi tutti i figli d’Israele e ad essi trasmise gli ordini del Signore. Terminato di parlare con loro Mosè si coprì il volto con un velo e quando si presentava al Signore nella tenda della radunanza lo toglieva e quando usciva fuori dalla tenda lo rimetteva e ripeteva ai figli d’Israele ciò che gli era stato prescritto.


Haftarà di Ki Tissà
(estratto da 1Re18,1- 18,39)

Achav, re d’Israele, istigato dalla moglie fenicia Izèvel, effettuava culti idolatri nel suo regno. Egli inviò un giorno il preposto alla casa reale, Ovadjà, ad esplorare il paese per trovare pascoli per i suoi cavalli e i suoi muli. Ovadjà, uomo timorato del Signore, incontrò il profeta Elia, il quale gli chiese di andare ad annunciarlo al re Achav. Achav andò incontro ad Elia e, quando lo vide, gli chiese se fosse venuto a perturbare il suo regno, ma Elia rispose:

“Non io ho perturbato Israele, ma tu e la casa di tuo padre, in quanto avete abbandonato i comandi del Signore, e sei andato dietro ai Ba’al. Ed ora manda a radunare presso di me al monte Carmel tutto Israele e i quattrocentocinquanta profeti del Ba’al e i quattrocento profeti dell’Ascerà che mangiano alla tavola di Izèvel.”

Elia propose che i profeti di Achav da una parte e lui dall’altra preparassero il sacrificio, i primi al loro dio Ba’al, e lui al Signore. In questo confronto si sarebbe visto quale divinità si sarebbe manifestata.

I profeti di Achav prepararono la legna e vi posero sopra un toro fatto a pezzi senza accendere il fuoco e la stessa cosa fece Elia.

“Essi presero il toro che diede loro, lo prepararono, invocarono il nome del Ba’al dalla mattina fino al mezzogiorno dicendo: ‘Ba’al rispondici.’ Ma non si udì voce e nessuno rispondeva. Poi saltarono sull’altare che era stato fatto.”

“All’ora dell’offerta del sacrificio pomeridiano, il profeta Elia si avanzò e disse: ‘Signore, D-o di Abramo, Isacco e Giacobbe, oggi sarà manifestato che tu sei D-o in Israele, e che io sono Tuo servo e che ho fatto tutte queste cose conformemente alla Tua parola. Rispondimi, Signore, rispondimi e sappia questo popolo che Tu, o Signore, sei D-o, e Tu avevi permesso che il loro cuore si ritirasse indietro.’ Allora cadde il fuoco del Signore, e consumò l’olocausto, la legna, le pietre, la terra e asciugò l’acqua che era nel canale. Tutto il popolo vedendo questo si prostrò con la faccia a terra, e tutti dissero: ‘Il Signore è Iddio, il Signore è Iddio.”

lunedì 18 febbraio 2013

Tetzavè

(Es.27,20-30,10)

I figli d’Israele, si dice nella parashà, dovranno fornire per tutte le loro generazioni l’olio d’oliva vergine necessario ad alimentare la lampada che arderà all’interno del Tabernacolo davanti alla tenda della Testimonianza. Aron e i suoi figli prepareranno questa lampada che dovrà ardere tutti i giorni dalla sera fino al mattino seguente.

Procede quindi la narrazione elencando e descrivendo tutti gli abiti che Aron indosserà nel suo ruolo di Gran Sacerdote. In particolare si dice che i lembi del manto saranno adornati con melagrane di lana azzurra, porpora e scarlatto, alternate con campanelli d’oro, i quali con il loro tintinnìo lasceranno intendere a chi li udrà i movimenti del Gran Sacerdote e quindi, pur non vedendolo, riveleranno quando egli sarà nel luogo santo davanti al Signore e quando ne uscirà. Sopra il manto infine indosserà il dorsale e il pettorale, entrambi artisticamente lavorati in oro, azzurro, porpora, scarlatto e lino ritorto. Il dorsale, “efod”, terminerà superiormente con due spalline, che recheranno due castoni, uno a destra ed uno a sinistra, ciascuno con una pietra d’onice ove saranno incisi i nomi delle tribù, sei per parte; inferiormente saranno due nastri, uno a destra ed uno a sinistra, per stringere il dorsale al corpo. Il pettorale, “choshen”, di forma quadrata e con il lato di circa venticinque centimetri, formerà come una tasca dove il sacerdote custodirà gli “Urim” e i “Tummim”, che non sappiamo esattamente cosa fossero ma solamente che servivano a conoscere la sorte secondo la volontà divina. Il pettorale recherà anch’esso incastonate in oro dodici pietre dure di diverso colore a simboleggiare le dodici tribù. Dorsale e pettorale infine saranno uniti con anelli e catenelle in oro. Il Gran Sacerdote recherà sul capo un turbante e su questo, frontalmente, una lamina d’oro recante le parole “consacrato al Signore”, “kodesh laAdonai”, per simboleggiare l’espiazione delle irregolarità o delle mancanze commesse dal popolo nell’eseguire il rituale dei sacrifici.

I vestimenti del Gran Sacerdote, tenuto conto dell’epoca, erano ricchi e ricercati. Dovevano esprimere “Magnificenza e dignità”, dice la nostra parashà, e cioè da un lato mostrare al popolo la particolare rilevanza che si intendeva conferire alla celebrazione del Signore che il Gran Sacerdote era chiamato a compiere, e dall'altro esprimere al Signore stesso il rispetto a Lui dovuto presentandosi con la dignità derivante dal valore morale e dall’onorabilità che il Gran Sacerdote doveva possedere. Per comprendere quale fosse il significato della funzione sacerdotale è conveniente soffermarsi su tre degli elementi del vestiario: il “dorsale”, il “pettorale” ed il “turbante”. Il “dorsale” ha sulle spalline, come abbiamo visto, i due castoni con le due pietre d’onice recanti in incisione i nomi delle dodici tribù, vale a dire che il Gran Sacerdote porta sulle sue spalle il popolo d’Israele davanti al Signore, sopportandone le colpe. Il “pettorale” reca incastonate dodici pietre dure diversamente colorate che rappresentano anch’esse le dodici tribù, e ciò vale a dire che il Gran Sacerdote le recherà nel suo cuore agendo e lottando per la loro salvezza. Il “turbante” infine, munito della lamina d’oro con le parole “consacrato al Signore” dichiara che il Gran Sacerdote appartiene al Signore, così come apparterranno al Signore le offerte sacrificali, le primizie e i primogeniti degli animali e dei figli d’Israele. I primogeniti dei figli d’Israele sappiamo che potranno essere riscattati, mentre per i leviti ed i cohanim non vi sarà riscatto perché essi rimarranno sempre di proprietà del Signore.

La narrazione prosegue con la descrizione della cerimonia di consacrazione sacerdotale di Aron e dei suoi figli. Fuori dal Tabernacolo, davanti alla tenda della radunanza, si presenteranno un giovane toro e due montoni senza difetti unitamente ad una cesta contenente pani azzimi. Aron e i suoi figli si avvicineranno alla tenda della radunanza e qui saranno lavati con acqua. Aron verrà vestito con i vestimenti sacerdotali ed il suo capo verrà unto. I figli di Aron saranno rivestiti con le tonache. Aron e i suoi figli imporranno le loro mani sulla testa del toro, che verrà immolato davanti alla tenda della radunanza. Con il sangue del toro si aspergeranno i quattro corni dell’altare e il sangue rimanente si spargerà intorno allo zoccolo dell’altare. Il grasso e le interiora saranno bruciati sull’altare, mentre il resto della carcassa sarà bruciato fuori dell’accampamento, quale sacrificio espiatorio di “chattath”. Verranno quindi sacrificati i due montoni: il primo sarà bruciato interamente sull’altare in “olocausto” al Signore; il sangue del secondo servirà per le aspersioni di consacrazione di Aron e i suoi figli, le interiora, la coda e la gamba destra saranno bruciate, mentre il petto e l’altra gamba saranno oggetto di dimenazione e costituiranno la parte spettante al sacerdote ed agli offerenti e quest’ultima sarà dunque l’offerta di “shelamim”. La cerimonia di iniziazione si ripeterà per sette giorni, così l’altare perverrà al grado di massima santità e tutto ciò che toccherà l’altare sarà sacro.

Dopo le cerimonie di iniziazione il Signore prescrive che siano celebrati sacrifici giornalieri che dovranno compiersi davanti alla tenda della radunanza, sicché il luogo sia consacrato alla Sua gloria.

Risiederò in mezzo ai figli d’Israele, sarò il loro Dio. Essi riconosceranno che Io, l’Eterno, sono il loro Dio che li ho tratti dalla terra d’Egitto per risiedere in mezzo a loro. Sì, sono Io il Signore loro Dio.

Viene data infine la descrizione dell’altare destinato ad ardere l’incenso, molto più piccolo ma anch’esso realizzato in legno di acacia rivestito d’oro e munito di quattro corni agli angoli del piano d’appoggio e di anelli e stanghe per il trasporto.


Haftarà di Tetzavè
(estratto da Ez.43,10-43,27)

In analogia al Tabernacolo eretto dal popolo d’Israele per onorare il Signore durante i quarant’anni di peregrinazione nel deserto, si narra qui dell’inaugurazione dell’altare del Tempio di Salomone:

Queste sono le misure dell’altare in cubiti, cubiti della lunghezza di un cubito e un palmo.

Segue una serie complessa di misure e indicazioni non sempre chiare. Secondo l’interpretazione maggiormente accettata l’altare è formato da quattro parti sovrapposte, ognuna più piccola della sottostante.

Terminata la costruzione dell’altare si dovrà poi procedere ad eseguire i riti propedeutici all’inaugurazione:

Per sette giorni si eseguirà l’espiazione e la purificazione dell’altare e così lo si inaugurerà. Terminati questi giorni, dal giorno ottavo in poi i sacerdoti offriranno sull’altare i vostri olocausti e i vostri shelamim, ed Io vi gradirò, detto del Signore.

domenica 10 febbraio 2013

Terumà

(Es.25,1-27,19)

Il Signore dice a Mosè di chiedere ai figli d'Israele che ognuno faccia un'offerta per la costruzione del Santuario, che sarà la Sua residenza in mezzo a loro. Le offerte saranno di oro, argento, rame, lana azzurra, porpora e scarlatto, lino e pelo di capra, pelli di montone tinte di rosso, pelli di delfino e legno di acacia. Saranno offerti inoltre olio per l'illuminazione, aromi per l'olio di unzione e incenso e poi ancora onice e pietre dure da incastonare nel dorsale e nel pettorale dei paramenti sacerdotali.

Dunque il Signore intende risiedere in mezzo al Suo popolo. Egli non dice che risiederà su una montagna come il monte Olimpo dei Greci, né risiederà nel cielo da dove scaglierà le sue saette, non risiederà genericamente in ogni luogo per giungere a chiamata dal Suo popolo. Egli sarà con il Suo popolo sempre ed in mezzo ad esso, perché Egli ha prescelto il Suo popolo tra tutti i popoli della terra. E’ evidente qui la concezione di un Dio che non è terzo che non è padrone perché lontano e minaccioso, è un Dio che è tra noi e con noi. E’ il desiderio dell’uomo di accedere, di comprendere la divinità, di sentirla compagna che guida e protegge, che punisce, certo, ma non che minaccia e incombe, che non è nemica, che vuole essere con noi e che a noi chiede di essere con lei. Ogni ebreo contribuirà ad erigere il Santuario, affinché la Divinità vi possa risiedere vicina e, quando un giorno il Santuario non sarà più, l’ebreo ospiterà il Signore dentro di sé e farà di sé stesso il Santuario del Signore.

Su questa affermata presenza del Signore si innesta il dramma delle sciagure che si abbatteranno sul popolo ebraico, delle persecuzioni, delle stragi. Quante stragi, immani, incalcolabili, incomprensibili. Questo popolo è stato un capro espiatorio dell’umanità. Nella diaspora si verificarono, già in epoca medievale, scoppi di violenza un po’ in tutta Europa sulla spinta dell’intolleranza religiosa, alimentata dalla povertà e dalle malattie. Ci furono crociate che, partite via terra con destinazione la Terra Santa, si esaurirono compiendo per mezza Europa massacri delle comunità ebraiche. E poi ancora l’immane catastrofe dell’espulsione dalla Spagna disposta dai re cattolici Ferdinando e Isabella nell’anno 1492. Questa espulsione cambiò radicalmente la geografia umana delle comunità ebraiche nel mondo. Le comunità sefardite migrarono dalla Spagna verso i pochi paesi dell’Europa occidentale disposti ad accoglierli. Mi viene in mente al proposito il filosofo Baruch Spinoza che visse in Olanda dopo che la sua famiglia fu espulsa dal Portogallo. Ma una fortissima corrente si diresse verso l’impero ottomano, che dimostrava di accogliere e tollerare gli ebrei dietro pagamento di una tassa, la “ghezia”. Migrare verso l’impero ottomano, vista la sua estensione, che andava dal “magreb” africano, fino all’Europa balcanica, significava andare in Egitto, o in Eretz, o in Turchia, oppure a Salonicco, oppure ancora risalire i Balcani e stabilirsi in Europa orientale. E poi la Shoah, la catastrofe immane, folle, criminale, la strage, la distruzione quasi totale delle comunità askenazite. Ecco la domanda che l’ebreo si è posto è: dov’era Dio? Il Signore che ha prescelto questo popolo ha consentito che tutto questo avvenisse: dov’è la giustizia? Si cerca così di intentare un processo a Dio attribuendo a Lui la colpa del male. Ma la colpa non è di Dio, la colpa è dell’uomo. Il Signore si dice che sia il Dio del bene e del male, perché se Egli non avesse consentita la concezione del male, allora il male non avrebbe potuto esistere. Ma l’attuazione del male è prerogativa dell’essere umano, che con la cacciata dal giardino dell’Eden ha acquisito due cose: la conoscenza del bene e del male ed il libero arbitrio, la facoltà di scegliere cosa fare assumendosi la responsabilità delle proprie azioni.

Tornando alla narrazione della parashà, vengono per prime date le istruzioni per la costruzione dell’Arca: sarà realizzata in legno di acacia e avrà una lunghezza di un metro e venticinque centimetri, la larghezza di settantacinque centimetri ed un’altezza ugualmente di settantacinque centimetri. L’Arca sarà rivestita internamente ed esternamente con una lamina d’oro ed alle estremità dei due lati più lunghi si fisseranno quattro anelli d’oro, due per lato, dove verranno infilate le stanghe, una per lato, anch’esse di legno di acacia ed anch’esse rivestite d’oro. Le stanghe serviranno per il trasporto dell’Arca e non dovranno mai essere sfilate dagli anelli. Nell’Arca verranno poste le tavole della testimonianza, che il Signore consegnerà al popolo d’Israele.

L’Arca sarà chiusa con un coperchio d’oro, sul quale, alle due estremità, saranno collocati due cherubini, anch’essi in oro, uno di fronte all’altro e con le ali dispiegate verso l’alto e il volto orientato verso il coperchio. Al di sopra del coperchio, tra i due cherubini il Signore si manifesterà a Mosè e proseguirà a manifestarsi poi al Gran sacerdote nel giorno del Kippur.

Sarà realizzata inoltre una tavola in legno di acacia, ricoperta d’oro per i pani di presentazione ed un candelabro in un solo pezzo realizzato anch’esso in oro puro. Il candelabro avrà tre rami per parte che fiancheggeranno il fusto centrale, avrà quindi complessivamente sette braccia e peserà un “kiccar”, pari a tremila sicli e quindi ad oltre trentatré chilogrammi.

Si passa quindi alle istruzioni per la costruzione del Tabernacolo e qui c’è da tener presente che le strutture dovevano essere facilmente smontabili e rimontabili per seguire tutti gli spostamenti che il popolo avrebbe effettuato nell’arco dei quarant’anni di peregrinazione nel deserto. Il Tabernacolo avrebbe avuto forma rettangolare con il lato maggiore della lunghezza di trenta cubiti, pari a circa diciotto metri, ed il lato minore di fondo con una larghezza di dodici cubiti, pari a circa sette metri. L’altezza del Tabernacolo sarebbe stata di dieci cubiti, pari a circa sei metri. La struttura perimetrale sarebbe stata realizzata con tavole di legno di acacia, ricoperte d’oro, accostate e fissate a dei basamenti d’argento. Lungo il perimetro e sulla copertura del Tabernacolo sarebbe stato posto un tendaggio sul quale sarebbero state poi disposte pelli di capra, di montone e di una specie di delfino per protezione dal sole e dalla pioggia.

La parte di fondo del Tabernacolo, di dimensioni minori, costituiva il Santo dei Santi, luogo ove sarebbe stata collocata l’Arca e che sarebbe stato separato dalla parte restante del Tabernacolo mediante una tenda di lino di colore azzurro, di porpora e di scarlatto. Anche all’ingresso del Tabernacolo sarebbe stata collocata una tenda di stoffa azzurra, di porpora e di scarlatto.

Vengono date quindi le istruzioni per la realizzazione dell’altare, collocato all’esterno del Tabernacolo davanti al suo ingresso. Si tratta di un altare quadrato di circa tre metri di lato e dell’altezza di circa un metro e mezzo rivestito di rame. Con l’altare verranno realizzati in rame tutti gli accessori necessari per i sacrifici e verranno realizzate anche due stanghe in legno di acacia per il trasporto dell’altare e anch’esse rivestite di rame.

Il Signore dà infine le istruzioni necessarie per la realizzazione del cortile che circonderà il Santuario. La lunghezza del cortile sarà di cento braccia e quindi di circa sessanta metri, mentre la sua larghezza sarà di cinquanta braccia, cioè circa trenta metri. La struttura perimetrale del cortile sarà realizzata con cortine di tessuto di lino dell’altezza di cinque braccia, circa tre metri, fissate a delle colonne, munite di fregi e uncini d’argento e di basamenti di rame, posizionate alla distanza di tre metri l’una dall’altra.



Haftarà di Terumà
(estratto da 1Re.5,26-6,13)

“Nell’anno quattrocentottanta dall’uscita dall’Egitto, nel quarto anno del regno di Salomone, nel mese di Ziv (antico nome del mese di Iyar) che è il secondo mese, costruì la casa consacrata al Signore.”

“La costruzione della casa venne eseguita con pietre intere trasportate dalla cava, e durante tutto il tempo della costruzione non si sentì nella casa il rumore dei martelli, delle scuri e di qualsiasi arnese di ferro.”

“Terminata la costruzione dei muri della casa, ne venne costruito il soffitto con tegole e file di legno di cedro.”

“La parola del Signore si rivolse allora a Salomone per dire: - Quanto a questa casa che tu costruisci, se eseguirai i miei statuti, metterai in esecuzione le Mie leggi e starai attento di comportarti secondo tutti i Miei comandi, Io, mantenendo con te la Mia parola che ho data a David, tuo padre, risiederò in mezzo ai figli d’Israele e non abbandonerò il Mio popolo Israele.”

mercoledì 6 febbraio 2013

Purim fra tradizione e assimilazione

“Esiste un popolo sparso e diviso tra tutti i popoli delle province del tuo regno, che ha leggi differenti da quelle di ogni altro popolo e che non segue le leggi del re ed al re non giova tollerarlo. Se al re piace si scriva che lo si distrugga, e io peserò diecimila talenti d’argento agli amministratori dell’erario da versare nel tesoro del re.” (Ester 3, 8 e 9)

Con queste parole il perfido Haman tenta di ottenere da Assuero, re di Persia, l’editto che ordini la distruzione del popolo ebraico. Il resto della storia lo conosciamo: la regina Ester, che il re aveva preso in moglie ignorandone l’appartenenza al popolo ebraico,mette a rischio la propria vita ed intercede presso il re ottenendo la salvezza del suo popolo e la condanna del perfido Haman.

Ricordiamoci che a Babilonia era stata deportata l’elite del popolo ebraico, quella parte cioè della popolazione che il vincitore aveva giudicata utile perché dotata nelle scienze, nelle arti, nei mestieri. Queste persone deportate si erano così bene inserite nella società multietnica babilonese, che arrivarono a conseguire oltre che una certa agiatezza anche cariche pubbliche di rilievo. A questo proposito rammentiamoci anche del giovinetto Daniele che, deportato e cresciuto a corte, arriva a ricoprire l’incarico di capo di tutte le province di Babilonia (Dan.2,48).

La Meghillà di Ester ci dice che Haman fu indotto nel suo proposito di distruzione del popolo ebraico dal comportamento irrispettoso di Mardocheo, il quale si era rifiutato di prestargli omaggio inchinandosi davanti a lui. Ma , se andiamo ad analizzare le parole che Haman dice al re, troviamo che egli esprime altre due motivazioni: la prima, che serve a legittimare l’ordine di distruzione che il re avrebbe dovuto emanare, consiste nel fatto che il popolo ebraico non segue le leggi del re, ma ne ha di proprie differenti; la seconda invece appare come la motivazione principale che spinge Haman a perseguire il suo perfido proposito e cioè la prospettiva del saccheggio dei beni degli ebrei, dal quale egli avrebbe ricavato, la propria fortuna personale ed anche i diecimila talenti d’argento da versare alle casse del re.

Le vicende della Meghillà si ripeteranno più volte nella storia del popolo ebraico e delle persecuzioni cui sarà sottoposto. Qui le leggi emanate dal re e che gli ebrei non seguono , detto chiaramente, sono tutte quelle che contravvengono la normativa religiosa e che quindi assumono per l’ebreo la connotazione di idolatria. L’idolatria, infatti, non consiste solo nell’adorarazione di altre divinità, ma idolatria è anche contravvenire, ad esempio, alle regole alimentari, che sono espresse dalla Torà, idolatria è lavorare il Sabato, perché anche questo è comando del Signore. Gli altri popoli che vengono a contatto con il popolo ebraico non si spiegano queste diversità e le interpretano come volontà degli ebrei di non avere rapporti con loro e di voler costituire come una lobby che cura i propri interessi culturali e di affari, tenendone fuori gli altri, i “gojim”.

Queste incomprensioni appaiono al giorno d’oggi del tutto anacronistiche, considerando che viviamo in un mondo dove la conoscenza e la comunicazione sono divenute in tutti i campi prerogative largamente accessibili a tutti. Viene da chiedersi se l’incomprensione sia dovuta esclusivamente a preconcetti alimentati da parte degli altri popoli o se anche nell’atteggiamento e nei comportamenti degli ebrei verso i “gojim” ci sia qualcosa che non funziona.

Che la religiosità del buon ebreo sia un fatto molto impegnativo e molto esigente nei suoi stessi confronti è un fatto noto. E’ una delle religioni più ossessive, che regola praticamente tutte le azioni dell’essere umano con una miriade di precetti positivi e negativi. I rituali ebraici risultano poi incomprensibili ai “gojim” a meno che non siano conoscitori della lingua ebraica nella quale sono celebrati. L’accesso stesso alle Sinagoghe non è semplice, ufficialmente per motivi di sicurezza, ma all’atto pratico è sostanzialmente interdetto ai “gojim”.

Mi chiedo cosa veramente la Torà intenda per popolo ebraico e cosa rappresenti l’Esodo nell’esperienza di ciascun essere umano. Parlo di Esodo perché è in questo libro che nasce l’ebraismo come religione ed è ebreo chi, conosciuta la schiavitù della propria esistenza, intraprende il viaggio della propria vita nel deserto, attraversando e superando difficoltà e crisi per arrivare a vedere la terra promessa, la finalità della propria esistenza.

La Torà dice che si unirono agli ebrei nel viaggio verso la terra promessa anche degli Egiziani ed anche elementi di altre popolazioni. Per altro verso la Torà parla anche di popolazioni che devono essere distrutte, massimamente quelle che occupano la terra di Canaan. Per comprendere esattamente cosa ci ha detto la Torà e non cadere in una interpretazione di stampo razzista occorre, però, tenere a mente che una cosa la Torà focalizza come pericolo mortale e quindi da distruggere: l’idolatria. I popoli da combattere sono quelli che esercitano il culto dei falsi dei e che quindi sono da non frequentare per il pericolo che la loro idolatria possa contagiare il popolo ebraico. Si manifesta invece accoglienza verso quei soggetti che aderiscano all’ebraismo e ad esso si convertano, accoglienza totale al punto che la Torà ci dice che non è più consentito, dopo la loro conversione, rammentare loro la condizione precedente.
Si dice che l’ebraismo non faccia opera di proselitismo e questa al giorno d’oggi è una realtà pressoché generale. Si dice quindi che l’ebraismo non bussi alle porte altrui per cercare proseliti, ma si dice anche che se qualcuno bussa alla sua porta questa viene aperta. Non mi pare però francamente che questa accoglienza avvenga con ragionevole facilità.

Si ribatte a questa critica sostenendo che la tendenza a rendere difficile l’accesso alla nostra comunità da parte di elementi estranei sia dovuta alla necessità di mantenere integre le proprie tradizioni al fine di non smarrire la propria identità. Ma anche questa non sembra una risposta del tutto centrata, giacché la perdita della propria identità si verifica, non quando un altro soggetto ne acquisisca una simile a questa ed entri quindi a far parte della nostra comunità, ma quando noi uscendo fuori dalla nostra comunità e frequentando il mondo esterno, che ha una identità diversa dalla nostra, ci sentiamo attratti da tale diversa identità al punto di smarrire la nostra.

E allora? Allora un po’ più di coraggio! Perché temiamo che il semplice contatto con culture diverse dalla nostra possa incrinare la nostra tradizione? A tal punto ne riteniamo deboli le radici? Cosa realmente significa erigere una siepe attorno alla Torà? La Torà deve essere studiata, al fine di comprenderla, interpretarla ed assimilarne l’intima essenza così da rendere sostenibile il confronto dialettico con chi sostenga una posizione di critica religiosa o più semplicemente desideri meglio conoscere quali ne siano dettami : questa è la siepe da erigere attorno alla Torà!

Quando la Torà afferma che i popoli abitanti la terra di Canaan devono essere sterminati dobbiamo attualizzare questa affermazione comprendendo, per prima cosa, quale sia oggi la nostra terra di Canaan e cosa significhi per noi oggi lo sterminio dei popoli che la occupano. Una prima risposta è che la terra di Canaan debba intendersi, in termini semplicemente geografici, come la terra corrispondente al moderno Stato d’Israele e che lo sterminio di cui si parla consista nella cacciata di quelle popolazioni ivi residenti che seguono una diversa religione della quali propugnino la proliferazione. Ma la terra di Canaan può intendersi in senso metaforico e personale come il punto di arrivo del nostro viaggio attraverso le difficoltà, le sofferenze, i sacrifici incontrati nell’arco della nostra vita e che ci ha condotto all’intima conoscenza della Torà. Questa intima conoscenza ed adesione alla Torà è la nostra terra di Canaan! E lo sterminio dei popoli che occupano la terra promessa consisterà quindi nel superamento di ogni ostacolo alla nostra conquistata consapevolezza, che provenga ed affiori sotto forma di dubbi, incertezze e soprattutto idolatria.

L’idolatria sarà la popolazione insidiosa della nostra terra di Canaan che noi dovremo sterminare. Idolatria che si annida spesso insospettata, idolatria che si concretizza ogni qual volta noi saremo tentati di mettere sul piedistallo del nostro culto non già il Signore ed i Suoi precetti, ma altri idoli materiali oggetto del nostro interesse, idoli che si annidano nel denaro, nel potere, nel desiderio, nell’egoismo, quest’ultimo così diffuso quando ottunde i nostri cuori al punto di non farci più percepire l’altro come nostro simile e di non rendere più comprensibili le sue parole, l’egoismo che uccide la comunicazione. Ma se noi coltiveremo la nostra umiltà torneremo a percepire ciò che ci circonda e le parole ed i sentimenti di chi a noi si rivolge e la priorità dei valori che la Torà ci insegna.

domenica 3 febbraio 2013

Mishpatim

(Es.21,1-24,18)

Il Signore assegna a Mosè gli statuti che il popolo dovrà osservare. Sono le norme che regoleranno il funzionamento della nuova società che si formerà gradualmente nell'arco dei quarant'anni trascorsi nel deserto: il popolo dei figli d'Israele. Le dieci Parole, i Comandamenti, sono un po' come la carta costituzionale, in quanto esprimono i princìpi che devono ispirare la condotta del popolo d'Israele, mentre le norme degli statuti sono un po' l'equivalente dei nostri codici, civile e penale, dove è detto per i diversi rami di attività ciò che si deve fare, come si deve fare e quale sia la sanzione per chi trasgredisca. L'assetto normativo è quindi come un albero dove il tronco corrisponde alle dieci Parole e i rami alle diverse norme statuali.

Iniziano gli statuti dettando le norme che regolano la schiavitù. La mano d'opera era a quel tempo ancora più apprezzata di quanto non lo sia al giorno d'oggi, non solo perché non c'erano sindacati, ma ancor più perché all'epoca, ovviamente, non esistevano tutti quei macchinari che potessero essere d'ausilio nello svolgimento dei lavori. Il lavoro si eseguiva con mano d'opera costituita da schiavi o da salariati e l'aiuto alla mano d'opera era costituito dal bestiame sia per i trasporti, sia per il lavoro dei campi. Lo schiavo era addetto a lavori e mansioni che dovevano svolgersi con una certa uniformità nell'arco di tutto l'anno, mentre il ricorso alla mano d'opera salariata avveniva per i lavori stagionali.

Si comincia dunque con lo stabilire che lo schiavo ebreo, trascorsi sei anni in schiavitù, al settimo deve essere posto in libertà senza riscatto. Questa regola non valeva per gli schiavi non ebrei che invece erano di permanente proprietà dei loro padroni. Un ebreo libero diveniva schiavo quando era venduto e ciò avveniva o per sua volontà o per condanna inflitta dal tribunale quando, resosi colpevole di furto, non avesse di che risarcire. Al momento della liberazione lo schiavo poteva rinunziarvi dichiarando di voler rimanere a servire il suo padrone. In questo caso il padrone lo conduceva in tribunale e qui gli forava un orecchio a testimonianza della sua proprietà definitiva.

Ma, nell'ambito degli schiavi ebrei, oltre il caso della vendita degli schiavi maschi c'era anche quello delle femmine. Poteva avvenire infatti che un padre vendesse la propria figlia giovinetta ad un altro uomo affinché lo accudisse per qualche anno e poi, giunta all'età del matrimonio, andasse sposa a lui o a suo figlio, o comunque ricevesse sostentamento e coabitazione. Ove ciò non fosse avvenuto la giovane avrebbe riacquistato la libertà senza riscatto.

Si passa quindi a trattare il caso dell'omicidio distinguendone le tipologie tra volontario, colposo e premeditato. Per l'omicidio volontario la pena prevista era la condanna a morte, anche se ciò appare in netto contrasto con il sesto Comandamento che prescrive di non uccidere. Nella Torà spesso il Signore punisce con la morte, ma lo fa' quando i comportamenti umani mettono in pericolo l'attuazione del Suo disegno divino. La condanna a morte dell'omicida peraltro era inflitta da un tribunale che avrebbe valutato l'esistenza di circostanze attenuanti. Per l'omicidio colposo era previsto che il colpevole si trasferisse in una delle città rifugio, sia per non offendere con la sua presenza i parenti del morto, sia per sfuggire ad eventuali rappresaglie da parte di costoro. La premeditazione costituiva un'aggravante dell'omicidio volontario.
La pena di morte era prevista anche nel caso di percosse ai genitori o nel caso che nei loro confronti venisse pronunciata maledizione.

Si fa' quindi il caso di una persona percossa che sia rimasta a letto per un certo tempo e poi sia costretta per camminare a servirsi del bastone. In questo caso il colpevole risarcirà l'offeso pagando la degenza, le cure e i danni.

Nel corso dell'elencazione dei reati e delle pene compare la frase che esprime il criterio da seguire per stabilire le pene:

"Occhio per occhio, dente per dente,mano per mano, piede per piede. Bruciatura per bruciatura, piaga per piaga, contusione per contusione."

Questa frase ha alimentato, al di fuori del mondo ebraico, la credenza che la legge degli ebrei fosse improntata alla vendetta e non conoscesse il perdono. E' evidente che questa credenza non risponde a verità e ciò non solo perché il perdono è un sentimento ben presente nell'ebreo e qui vale ricordare al proposito il perdono che a Yom Kippur l'ebreo deve chiedere e ottenere per le azioni che abbiano causato danno ad altri, ma anche perché la frase citata va intesa non in senso letterale ma in senso risarcitorio. Così "occhio per occhio" significa che se ho causato la perdita di un occhio ad un'altra persona dovrò risarcire il danno valutando quale perdita avrei io se perdessi un occhio. Ne viene fuori che il risarcimento per il danneggiato varia in funzione del censo e dell'attività sia del danneggiato, sia di colui che ha prodotto il danno e quindi delle sue effettive possibilità risarcitorie.

Al giorno d'oggi qualcuno, a sostegno della vendicatività della natura ebraica, cita a volte il conflitto arabo-israeliano nel quale accade che ad ogni attacco arabo segua immediata la rappresaglia israeliana, sia essa un'incursione aerea dopo lanci di razzi verso il territorio israeliano ovvero una eliminazione mirata dopo un attentato. Questo qualcuno farebbe errori madornali nel sostenere la propria tesi. Innanzi tutto mentre esiste l'indole di un singolo individuo, forse è già da dubitare che esista l'indole di un popolo, specie quando questo popolo proviene dai quattro angoli della terra dove ha vissuto per duemila anni, subendo peraltro persecuzioni, vessazioni e disprezzo, essendo sempre attaccato senza mai attaccare. Né l'indole può attribuirsi ad una nazione, una nazione ha una politica e non un'indole e nel caso di Israele è la politica che ha stabilito la risposta colpo su colpo perché strategicamente Israele non può permettersi di perdere una guerra e nemmeno una battaglia perché l'esiguità del suo territorio lo vedrebbe ricacciato in mare in caso di sconfitta.

Ci sono poi negli statuti norme che tutelano gli schiavi dai maltrattamenti e norme che prevedono il caso di danni provocati da animali per i quali il proprietario della bestia è tenuto al risarcimento. Altre norme trattano dell'uccisione di un ladro sorpreso a rubare nella propria casa e poi ancora si passa al caso di furto di beni affidati in custodia.

E' previsto anche che chi seduce una vergine non fidanzata e che coabita con lei sia obbligato a sposarla pagando la dote fissata. Se il padre non concorda per il matrimonio, il seduttore dovrà pagare una somma pari alla dote stabilita per le vergini, che era pari a cinquanta sicli d'argento.

Seguono una norma che prevede la morte per la strega, ed un'altra che pure prevede la morte per chi compia sacrifici ad altra divinità che non sia il Signore. Sono norme queste di tutela non sociale ma religiosa, delicate per la loro applicazione, che facilmente potrebbe scivolare verso l'arbitrarietà qualora si tendesse di fatto a sbarazzarsi di qualcuno sulla base di prove fumose e non sostanziali.

Si prescrive poi di non ingannare e mettere in difficoltà lo straniero e di non opprimere la vedova e l'orfano. Si dice inoltre che non devono chiedersi interessi per i prestiti fatti a qualcuno del proprio popolo.

Ci sono poi, a proposito della presunta vendicatività del popolo ebraico, due norme che smentiscono questa presunzione e che riguardano gli animali appartenenti al proprio nemico: la prima prevede che se l'animale è smarrito e noi lo troviamo dobbiamo ricondurlo al suo proprietario; l'altra che, se si vede l'asino del nemico soccombente per l'eccessivo peso, si deve intervenire e prestare aiuto.

Gli statuti dettano norme per l'anno sabbatico, per cui per sei anni la terra sarà coltivata e al settimo anno sarà lasciata riposare. Così pure per sei giorni sarà consentito lavorare e al settimo giorno ci sarà il riposo per tutti, per la famiglia, per gli schiavi, per lo straniero, per gli animali.

Le norme assegnate si concludono con quelle relative alle feste di pellegrinaggio: la festa degli azzimi (Pesah), quella della mietitura (Shavuoth) e la festa del raccolto (Sukkoth). Nelle tre feste verranno offerti sacrifici al Signore.

Il Signore dice che il popolo debba sapere che Mosè li guiderà fino alla terra promessa, che Egli gradualmente libererà dalle popolazioni ivi dimoranti, per darla al Suo popolo, dal Mar Rosso al Mediterraneo e dal deserto fino all'Eufrate.

Poi il Signore disse a Mosè: - Sali verso il Signore con Ahron, Nadav, Avihù e settanta anziani d'Israele. E vi prostrerete da lontano.

Mosè avanzò da solo verso il Signore e gli altri non lo seguirono e non salirono con lui. Mosè ridiscese dal monte e trasmise al popolo tutte le parole del Signore e tutti gli statuti. E il popolo gridò: - Tutto quanto ha detto il Signore, noi lo eseguiremo.

Mosè scrisse tutte le Parole del Signore e il mattino dopo eresse un altare ai piedi del monte ed innalzò dodici monumenti, uno per ogni tribù, poi disse ai giovani d'Israele di offrire olocausti al Signore. Mosè prese metà del sangue e lo mise in alcuni bacili mentre con l'altra metà spruzzò l'altare. Lesse Mosè le Parole del Signore e il popolo disse: - Tutto ciò che ha pronunziato il Signore, eseguiremo e obbediremo.

Mosè asperse il popolo con il sangue contenuto nei bacili e disse: - Questo è il sangue dell'alleanza che il Signore conclude con voi riguardante tutte queste parole scritte nel libro del patto.

Mosè con Ahron e Nadav e Abihù, accompagnati dai settanta anziani d'Israele salirono sul monte e contemplarono la Divinità d'Israele, ebbero la visione del Signore e non morirono e poi mangiarono e bevvero. E il Signore disse a Mosè: - Sali verso di Me sul monte e rimani là e Io ti darò le tavole di pietra, la legge e i precetti che Io ho scritto per istruirli.

Mosè salì sul monte e il monte fu avviluppato da una fitta nebbia. Per sei giorni la nube della maestà divina avvolse il monte e al settimo giorno il Signore chiamò Mosè. La maestà divina appariva ai figli d'Israele come un fuoco che divorava la sommità del monte. Mosè entrò nella nube e lì rimase per quaranta giorni e quaranta notti.


Haftarà di Mishpatim
(estratto da Ger.34,8-22; 33,25-26; 35,1-11)

“Quando Io trassi i vostri padri dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi, stabilii con loro un patto dicendo: In capo a sette anni dovrete mandare libero lo schiavo ebreo che era stato venduto a ciascuno di voi: ti servirà sei anni e poi lo manderai libero.

… voi oggi siete tornati a comportarvi rettamente dinanzi a Me, col proclamare emancipazione ciascuno al suo compagno, … . Ma poi siete tornati a profanare il Mio nome, avete ripreso ciascuno lo schiavo e la schiava che avevate mandati liberi … siccome voi non Mi avete dato retta proclamando emancipazione ciascuno al suo fratello e al suo compagno: ecco Io proclamo emancipazione alla spada, alla pestilenza, alla fame … .

I prìncipi di Giuda, i prìncipi di Gerusalemme, i ministri, i sacerdoti e tutta la popolazione del paese, … li consegnerò in mano dei loro nemici e di quelli che attentano alla loro vita, e i loro cadaveri saranno cibo agli uccelli che volano verso il cielo e agli animali della terra e Zedekiah re di Giuda e i suoi prìncipi darò in mano dei loro nemici e di quelli che attentano alla loro vita, in mano dell’esercito del re di Babilonia …”

“Noi non beviamo vino, perché nostro padre Jonadav figlio di Rechav ci ha dato questo ordine: ‘Non bevete vino mai, né voi né i vostri figli; e non costruite delle case, non seminate alcuna specie di seme, non piantate vigne e non possedetene, ma abitate in tende durante i vostri giorni, affinché viviate a lungo nella terra dove abitate.’

… . Ma quando Nabucodonosor entrò contro il nostro paese abbiamo detto: Entriamo a Gerusalemme per sfuggire all’esercito dei Caldei e all’esercito di Aram, e abbiamo preso residenza in Gerusalemme.”


(Zedekia è catturato dai Babilonesi, i suoi figli sono uccisi davanti a lui e poi egli viene accecato.)