mercoledì 6 febbraio 2013

Purim fra tradizione e assimilazione

“Esiste un popolo sparso e diviso tra tutti i popoli delle province del tuo regno, che ha leggi differenti da quelle di ogni altro popolo e che non segue le leggi del re ed al re non giova tollerarlo. Se al re piace si scriva che lo si distrugga, e io peserò diecimila talenti d’argento agli amministratori dell’erario da versare nel tesoro del re.” (Ester 3, 8 e 9)

Con queste parole il perfido Haman tenta di ottenere da Assuero, re di Persia, l’editto che ordini la distruzione del popolo ebraico. Il resto della storia lo conosciamo: la regina Ester, che il re aveva preso in moglie ignorandone l’appartenenza al popolo ebraico,mette a rischio la propria vita ed intercede presso il re ottenendo la salvezza del suo popolo e la condanna del perfido Haman.

Ricordiamoci che a Babilonia era stata deportata l’elite del popolo ebraico, quella parte cioè della popolazione che il vincitore aveva giudicata utile perché dotata nelle scienze, nelle arti, nei mestieri. Queste persone deportate si erano così bene inserite nella società multietnica babilonese, che arrivarono a conseguire oltre che una certa agiatezza anche cariche pubbliche di rilievo. A questo proposito rammentiamoci anche del giovinetto Daniele che, deportato e cresciuto a corte, arriva a ricoprire l’incarico di capo di tutte le province di Babilonia (Dan.2,48).

La Meghillà di Ester ci dice che Haman fu indotto nel suo proposito di distruzione del popolo ebraico dal comportamento irrispettoso di Mardocheo, il quale si era rifiutato di prestargli omaggio inchinandosi davanti a lui. Ma , se andiamo ad analizzare le parole che Haman dice al re, troviamo che egli esprime altre due motivazioni: la prima, che serve a legittimare l’ordine di distruzione che il re avrebbe dovuto emanare, consiste nel fatto che il popolo ebraico non segue le leggi del re, ma ne ha di proprie differenti; la seconda invece appare come la motivazione principale che spinge Haman a perseguire il suo perfido proposito e cioè la prospettiva del saccheggio dei beni degli ebrei, dal quale egli avrebbe ricavato, la propria fortuna personale ed anche i diecimila talenti d’argento da versare alle casse del re.

Le vicende della Meghillà si ripeteranno più volte nella storia del popolo ebraico e delle persecuzioni cui sarà sottoposto. Qui le leggi emanate dal re e che gli ebrei non seguono , detto chiaramente, sono tutte quelle che contravvengono la normativa religiosa e che quindi assumono per l’ebreo la connotazione di idolatria. L’idolatria, infatti, non consiste solo nell’adorarazione di altre divinità, ma idolatria è anche contravvenire, ad esempio, alle regole alimentari, che sono espresse dalla Torà, idolatria è lavorare il Sabato, perché anche questo è comando del Signore. Gli altri popoli che vengono a contatto con il popolo ebraico non si spiegano queste diversità e le interpretano come volontà degli ebrei di non avere rapporti con loro e di voler costituire come una lobby che cura i propri interessi culturali e di affari, tenendone fuori gli altri, i “gojim”.

Queste incomprensioni appaiono al giorno d’oggi del tutto anacronistiche, considerando che viviamo in un mondo dove la conoscenza e la comunicazione sono divenute in tutti i campi prerogative largamente accessibili a tutti. Viene da chiedersi se l’incomprensione sia dovuta esclusivamente a preconcetti alimentati da parte degli altri popoli o se anche nell’atteggiamento e nei comportamenti degli ebrei verso i “gojim” ci sia qualcosa che non funziona.

Che la religiosità del buon ebreo sia un fatto molto impegnativo e molto esigente nei suoi stessi confronti è un fatto noto. E’ una delle religioni più ossessive, che regola praticamente tutte le azioni dell’essere umano con una miriade di precetti positivi e negativi. I rituali ebraici risultano poi incomprensibili ai “gojim” a meno che non siano conoscitori della lingua ebraica nella quale sono celebrati. L’accesso stesso alle Sinagoghe non è semplice, ufficialmente per motivi di sicurezza, ma all’atto pratico è sostanzialmente interdetto ai “gojim”.

Mi chiedo cosa veramente la Torà intenda per popolo ebraico e cosa rappresenti l’Esodo nell’esperienza di ciascun essere umano. Parlo di Esodo perché è in questo libro che nasce l’ebraismo come religione ed è ebreo chi, conosciuta la schiavitù della propria esistenza, intraprende il viaggio della propria vita nel deserto, attraversando e superando difficoltà e crisi per arrivare a vedere la terra promessa, la finalità della propria esistenza.

La Torà dice che si unirono agli ebrei nel viaggio verso la terra promessa anche degli Egiziani ed anche elementi di altre popolazioni. Per altro verso la Torà parla anche di popolazioni che devono essere distrutte, massimamente quelle che occupano la terra di Canaan. Per comprendere esattamente cosa ci ha detto la Torà e non cadere in una interpretazione di stampo razzista occorre, però, tenere a mente che una cosa la Torà focalizza come pericolo mortale e quindi da distruggere: l’idolatria. I popoli da combattere sono quelli che esercitano il culto dei falsi dei e che quindi sono da non frequentare per il pericolo che la loro idolatria possa contagiare il popolo ebraico. Si manifesta invece accoglienza verso quei soggetti che aderiscano all’ebraismo e ad esso si convertano, accoglienza totale al punto che la Torà ci dice che non è più consentito, dopo la loro conversione, rammentare loro la condizione precedente.
Si dice che l’ebraismo non faccia opera di proselitismo e questa al giorno d’oggi è una realtà pressoché generale. Si dice quindi che l’ebraismo non bussi alle porte altrui per cercare proseliti, ma si dice anche che se qualcuno bussa alla sua porta questa viene aperta. Non mi pare però francamente che questa accoglienza avvenga con ragionevole facilità.

Si ribatte a questa critica sostenendo che la tendenza a rendere difficile l’accesso alla nostra comunità da parte di elementi estranei sia dovuta alla necessità di mantenere integre le proprie tradizioni al fine di non smarrire la propria identità. Ma anche questa non sembra una risposta del tutto centrata, giacché la perdita della propria identità si verifica, non quando un altro soggetto ne acquisisca una simile a questa ed entri quindi a far parte della nostra comunità, ma quando noi uscendo fuori dalla nostra comunità e frequentando il mondo esterno, che ha una identità diversa dalla nostra, ci sentiamo attratti da tale diversa identità al punto di smarrire la nostra.

E allora? Allora un po’ più di coraggio! Perché temiamo che il semplice contatto con culture diverse dalla nostra possa incrinare la nostra tradizione? A tal punto ne riteniamo deboli le radici? Cosa realmente significa erigere una siepe attorno alla Torà? La Torà deve essere studiata, al fine di comprenderla, interpretarla ed assimilarne l’intima essenza così da rendere sostenibile il confronto dialettico con chi sostenga una posizione di critica religiosa o più semplicemente desideri meglio conoscere quali ne siano dettami : questa è la siepe da erigere attorno alla Torà!

Quando la Torà afferma che i popoli abitanti la terra di Canaan devono essere sterminati dobbiamo attualizzare questa affermazione comprendendo, per prima cosa, quale sia oggi la nostra terra di Canaan e cosa significhi per noi oggi lo sterminio dei popoli che la occupano. Una prima risposta è che la terra di Canaan debba intendersi, in termini semplicemente geografici, come la terra corrispondente al moderno Stato d’Israele e che lo sterminio di cui si parla consista nella cacciata di quelle popolazioni ivi residenti che seguono una diversa religione della quali propugnino la proliferazione. Ma la terra di Canaan può intendersi in senso metaforico e personale come il punto di arrivo del nostro viaggio attraverso le difficoltà, le sofferenze, i sacrifici incontrati nell’arco della nostra vita e che ci ha condotto all’intima conoscenza della Torà. Questa intima conoscenza ed adesione alla Torà è la nostra terra di Canaan! E lo sterminio dei popoli che occupano la terra promessa consisterà quindi nel superamento di ogni ostacolo alla nostra conquistata consapevolezza, che provenga ed affiori sotto forma di dubbi, incertezze e soprattutto idolatria.

L’idolatria sarà la popolazione insidiosa della nostra terra di Canaan che noi dovremo sterminare. Idolatria che si annida spesso insospettata, idolatria che si concretizza ogni qual volta noi saremo tentati di mettere sul piedistallo del nostro culto non già il Signore ed i Suoi precetti, ma altri idoli materiali oggetto del nostro interesse, idoli che si annidano nel denaro, nel potere, nel desiderio, nell’egoismo, quest’ultimo così diffuso quando ottunde i nostri cuori al punto di non farci più percepire l’altro come nostro simile e di non rendere più comprensibili le sue parole, l’egoismo che uccide la comunicazione. Ma se noi coltiveremo la nostra umiltà torneremo a percepire ciò che ci circonda e le parole ed i sentimenti di chi a noi si rivolge e la priorità dei valori che la Torà ci insegna.

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