lunedì 30 maggio 2011

Nasò

La narrazione si svolge nei capitoli da 4 (parte) a 7 di Numeri e comprende diversi argomenti connessi alla consacrazione del Santuario.

Il capitolo 4 tratta del censimento dei Leviti, avvenuto con la conta dei figli di Kehat, di Gherscion e di Merari, limitatamente ai maschi di età compresa tra i trenta ed i cinquanta anni, nonché dei compiti che a loro nominativamente furono assegnati per quanto riguarda i servizi, la custodia ed il trasporto degli oggetti del Tabernacolo. Appare notevole l’organizzazione che venne creata, con la quale si arrivò ad associare ciascuna persona al suo specifico compito, sicchè niente fu lasciato al caso o all’improvvisazione, né poteva essere altrimenti per un popolo nomade che doveva spostarsi rapidamente , senza perdere lungo il suo cammino né oggetti sacri, né animali, né masserizie, né provviste ed, ovviamente, neanche uomini o donne.
Tutto era organizzato, dallo schieramento all’ordine di marcia, come abbiamo visto nella parashà precedente, affinché questa massa di popolo in cammino, anche e soprattutto in presenza di improvvise minacce od imprevisti non avesse a scompaginarsi.
Era un popolo ma anche un esercito, che agiva secondo le regole e la disciplina, che aveva dovuto adottare per necessità, così come avevano fatto ed avrebbero fatto anche altri popoli, ben più numerosi ed agguerriti, che traversarono la mezzaluna fertile: dagli Ittiti, ai Medi, ai Babilonesi, agli Assiri, ai Persiani.
Furono lo stesso tipo di migrazioni delle invasioni barbariche che avrebbero riguardato, molti secoli più tardi, anche l’Italia alla caduta dell’impero Romano. Vandali, Goti, Visigoti, Unni erano popoli interi che si spostavano e che, sicuramente, avranno avuto anch’essi un’organizzazione ed una disciplina simile a quella qui narrata per il popolo ebraico.

Si parla quindi al capitolo 5 di argomenti, che, a prima vista, potrebbero apparire estemporanei perché parrebbero riguardare più regole particolari nell’ambito della convivenza sociale che non l’ambito dei servizi per il Tabernacolo e la consacrazione del Santuario. Infatti vengono impartite le istruzioni riguardanti l’allontanamento del lebbroso e più in generale dell’impuro dall’accampamento, per poi passare all’illustrazione delle modalità di riparazione quando sia stato commesso un furto ed infine il capitolo conclude con una lunga illustrazione della procedura cui avrebbe dovuto sottoporsi una donna sposata che fosse stata sospettata dal marito di essere stata infedele.
I tre argomenti in effetti toccano problematiche di carattere sociale, ma indubbiamente riguardano tutte e tre la “purità”, che, particolarmente in occasione della consacrazione del Santuario, doveva essere rispettata e non menomata per la mancata purificazione relativa a fatti già avvenuti. Con questa considerazione è individuata la radice logica per la quale la trattazione di questi argomenti avviene nella nostra parashà.

Il capitolo 6 tratta del nazireato e degli obblighi che il nazireo, sia esso uomo o donna, deve assumere per tutto il periodo di tempo nel quale la sua persona è dedicata al Signore. Per effetto del voto di nazireato egli non berrà né vino né sostanze inebrianti, non mangerà uva e lascerà crescere barba e capelli senza tagliarli, né raderli. Non dovrà contaminarsi entrando ove sia un morto, anche se si trattasse di suo padre, di sua madre, di suo fratello o di sua sorella. Trascorso il tempo della sua astinenza il nazireo porterà la sua chioma all’ingresso della tenda della radunanza e recherà le offerte per i sacrifici al Signore.

Al capitolo 7, finale della parashà, si narra che, dopo che Mosè ebbe terminato di erigere il Santuario ed ebbe proceduto alla sua consacrazione, i preposti alle tribù portarono i loro sacrifici davanti al Signore.
Parte delle offerte andarono ai Leviti, mentre per l’inaugurazione dell’altare i preposti recarono le loro offerte al Signore in giorni separati.
La presentazione delle offerte si protrasse quindi per dodici giorni, tanti quante erano le tribù, I doni consistevano in vassoi e bacinelle d’argento e ciotole d’oro, oggetti che furono tutti pesati in sicli d’argento del Santuario. La pesatura avveniva con bilance a due piatti, su uno dei quali si collocavano gli oggetti da pesare e sull’altro i pesi campione fino a raggiungere la posizione di equilibrio. I pesi campione erano il siclo del santuario, il cui peso era solitamente pari a 11,5 grammi, i suoi multipli e le sue frazioni. Questa unità di peso era adottata in tutta la mezzaluna fertile, con leggeri scostamenti di uno o due grammi in più o in meno, e nacque molto probabilmente in Mesopotamia.
La Torà fa riferimento ai sicli del Santuario in relazione a due diversi tipi di valutazione: la stima del valore e la pesatura.
Della stima di valore di un’offerta abbiamo parlato nella precedente parashà Bechuccothài, quando si disse che il valore di un’offerta era espresso in sicli d’argento del santuario, considerando che ogni siclo d’argento corrispondeva ad un contenuto di argento fino pari a 11,5 grammi.
Nel valutare il valore ad esempio di un vassoio d’argento si teneva conto non solamente del suo peso, ma anche, e fondamentalmente, del “titolo” e quindi di quale fosse la percentuale di argento nella lega con la quale era stato realizzato l’oggetto.
Nella nostra parashà, invece, non si parla di valutazione di valore, ma solamente di peso dell’oggetto presentato.
Insomma il siclo d’argento del Santuario era sia un’unità di peso, sia un’unità monetaria e poteva svolgere come tale le due differenti funzioni.

Oltre a questi oggetti furono presentate al Signore offerte di animali per l’olocausto, con la loro offerta farinacea, nonché offerte di chattat e per il sacrificio di shelamim.

Quando Mosè entrò nella tenda della radunanza per udire la parola del Signore, egli udiva la voce che si faceva sentire rivolta a lui al di sopra del coperchio che era sull’Arca della Testimonianza, tra i due cherubini; da lì il Signore gli parlava.

lunedì 23 maggio 2011

Bemidbar

Bemidbar: nel deserto. Questo è il titolo della parashà che apre il quarto libro della Torà, al quale da anche il nome. Numeri è il titolo in italiano, allineato con Aritmoi, titolo della versione greca dei settanta, che meglio esprime l’attività di contare, cioè il censimento dei maschi di età maggiore di venti anni di ciascuna tribù, ed il censimento dei Leviti, di cui appunto qui si parla.

A proposito di questo censimento ricordiamo che nella parashà Ki Thissà (Esodo 30, 11-16), il Signore disse a Mosè: “Quando farai il censimento dei figli d’Israele, cioè di quelli che sono da passare in rassegna, ciascuno di loro pagherà al Signore il riscatto della propria persona quando ne verrà fatta l’enumerazione, … . Questo dovranno dare tutti quelli compresi nell’enumerazione: un mezzo siclo calcolando il siclo sacro che è di venti gherà, mezzo siclo sarà il contributo da pagarsi al Signore. Chiunque farà parte delle persone censite dall’età di vent’anni in poi, darà il contributo al Signore. … . Riceverai dai figli d’Israele la somma di questo riscatto, e l’impiegherai a servizio della tenda della radunanza; …”

Inoltre, nella stessa parashà (Esodo 32, 26-29), in occasione dell’episodio del vitello d’oro, si dice che Mosè chiese gridando che venissero presso di lui coloro che avevano mantenuto fedeltà al Signore e che a tale richiesta tutti i figli di Levi si aggrupparono intorno a lui. E allora Mosè disse ai Leviti: “Consacratevi da quest’oggi al Signore, poiché ciascuno di voi se ne rese degno, con la punizione inflitta anche al proprio figlio o fratello, e tale attaccamento al Signore merita oggi la benedizione divina”.

Ed è appunto ora, nella parashà Bemidbar, che si opera questo censimento, determinando per ogni tribù, meno che per la tribù di Levi, la consistenza dei maschi maggiori di vent’anni, e ricavando poi il numero totale dei censiti per l’intero popolo. Per la tribù di Levi si procederà, separatamente, a contare i maschi da trenta a cinquant’anni.

Il censimento ha un molteplice scopo:
- raccogliere il riscatto dovuto da tutti i primogeniti maschi di età superiore a vent’anni da destinarsi a finanziare il funzionamento del Tabernacolo e più in generale del Tempio;
- determinare, separatamente dalle altre tribù, il numero dei Leviti, che, in sostituzione dei primogeniti delle altre tribù, avrebbero da allora in poi espresso la loro appartenenza al Signore prestando servizio presso la Tenda della Radunanza ed il Tabernacolo;
- determinare l’eccedenza del numero complessivo dei primogeniti rispetto al numero dei Leviti ed individuare chi dovesse, conseguentemente, offrire il riscatto stabilito in cinque sicli a testa del peso in uso nel Santuario.

E’ questa una parashà di attuazione di decisioni già assunte in Esodo, ma non per questo è priva di un messaggio proprio. Al contrario è una parashà di ordine, di disciplina, è la parashà dove un insieme di persone si trasforma in un popolo ed un popolo si trasforma in esercito, dove ad ognuno è assegnato un compito da svolgere ed una posizione di marcia. Numeri, ordine e posizioni sono elementi sui quali l’ermeneutica ebraica spazia alla ricerca di significati, collegamenti, commenti, previsioni. Resta il significato più prossimo e palese che ci dice che un popolo non può raggiungere un obiettivo collettivo importante se non mettendo a punto un’organizzazione, che abbia lo scopo di coordinare ed ottimizzare le azioni delle singole unità secondo le direttive che saranno impartite da chi ne avrà assunto la direzione ed il comando. La marcia nel deserto verso la terra promessa è un’impresa epica, c’era un popolo spesso recalcitrante e contestatore ed occorreva, per arrivare alla meta, agire con fermezza e durezza, ed anche, quando occorresse, soffocare nel sangue i tentativi di rivolta.

Mosè, ispirato dal Signore, è stato per il popolo ebraico l’equivalente di quello che nella Repubblica Romana prendeva il nome di “dictator”, il capo unico risoluto ed unico nelle decisioni, che agisce per conseguire uno scopo in circostanze eccezionali, e che a far ciò è stato delegato. Il “dictator” romano, però, poteva durare in carica al massimo sei mesi, mentre Mosè è stato in carica per quarant’anni.

Ma questa vicenda nel deserto è veramente tanto lontana? Si perde veramente nella notte del tempo di più di 3.300 anni addietro? C’è qualcosa che può aiutarmi a comprendere quello che è avvenuto ed a partecipare emotivamente a questi avvenimenti?
Certo che è possibile! Devo calare però la mia persona nella narrazione e farla diventare la mia storia.

Io ero in terra d’Egitto, il mio mondo era come la terra d’Egitto per me. Il mio lavoro era come se fabbricassi e cuocessi mattoni per il Faraone e lì ho mangiato il pane dell’afflizione. Un giorno il Signore mi ha detto di lasciare tutto ed avviarmi alla ricerca della mia terra promessa, le terra della mia libertà, la terra dove le mie opere avrebbero potuto essere benedette perché dedicate al Signore. Il cammino è stato lungo, quarant’anni, tutta una vita, un cammino lungo e seminato di ostacoli, canti di sirene che hanno tentato di farmi deviare, alcuni facilmente riconoscibili, altri più insidiosi perché connotati di innocenza. Ho ricordato allora la voce del Signore che dice: “Parla ai figli d’Israele e di’ loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti per le loro generazioni e mettano sulla frangia dell’angolo un filo di lana azzurra. Esse saranno per voi delle frange, le quali, quando voi le vedrete, ricorderete tutti i precetti del Signore e li eseguirete, e non devierete seguendo il vostro cuore e i vostri occhi, seguendoli voi diverreste infedeli. Affinché vi ricordiate ed eseguiate tutti i Miei precetti e siate santi al vostro Dio. Io, il Signore Dio vostro, che vi fece uscire dalla terra d’Egitto per esservi Iddio, Io, il Signore, sono Dio vostro”.

martedì 17 maggio 2011

Bechuccothài

La Parashà comprende i capitoli 26, quasi per intero, ed il capitolo 27 del Levitico e ne conclude la narrazione.

Il capitolo 26, riferendosi alle leggi ed ai precetti impartiti al popolo ebraico, esprime con una prosa reiterativa ed incalzante, da un lato la protezione ed i compensi che il Signore metterà in atto nel caso di osservanza e , dall’altro invece, le terribili punizioni comminate per la trasgressione con una severità commisurata alla persistenza nell’errore. Le promesse e le ammonizioni le ritroveremo in Deuteronomio 11, 13-21 e verranno a costituire la seconda parte dello Shemà.
Spesso nella vita di tutti i giorni si può avere l’impressione che compensi e punizioni non siano attribuiti in relazione ai meriti o alle colpe e ciò può dare luogo ad un senso di smarrimento. L’ebreo può superare ogni stato di palese ingiustizia con il mantenimento della fiducia nel Signore e la consapevolezza che, seppure a lui sfugge il senso degli avvenimenti, ai quali si trova a dover soggiacere, questi fanno però parte di un disegno più ampio dove la giustizia arriverà, non importa quando, ma arriverà.

Il successivo capitolo 27 tratta delle donazioni al Santuario, che potevano consistere in beni mobili, immobili, animali e anche persone. Tutte le donazioni venivano valutate in sicli del Santuario ed era possibile per l’offerente il riscatto del bene offerto in dono, mediante il versamento di una somma pari al valore di stima aumentato di un quinto.
Queste donazioni potevano essere effettuate liberamente in scioglimento di voti espressi dagli interessati verso il Signore. Donazione d’obbligo era invece quella del mezzo siclo del santuario che riguardava in ugual misura i primogeniti, qualunque fosse il censo familiare, e che in tal modo venivano riscattati dal loro status di offerta esclusiva al Signore.
E’ utile soffermarsi su tutte queste attività di stima delle offerte e di riscatto da pagarsi con una moneta non di uso commerciale corrente, ma di uso circoscritto al Santuario, per comprenderne la
dimensione e le implicazioni economiche.
Il fatto che le stime venissero effettuate in sicli del Santuario ha una duplice ragione:
- il siclo del Santuario ha un valore fisso, dato dal suo contenuto di circa 14 grammi di argento, mentre le monete correnti potevano avere un valore nominale non corrispondente a quello intrinseco, in ragione delle vicende economico-finanziarie dello Stato che batteva moneta;
- non potevano avere accesso al Santuario monete recanti l’effigie di re o imperatori, in quanto ritenute per questo motivo impure.
La necessità di cambiare la moneta dava luogo nei periodi di maggiore affluenza, che erano quelli delle Feste di pellegrinaggio, al proliferare dei cambiavalute, per un fenomeno ritengo simile al bagarinaggio dei biglietti da stadio.
Stessa cosa per gli animali, che chi veniva dalle località più lontane poteva più comodamente acquistare sul posto, in moneta locale, per poi riscattarli, se avesse voluto, in sicli del santuario per poi rivendere, qualora ne avesse avuto necessità, ancora in moneta locale.
Insomma è pensabile che in occasione delle feste di pellegrinaggio si sviluppasse attorno al Santuario un fervore di attività commerciali.
E’ da notare anche che tutte queste offerte destinate al sostentamento del Santuario davano luogo ognuna a diverse voci di provento. Nel caso dell’offerta di un animale infatti, questo veniva valutato in sicli del Santuario e, qualora si intendesse riscattarlo occorreva pagare il prezzo di stima maggiorato di un quinto e, per far questo, era necessario procurarsi la moneta del Santuario pagando il relativo aggio di cambio.
Queste attività dei “cambiavalute” e dei “venditori di colombe” sono quelle condannate nei Vangeli cattolici perché vennero ritenute una profanazione del Tempio, all’interno del quale si sarebbero svolte.
Anche qui è opportuno un chiarimento. Il Tempio era all’epoca quello ampliato da Erode, imponente, grandioso, una vera città, che ospitava, in modo concentrico attività che gravitavano attorno a cortili, ognuno con diverse limitazioni accesso, sicché il più esterno era la corte dei gentili, accessibile a tutti. All’interno era il cortile delle donne e dall’interno di questo si accedeva al cortile dei sacerdoti e quindi al Tempio vero e proprio.
E’ plausibile che i cambiavalute ed i venditori di colombe si trovassero nella corte dei gentili e quindi sicuramente fuori dall’edificio del Tempio.
E’ da pensare allora che la cacciata, cui fanno cenno i Vangeli, vada intesa più in senso simbolico, come invito a tornare a vivere più intimamente la religiosità, che non in senso letterale.

martedì 10 maggio 2011

Behar Sinài

Behar Sinài, sul monte Sinai, la parashà, che comprende il capitolo 25 ed appena l’inizio del capitolo 26 del Levitico, esprime precetti fondamentali di carattere sociale, in particolar modo riguardanti la terra, il lavoro ed il prestito.

Questi precetti sono essenzialmente i seguenti:

1)Il lavoro della terra dovrà avvenire seguendo un ciclo che preveda un anno di riposo dopo sei anni di produzione. Un totale quindi di sette anni, come i sette giorni della creazione, dove il settimo giorno è quello in cui il Signore, cessò da tutta la sua opera. E allora, poiché il creato è ad immagine e somiglianza del creatore, ne consegue che il suo funzionamento debba avvenire secondo cicli simili a quelli seguiti dal suo creatore ed ecco quindi che il terreno agricolo sarà produttivo per sei anni ed al settimo anno non sarà lavorato e questo settimo anno sarà l’anno sabbatico di riposo della terra, così come il settimo giorno è il Sabato dedicato al Signore.

2)La proprietà della terra è del Signore, che la concede in uso all’uomo perché ne tragga i frutti. L’uomo potrà quindi vendere o acquistare non già la proprietà, ma l’uso della terra per un periodo di tempo che comunque si estingue nell’anno del Giubileo, che ricorrerà ogni cinquanta anni e quindi al compiersi di sette cicli di sette anni. Nell’anno del Giubileo sarà proclamata la libertà nella terra per tutti gli abitanti, ciascuno pertanto tornerà al suo possesso e ciascuno alla sua famiglia. Fanno eccezione a questa normativa gli immobili urbani (nelle città cinte da mura) e gli immobili dei Leviti, in quanto ritenuti beni necessari alla dimora e non per la produzione.

3)Per quanto riguarda il lavoro nell’anno del Giubileo torneranno liberi i mercenari ebrei, che per povertà si erano venduti al loro padrone, mentre rimarranno di proprietà per sempre gli schiavi non ebrei ed i loro discendenti.

4)Per il sostegno dato ad un altro ebreo, o anche ad un forestiero o ad un avventizio, che siano presso di noi e si ritrovino in condizioni di povertà, non dovrà prendersi usura né interesse.

Si tratta dell’ossatura delle regole sociali di uno Stato nel quale la proprietà privata ha sostanziali limitazioni, mentre il godimento dei beni avviene prevalentemente con un sistema simile all’affidamento in concessione per un determinato periodo temporale. Il valore di mercato dei beni, siano essi terreni coltivabili o forza lavoro, non sarà ovviamente fisso, ma variabile in funzione del lasso temporale residuo di godimento.
Quanto al prestito è da notare che resta libero da vincoli quello fatto a stranieri non residenti.

Di Porto nel suo commento alla parashà rammenta come, in epoche successive e nella diaspora gli ebrei praticarono l’attività del prestito ad interesse a ciò incentivati dalla circostanza che il mondo cristiano aveva ereditato dall’ebraismo questo divieto per i suoi fedeli.
“Sterco del demonio” era l’appellativo con il quale i predicatori cristiani si riferivano al denaro sicchè tutte le attività ad esso connesse, dalla sua coniazione al suo impiego come risorsa economica di per sé, furono in un primo tempo impedite ai cristiani finchè ci furono ebrei che potessero svolgere questa attività.
Per quanto riguarda l’Italia medievale la situazione generale dal punto di vista religioso la connotava come cristiana, per lo più cattolica ma con presenze ortodosse nelle estreme regioni meridionali. Unico episodio dissonante fu la dominazione araba della Sicilia, che durò circa due secoli fino alla metà dell’XI secolo, che implicò la presenza nell’isola dell’Islam. Per gli ebrei in generale la dominazione araba risultò più tollerante, ma anche per gli arabi i traffici con il denaro era meglio che li facessero gli ebrei.
Questa attività ebraica di prestito era incentivata in modo determinante dal fatto che nei paesi cristiani andarono via via maturando limitazioni alle attività consentite agli ebrei, per cui solamente alcune attività artigianali e commerciali erano loro permesse, mentre in quasi tutti i casi non era loro consentita la proprietà di beni immobili. Ne derivava che il ricavato delle loro attività, non potendo tradursi in beni immobili, dava luogo ad una massa monetaria e quindi, come logica conseguenza, alla possibilità di svolgere attività di prestito. I capitali movimentati dagli ebrei erano ingenti ed i loro destinatari, oltre alla massa di privati cittadini, erano, per le somme più rilevanti, anche principi e re, con i quali si verificò spesso anche la mancata restituzione del prestito od il suo rinnovo forzoso.
Con l’avvento della dominazione spagnola gli ebrei furono espulsi prima dalla Sicilia e poi da tutta l’Italia meridionale, mentre nel resto della penisola sopravvissero, ma non ebbero più l’esclusiva del prestito, in quanto dapprima vennero affiancati da banchieri toscani e lombardi e poi, strani casi della vita, dalla Chiesa stessa con l’apertura dei Monti di Pietà, che erano banchi di prestito su pegno.

giovedì 5 maggio 2011

Emor

Siamo nei capitoli da 21 a 24 del Levitico che trattano, i primi due, delle prescrizioni particolari, che i Cohanim devono osservare per l’avvicinamento al Sacro e quindi per la loro Qedushah; gli altri due delle feste - Moadim -, che si celebrano nell’anno ebraico. L’ultimo capitolo, il 24, narra anche della lapidazione di un uomo, figlio di matrimonio misto, che nel corso di una rissa pronunciò e maledisse il nome divino.

1. Cohanim
Le prescrizioni particolari dettate per i Cohanim riguardano l’obbligo di evitare l’impurità dei cadaveri, alcune restrizioni coniugali e l’esclusione dai riti sacrificali per chi si trovi in stato di impurità o sia affetto da imperfezione fisica.
Queste prescrizioni hanno una triplice valenza: nei confronti del Signore, nei confronti di sé stessi, nei confronti del popolo.
Nei confronti del Signore perché, così come per i sacrifici si presentano al Signore le offerte di migliore qualità, siano esse prodotti agricoli o offerte animali, parimenti i Cohanim che al Signore si avvicinano devono distinguersi quanto a purità ed integrità rispetto al loro popolo. Ricordiamo al proposito l’episodio in Genesi 4 dove è scritto che “Caino portò dei frutti …”, mentre Abele portò “dei primogeniti del suo gregge e delle loro parti più grasse”. Il Signore gradì Abele e il suo presente, mentre non gradì Caino.
Nei confronti di sé stessi perché i Cohanim, nell’accostarsi al Signore, devono avere la consapevolezza della necessità di possedere questi requisiti di purità ed integrità essendo di ciò responsabili.
Nei confronti del loro popolo, al quale devono essere di esempio e di incoraggiamento per superare le difficoltà che possono incontrarsi sulla via della santità e dell’integrità. Come potrebbero altrimenti pretendersi sacrificio e dedizione se chi lo pretende non mostra, lui per primo, di agire secondo queste linee direttrici?
E’ questo un tema attuale quando si pensi che ai nostri giorni i comportamenti delle persone poste alla guida delle nazioni vanno a connotare ed incidono sul prestigio e la credibilità delle nazioni stesse. Questi capi che potranno essere dissoluti, corrotti, sanguinari oppure integri, corretti, equilibrati opereranno certamente con modalità profondamente diverse, così come profondamente diverse saranno le sfere di influenza dove collocheranno i loro paesi. Di tutto ciò essi saranno responsabili.

2.Moadim
Il Signore comunica a Mosè quali siano le ricorrenze da celebrare, oltre al Sabato, già di per sé a Lui destinato.
Nell’anno ebraico, a partire da Pesach , si susseguono le Feste che ricordano le tappe del cammino del popolo ebraico dalla sua liberazione, al dono della Torà, celebrato dalla festa di Shavuot e poi Rosh haShanà, anniversario della creazione dell’uomo, che è il giorno in cui il Signore ci giudica per iscriverci nel libro della vita o in quello della morte, seguita da Kippur, giorno di espiazione e di perdono. Seguono infine Succot e Sheminì Azeret: la prima è la festa delle capanne o festa della gioia dell’uomo riconciliato con il Signore e gioia dell’abbondanza del raccolto; la seconda, che chiude il ciclo delle feste autunnali, fa assumere alla gioia celebrata a Succot un carattere più intimo stabilendo rapporto esclusivo tra l’essere umano ed il Signore.
Queste tappe scandite dai Moadim dovranno essere le tappe secondo cui si svolgerà la nostra esistenza personale, che vedrà quindi susseguirsi la liberazione dalla schiavitù, che è la vita non illuminata dalla parola del Signore, seguita dalla ricezione consapevole del dono della Torà e poi dal bilancio che faremo della nostra esistenza e dal giudizio che a questa esistenza daremo, cui seguirà l’espiazione e il perdono, intimo lavacro purificatore.
A questo punto potremo celebrare la gioia per tutto ciò che abbiamo ricevuto dal Signore e lo faremo sia collettivamente a Succot, sia intimamente a Sheminì Azeret.

3.Una sola legge
La narrazione dell’episodio della lapidazione dell’uomo figlio di matrimonio misto può risultare fuorviante ove ci si fermi alla lettura della sola prima parte.. Si narra infatti che un uomo, figlio di madre ebrea e di padre egiziano, durante una rissa pronunciò e maledisse il nome divino e perciò venne giudicato e condannato a morte per lapidazione. Se la narrazione finisse qui si potrebbe trarne la morale che i matrimoni misti siano da evitare perché i figli frutto di tali unioni offendono il Signore.
Ma non è così perché il racconto prosegue con le seguenti parole del Signore:
“Chiunque maledica il suo Dio, porterà le conseguenze del suo peccato, e chi bestemmia il nome del Signore sia fatto morire, tutta la congrega lo lapiderà: sia il forestiero sia l’indigeno quando abbia bestemmiato il nome divino verrà fatto morire.”
Ed ecco che dunque il senso della narrazione è completamente cambiato: il figlio dell’egiziano non viene posto su un gradino più basso, al contrario viene affermata la completa parità dei suoi diritti e doveri rispetto a quelli degli ebrei.
Israele manterrà sempre questo giudizio positivo nei riguardi degli egiziani perché, se è vero che fu schiavo in terra d’Egitto, è anche vero che la terra d’Egitto lo salvò dalla morte per fame, quando chiese rifugio per sfuggire alla grave carestia che imperversava in terra di Canaan.