domenica 30 dicembre 2012

Shemot

(Es.1,1-6,1)

Le persone di Giacobbe e dei suoi figli che si stabilirono in Egitto erano inizialmente in numero di settanta. Essi crebbero e si moltiplicarono di numero nel tempo, divennero potenti ed il paese fu pieno di loro.

Era ormai trascorso molto tempo dalla morte di Giuseppe quando ascese al trono d'Egitto un nuovo Faraone che si dimostrò preoccupato per la forte presenza del popolo d'Israele nel suo paese e decise perciò di assoggettarlo a schiavitù. Furono affidati agli ebrei gravosi lavori per la costruzione di nuove città ed ogni sorta di duri lavori di campagna e tutti questi lavori si dovevano eseguire sotto la severa sorveglianza di preposti che angariavano il popolo d'Israele. Ma quanto più gli ebrei venivano oppressi, tanto più continuava ad aumentare il loro numero, sicché il Faraone prese una decisione risolutiva. Decise il Faraone che tutti i nuovi nati maschi degli ebrei venissero uccisi e che rimanessero in vita solamente le femmine.

Un uomo delle tribù di Levi di nome Amram sposò una ragazza della sua stessa tribù, di nome Jochèved, e dalla loro unione nacque per prima una bambina di nome Miriam e successivamente un maschio. Il bambino fu tenuto nascosto per tre mesi e poi, poiché aumentava il rischio della sua scoperta, fu abbandonato in una cassetta di papiro lasciata galleggiare sulle acque del fiume. Miriam rimase in distanza ad osservare quello che sarebbe successo.

Ora la figlia del Faraone aveva l'abitudine di bagnarsi nelle acque del fiume mentre le sue ancelle la seguivano lungo la riva. Ella vide la cassettina che galleggiava e la fece prendere. La aprì e quando vide un bambino che piangeva si intenerì e pensò: "Questo è certamente un bambino degli Ebrei."

Miriam si era nel frattempo avvicinata al luogo dove la principessa e le sue ancelle stavano intorno al bambino e disse alla principessa: "Vuoi che vada a chiamare una balia fra le Ebree per allattare il bambino?"

La figlia del Faraone acconsentì e Miriam corse a chiamare sua madre. Fu così che la figlia del Faraone affidò senza saperlo il bambino alla sua stessa madre affinché lo allattasse.

Quando il bambino fu grandicello fu ricondotto alla figlia del Faraone, che lo considerò come proprio figlio e gli pose nome Mosè perché l'aveva salvato dalle acque.

Mosè crebbe, divenne adulto ed avvenne che venisse a sapere delle sue origini. Si recò allora a vedere i suoi fratelli ebrei e vide i duri lavori cui erano sottoposti. Poi un giorno vide un sorvegliante egiziano che batteva duramente uno degli ebrei e, assicuratosi che intorno non ci fosse nessuno, lo affrontò, lo percosse a morte e lo nascose nella sabbia. Il giorno dopo si recò nuovamente presso i suoi fratelli e qui vide due Ebrei che litigavano tra loro e cercò di fare da paciere, ma uno dei due gli disse: "Chi ti ha delegato capo e giudice su di noi? Penseresti forse di uccidermi come hai ucciso quell'Egiziano?"

Il fatto dunque si era risaputo e quando arrivò all'orecchio del Faraone, questi cercò di mandare a morte Mosè. Ma Mosè fuggì nella terra di Midian e qui giunto si fermò presso un pozzo, dove aiutò delle ragazze ad abbeverare il loro gregge: erano le sette figlie di Ithrò, sacerdote di Midian. Le ragazze tornarono a casa ed il padre chiese loro come mai avessero fatto così presto. Raccontarono al padre dell'Egiziano che le aveva aiutate ad abbeverare il gregge e le aveva anche difese dalla violenza dei pastori. Ithrò volle offrire ospitalità a Mosè, che accettò, ed in seguito gli diede in moglie la figlia Tziporah. Mosè ebbe un figlio da Tziporah che chiamò Ghershom.

Dopo lungo tempo da questi fatti morì il Faraone d'Egitto e l'implorazione dei figli d'Israele giunse al Signore, che si ricordò del patto stipulato con Abramo,Isacco e Giacobbe. Mosè pascolava il gregge di Ithrò e guidando le pecore attraversò il deserto ed arrivò alle propaggini del monte Sinài. Qui gli apparve una fiamma in mezzo ad un roveto ed egli vide che il roveto ardeva ma non si consumava e volle avvicinarsi per comprenderne la ragione. "Mosè, Mosè" gridò una voce e lui rispose "Eccomi". Allora il Signore disse: "Non avvicinarti oltre, togliti le scarpe dai piedi perché il terreno sul quale stai è suolo sacro." E proseguì il Signore, dicendo: "Io sono Iddio di tuo padre, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe."

Mosè nascose la faccia perché aveva timore di guardare il Signore. Ed il Signore gli disse di avere ascoltato il grido di implorazione del Suo popolo e di avere deciso di trarlo fuori dall'Egitto e di farlo risalire fino ad una terra fertile e spaziosa, in un paese stillante latte e miele. Perciò, continuò il Signore, Mosè si sarebbe recato dal Faraone come Suo delegato, per chiedere la liberazione del Suo popolo dall'Egitto.

Disse Mosè di avere timore di recarsi dal Faraone per fare questa richiesta ed il Signore lo rassicurò dicendogli che sarebbe stato con lui. E ancora Mosè disse al Signore: "Ecco quando mi presenterò ai figli d'Israele e annunzierò loro: - Il Signore dei padri vostri mi manda a voi. Se essi mi chiederanno qual'è il nome di Lui, cosa dovrò rispondere?" E il Signore rispose: "Io sono quello che sono." e aggiunse: "Io sono mi manda a voi." Inoltre così disse il Signore a Mosè: "Annunzia ai figli d'Israele che è il Signore dei vostri padri, Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe che m'invia a voi. Questo è il mio nome in perpetuo, questo il modo di designarmi attraverso le generazioni."

E proseguì dicendogli di raccogliere gli anziani d'Israele ed annunziare loro la rivelazione ricevuta dal Signore, di trarli fuori dalla terra d'Egitto e farli salire alla terra di Canaan. Essi gli avrebbero dato ascolto ed insieme sarebbero andati dal Faraone ad esprimergli questa richiesta: "Il Signore Dio degli Ebrei si è rivelato a noi e quindi permettici che ci dirigiamo verso il deserto per un cammino di tre giorni, per offrire sacrifici al Signore Dio nostro."

Il Faraone non accetterà questa richiesta, lo preavvertì il Signore, ed avrebbe lasciato partire il popolo d'Israele solo dopo che Egli l'avesse duramente percosso con fatti prodigiosi. Al momento di lasciare la terra d'Egitto, il popolo d'Israele avrebbe ricevuti doni d'oro e d'argento come compenso per i duri anni di schiavitù patiti.

Ma i dubbi di Mosè seguitavano a permanere: il Signore gli aveva appena detto che gli anziani lo avrebbero ascoltato, ma lui disse che essi potevano non credere che il Signore gli fosse apparso. E allora il Signore affidò a Mosè un bastone che poteva trasformarsi in serpente per poi riprendere il suo stato. Ancora il Signore dette a Mosè la facoltà di dare e togliere la lebbra. "Così ti crederanno" disse, "e se ancora non ti credessero potrai prendere dell'acqua dal Nilo e versarla sull'asciutto per vederla trasformarsi in sangue." Ma le obiezioni di Mosè non finirono qui. Eccepì Mosè di non essere un buon parlatore, anzi di essere balbuziente ed arrivò al punto di chiedere al Signore che incaricasse qualcun altro al suo posto. A questo punto il Signore si sdegnò con Mosè per il rifiuto del grande onore che gli veniva offerto. Ma il Signore dominò la Sua ira e disse a Mosè che suo fratello Aron avrebbe parlato per lui, che lui avrebbe dovuto solamente suggerire le parole da dire. Aron sarà dunque l'esecutore vocale e Mosè l'ispirato dalla parola divina.

Mosè salutò Ithrò e, presi con sé moglie e figli, si avviò verso l'Egitto. Durante il viaggio il Signore disse nuovamente a Mosè dei prodigi dei quali era incaricato e che avrebbe eseguito alla presenza del Faraone. Disse anche dell'ostinazione del Faraone, che avrebbe ceduto solamente quando fosse avvenuta la morte del suo figlio primogenito.

Durante una sosta del viaggio Mosè stette molto male e fu vicino a morire. Sua moglie Tziporah pensò che la causa di questo male fosse da attribuire alla mancata circoncisione del loro secondogenito e perciò prese una selce e lo circoncise. Il male abbandonò Mosè ed essi ripresero il viaggio. Si incontrò quindi Mosè con Aron ed insieme entrarono in Egitto e radunarono gli anziani. Aron, alla presenza del popolo, disse della rivelazione che il Signore aveva fatto a Mosè e fece prodigi. Il popolo comprese che il Signore si era ricordato dei figli d'Israele.

Si recarono quindi Mosè ed Aron al cospetto del Faraone e gli dissero: "Così comanda il Signore Dio d'Israele: - Lascia partire il Mio popolo, affinché in Mio onore celebrino una festa nel deserto." Il Faraone si mostrò risentito e chiese chi fosse mai questo Dio al quale gli si chiedeva di ubbidire, e disse che egli non avrebbe acconsentito alla partenza di Israele. Quando poi Mosè ed Aron precisarono che si trattava di una durata di soli tre giorni in cui sarebbero stati offerti sacrifici al dio d'Israele, il Faraone disse loro che non distogliessero gli ebrei dal loro lavoro e li congedò.

Quello stesso giorno il Faraone ordinò agli ispettori egiziani ed ai sorveglianti ebrei di non fornire più la paglia agli ebrei per la preparazione dei mattoni, così come era avvenuto fino ad allora, e che la paglia fosse procurata dagli stessi lavoranti, fermo restando il quantitativo di mattoni da produrre. In tal modo disse il Faraone il popolo d'Israele non avrebbe avuto più tempo ed energie per seguire parole ingannatrici.

Constatato come le condizioni del popolo d'Israele fossero sensibilmente peggiorate dopo l'incontro con il Faraone che il Signore aveva comandato, Mosè a Lui si rivolse dicendo: "O Signore perché hai fatto del male a questo popolo? Perché mi hai inviato? Dal momento che mi sono presentato al Faraone per parlargli in Tuo nome, si produsse del male a questo popolo, né Tu recasti alcuna salvezza." E il Signore così rispose a Mosè: "Ora tu vedrai ciò che Io sto per fare al Faraone, il quale, costretto da mano potente, dovrà lasciarvi partire e a viva forza vi caccerà dal suo paese."

Il contenuto di questa narrazione è senza tempo e senza luogo. In questo caso è l'Egitto il paese che ha ospitato il popolo ebraico, che l'ha accolto, l'ha sfamato, gli ha dato la possibilità di prosperare e di espandersi. Un certo giorno questo paese è attraversato come da un vento di tempesta improvviso per cui si scatena una persecuzione violenta e spietata, il popolo ospitato per il paese ospitante è come se non fosse più composto da persone: sono schiavi, strumenti di lavoro, hanno perso i loro connotati di esseri umani. Tutto questo, ci dice la nostra narrazione, è opera, si badi bene, non di tutto il popolo ospitante, che anzi darà doni al popolo ebraico quando lascerà il paese. Tutto questo è opera del Faraone, della casta governante, dei loro interessi politici, economici e di potere. La persecuzione non è consistita solamente nella schiavitù, la persecuzione è stata sanguinaria perché prevedeva l'uccisione di tutti i nati maschi.

Di queste persecuzioni, di queste stragi è piena la storia del popolo ebraico nella diaspora. L'espulsione dalla Spagna iniziata nel 1492 presenta qualche carattere di diversità, perchè la Spagna nella quale erano numerose e floride per economia e cultura le comunità ebraiche era una Spagna musulmana. Poi avvenne la "reconquista" e, con la sconfitta dell’ultimo sultano di Granada ad opera dei sovrani Ferdinando ed Isabella, la Spagna divenne totalmente cattolica e si materializzò un rigetto verso la popolazione araba e quella ebraica, che con l'araba aveva ben convissuto. La diaspora conseguente all'espulsione spagnola interessò geograficamente molti paesi, non solamente europei. L'attuale distribuzione dei siddurim sefarditi nelle aree europee e mediterranee può fornire un'idea per grandi linee di quali siano stati i flussi migratori ebraici dalla Spagna. Una linea di flusso importante fu quella verso l'impero ottomano e ciò spiega l’adozione di siddurim sefarditi ad esempio in alcuni paesi balcanici.

Ai pogrom ricorrenti nell’Europa centro-orientale, che sin dall’epoca delle crociate videro il verificarsi di stragi delle comunità ebraiche ivi insediate, seguirono altre persecuzioni e stragi da parte del regno di Polonia e della Russia zarista. Catastrofica per ferocia e dimensioni fu la persecuzione operata nel secolo scorso dalla Germania nazista, che si era ripromessa la totale eliminazione del popolo ebraico da tutti i territori che erano in possesso suo e dei suoi alleati. Sei milioni furono gli ebrei trucidati nei campi di sterminio nazisti, e così scomparve quasi del tutto la componente askenazita del popolo ebraico e con essa una cultura ed una lingua, l’yiddish, che fu un tempo parlata da queste comunità, una lingua strutturata come un dialetto tedesco con prestiti lessicali di matrice slava. Si arriva così ai giorni nostri fino ai sommovimenti dei paesi arabi contro lo Stato d’Israele, a partire dalla sua costituzione avvenuta nel 1948 e proseguita ininterrottamente per tutti gli oltre sessanta anni fin qui trascorsi.


Haftarà di Shemot
Secondo i riti italiano e spagnolo
(Ger.1,1-2,3)

Geremia tenta di sottrarsi alla missione che il Signore sta per affidargli, con un comportamento simile a quello di Mosè, che nella parashà tenta di esimersi dal compito che il Signore ha deciso di affidargli.

“Ahimè ! mio Signore D-o; ma io non so parlare, perché sono ancora molto giovane.”

“Ecco, Io ho messo le Mie parole nella tua bocca. Vedi: Io ti ho dato oggi, riguardo alle genti ed ai regni, l’incarico di abbattere, di atterrare, di distruggere e di demolire, di costruire e di piantare. … Che cosa vedi tu, Geremia?”

“Io vedo un bastone di mandorlo.”

“Hai visto bene: infatti Io sto per affrettarmi ad eseguire quel che ho detto. … Che cosa vedi tu?”

“Vedo una caldaia bollente, la cui parte anteriore è dal lato di settentrione.”

“Da settentrione avrà inizio il male, che si abbatterà su tutti gli abitanti del paese. … Essi combatteranno contro di te, ma non prevarranno su di te, perché con te sono Io, detto del Signore, per salvarti.”




Secondo il rito tedesco
(Is.27,6-28,13; 29,22-23)

I primi versi alludono alla prosperità di cui il popolo ebraico godette in terra d’Egitto, alle successive sofferenze ed alla punizione che il Signore inflisse agli Egiziani.

“ … Israele germoglierà e fiorirà e tutto il mondo sarà pieno del suo prodotto. Forse che D-o lo ha percosso come ha percosso il suo percotitore? E’ forse egli stato ucciso come sono stati uccisi gli altri Suoi uccisi?”

“ … e voi figli d’Israele, sarete raccolti ad uno ad uno. In quel giorno verrà suonato un grande shofar, e gli sperduti nell’Assiria e i dispersi in Egitto verranno a prostrarsi al Signore sul monte sacro, a Gerusalemme.”

“ … Ecco un forte e potente, inviato dal Signore, simile a raffica di gandine, a turbine apportatore di morte, abbatte a terra con forza. … In quel giorno il Signore sarà per l’avanzo del Suo popolo gloriosa corona e splendido diadema. E per chi siede a giudizio sarà spirito di giustizia, e a chi respinge l’attacco del nemico alle porte infonderà prodezza. Ma anche questi sbagliano per via del vino, errano per via di bevande inebrianti; … E per questo la parola del Signore appare a loro come se desse ora un comando, ora un altro, indicasse ora una linea di condotta, ora un’altra … “

“Ora non si vergognerà Giacobbe né impallidirà la sua faccia, quando vedrà i suoi figli, opera delle Mie mani, che santificheranno il Mio nome, proclameranno il Santo di Giacobbe e celebreranno il D-o d’Israele.”

domenica 23 dicembre 2012

Vaychì

(Gen.47,28-50,26)

Giacobbe visse in terra d'Egitto diciassette anni e tutta la sua vita ne durò centoquarantasette. Quando si sentì vicino alla morte egli chiamò Giuseppe e gli fece giurare che non l'avrebbe seppellito in Egitto ma nella terra dove erano sepolti i suoi padri.

Passò poi del tempo ed un giorno vennero a dire a Giuseppe che suo padre era malato. Egli si recò da lui con i suoi due figli Manasse ed Efràim. Giacobbe, che era disteso a letto, faticosamente si mise seduto e cominciò a raccontare di quando il Signore gli era apparso a Luz nella terra di Canaan e gli aveva detto:

"Ecco, io ti farò prolificare e diventare numeroso, ti farò diventare un aggregato di popoli e darò questa terra ai tuoi discendenti dopo di te in possesso perpetuo."

Giacobbe aggiunse che i due figli nati a Giuseppe in terra d'Egitto avrebbero dato origine ognuno ad una propria tribù, mentre gli altri che eventualmente fossero ancora nati, sarebbero stati aggregati alle tribù dei due fratelli. Giacobbe volle vedere quindi i due ragazzi e quando gli si avvicinarono egli pose la mano destra sul capo di Efràim, nonostante questi non fosse il primogenito, e la sinistra sul capo di Manasse e li benedisse. Giuseppe, pensando che il padre si fosse sbagliato, voleva spostare la mano del padre dal capo di Efràim a quello di Manasse, ma Giacobbe disse:

"Lo so figlio mio, lo so, anch'egli diverrà un popolo, anch'egli sarà grande, ma il suo fratello minore sarà più grande di lui e la sua discendenza costituirà una moltitudine di genti."

Fece chiamare tutti i suoi figli Giacobbe per accomiatarsi da loro e dire a ciascuno di essi ciò che la loro indole li avrebbe portati a compiere: Ruben, il primogenito, impetuoso e colpevole della violazione del talamo paterno non avrebbe avuto alcuna posizione di superiorità sui fratelli; Simeone e Levi, facili all'ira, all'omicidio ed alla crudeltà sarebbero stati divisi e sparpagliati in Israele ed infatti la tribù di Levi non avrà l'assegnazione di un proprio territorio, mentre la parte assegnata a Simeone sarà frammista a quella di Giuda; Giuda è un leone ed avrà lo scettro ed il bastone del comando fino a che non verrà Sciloh, il Messia, che raccoglierà l'ossequio di tutti i popoli; Zevulon risiederà di fronte al mare e darà approdo alle navi; Issachar avrà una terra molto fertile e sarà un agricoltore talmente pacifico da accettare anche la servitù e il pagamento di tributi; Dan avrà una tribù meno numerosa ed un territorio meno esteso ma saprà farsi valere per la sua astuzia; Gad avrà territori ad est del Giordano e sarà più esposto agli assalti nemici, ma saprà difendersi; Asher avrà un territorio ricco; Naftali è come una cerva veloce che pronuncia discorsi eloquenti; Giuseppe è un albero fruttifero che ha due propaggini che si sviluppano e che sono i suoi figli, ha resistito agli attacchi e le sue opere sono state protette dal Signore; Beniamino è come un lupo rapace esperto nell'arte della guerra.

Chiese infine Giacobbe di essere sepolto nella grotta di Machpelà in terra di Canaan, dove erano già seppelliti Abramo e Sara, Isacco e Rebecca e dove egli aveva seppellito Lea ma non aveva potuto seppellire Rachele, che invece era morta sulla strada per Efrath ed era stata sepolta a Betlemme. Date queste ultime disposizioni Giacobbe si distese nel letto e cessò di vivere.

Pianse Giuseppe su di lui e lo baciò. Ordinò poi che il corpo fosse imbalsamato e quando tutto fu pronto si recò dal Faraone per chiedergli di potersi recare in terra di Canaan a seppelire suo padre secondo le sue volontà. Il faraone non solo acconsentì ma fece tributare grandi onori alla salma di Giacobbe. In terra di Canaan avvennero i funerali e poi la salma fu seppellita nella grotta di Machpelà.

Quando Giuseppe tornò in Egitto i suoi fratelli erano timorosi perché pensavano che, una volta morto il padre, egli potesse vendicarsi. Mandarono a dire al fratello che il padre, prima di morire, aveva detto loro di chiedere perdono per il male che gli avevano fatto. Giuseppe ricevette i suoi fratelli che gli si prostrarono davanti offrendosi a lui come schiavi. Ma egli disse loro:

"Non temete! Sono forse io al posto di Dio? Del male che voi avete pensato di farmi, Dio si è valso al fine di bene perché rimanesse in vita, come oggi è accaduto, tanta gente: Non abbiate paura io manterrò voi ed i vostri figli."

Giuseppe visse centodieci anni. Vide nascere i figli della terza generazione di Efràim e anche i figli di Machir, figlio di Manasse, nacquero sulle sue ginocchia. Quando si sentì vicino a morire Giuseppe disse ai fratelli che il Signore si sarebbe ricordato di loro e li avrebbe un giorno fatti trasferire nella terra che aveva promessa ad Abramo, Isacco e Giacobbe. Giuseppe fece quindi giurare ai fratelli che:

"Quando Dio si ricorderà di voi, porterete via di qui le mie ossa."

Morì Giuseppe ed il suo corpo fu imbalsamato e posto in un sarcofago in Egitto.

La parashà conclude Bereshit, il libro della creazione, il libro dei patriarchi. Il libro si conclude con una forte connotazione egizia, che è sostanziata dalla figura di Giuseppe. L'immagine di Giuseppe non sembra tanto quella di una persona che si è integrata per necessità in un paese straniero, ma ha conservato un saldo attaccamento alle sue origini. I comportamenti di Giuseppe dichiarano invece una tale sicurezza e padronanza della lingua e degli usi e costumi, nonché delle leggi del paese che lo ospita, che solamente una completa e viscerale adesione può conferire. Insomma qui la Torà ci dice ancora qualcosa di significativo e innovativo rispetto alle cose che eravamo abituati a sentirci raccontare. Giuseppe rappresenta l'uomo istruito, progredito, civilizzato. Era stato condannato, scacciato, venduto dai suoi fratelli e invece in un paese straniero egli è riuscito a strutturare la propria personalità, ad acquisire un patrimonio culturale che nell'ambito della propria famiglia non sarebbe mai riuscito a possedere. E nel confronto tra quest'uomo, assimilato ormai ad un egiziano, e la sua famiglia, suo padre ed i suoi fratelli, ecco in questo confronto l'uomo civilizzato e straniero per giunta prevale sulla civiltà pastorale della sua famiglia, egli salva la sua famiglia, egli da nutrimento alla sua famiglia, la sua famiglia lo segue. Escluderei che si intenda fare un confronto di civiltà tra quella organizzata egiziana e quella grezza e pastorale degli ebrei, che non costituivano neanche una nazione. Il confronto ritengo invece sia tra l'uomo istruito e civilizzato, che è in grado di comprendere e dominare una società organizzata e l'uomo invece che a questo tipo di conoscenze ha rinunciato accontentandosi o rassegnandosi ad un'esistenza di passiva sopravvivenza.

L'altro oggetto di riflessione è il destino dei primogeniti, che generalmente nella Torà non è premiante. Anche qui ci sono i due figli di Giuseppe, i due figli nati in Egitto che saranno capostipiti di due tribù, Manasse è il primogenito, Efràim il secondo. Il nonno Giacobbe, il patriarca, darà la benedizione, imponendo la destra sul suo capo, al secondogenito Efràim, con la motivazione che la sua sarà una tribù più numerosa, oggi si direbbe perché era destinato ad un maggiore successo, una scelta quindi basata sul destino e non sul diritto e tanto meno sul merito.


Haftarà di Vaichì
(estratto da 1RE.2,1-2,12)

Avvicinandosi il tempo della morte di Davide, questi diede le sue ultime disposizioni a suo figlio Salomone dicendogli:

“Io sto per andare per la via che percorrono tutti: sii forte mostrati uomo. Osserva quanto ha comandato di osservare il Signore tuo D-o, seguendo la condotta da Lui voluta e osservando i Suoi statuti, i Suoi comandi, le Sue leggi, i Suoi avvertimenti, secondo quanto è scritto nella Torà di Mosè … Tu sai cosa mi ha fatto Joav, figlio di Tserujà … . Agisci secondo la tua saggezza, in modo da non lasciare che egli, vecchio, scenda in pace allo Sheol. … Tra quelli che ti stanno dappresso c’è anche Shim’i figlio di Gherà, della tribù di Beniamino, di Bachurim: egli mi ingiuriò violentemente … . Però tu non lasciarlo impunito, tu sei un uomo saggio e saprai come fare per farlo scendere vecchio allo Sheol per morte violenta.”

David giacque con i suoi padri, e fu sepolto nella città di David. Il tempo durante il quale fu re di Israele per quaranta anni: in Chevron regnò per sette anni e in Gerusalemme trentatré anni. Salomone sedette sul trono di Davide suo padre e il regno fu molto saldo.


La narrazione della Haftarà ci mostra il quadro di violenza fredda e spietata sulla quale il monarca deve fondare il suo regno, se vuole difendere il suo potere da chi lo insidia e desidera sottrarglielo. Ricordiamo a questo proposito quanto Samuele si fosse opposto fino all’ultimo ed inutilmente al desiderio del popolo di nominare un re, che regnasse su Israele, così come era per i popoli vicini.

domenica 16 dicembre 2012

Vaygash

(Gen.44,18-47,27)

Giuda si avvicinò a Giuseppe e gli disse della situazione della sua famiglia e quindi che loro avevano un padre vecchio il quale aveva avuto dalla sua moglie più amata due figli, che uno di essi era morto, probabilmente sbranato da un leone e che gli era rimasto questo suo ultimogenito, Beniamino, cui era molto affezionato. Essi l'avevano portato con loro, riuscendo a superare la reticenza del padre, perché lui, il loro signore, l'aveva chiesto espressamente. Giuda proseguì dicendo che egli si era fatto garante con il padre che Beniamino sarebbe tornato a casa sano e salvo. Detto tutto ciò Giuda si offrì a Giuseppe come schiavo in sostituzione del ragazzo.

Mentre Giuda parlava la commozione di Giuseppe andava sempre più crescendo finché, arrivati a questo punto, egli ordinò a tutti di uscire dalla sala dove si trovavano e, rimasto solo con i fratelli, si rivelò a loro dicendo:

"Io sono Giuseppe, mio padre è sempre vivo?"

E, accortosi che loro rimanevano fermi come storditi davanti a lui, disse loro di avvicinarsi e proseguì:

"Io sono vostro fratello Giuseppe che vendeste in Egitto. Però non addoloratevi, non vi dispiaccia di avermi venduto qui, perché Dio mi ha mandato avanti a voi perché rimaneste in vita."

E proseguì dicendo loro di andare dal padre e dirgli:

"Così dice tuo figlio Giuseppe: ‘Dio mi ha fatto padrone di tutto l'Egitto, vieni da me, non indugiare. Abiterai nel paese di Goshen, così sarai vicino a me, tu, i tuoi figli, i figli dei tuoi figli, il tuo bestiame ovino e bovino, e tutto ciò che possiedi. Là io ti manterrò, perché ci saranno ancora cinque anni di carestia, affinché non siate ridotti in miseria tu, la tua famiglia e tutto ciò che possiedi’."

Si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. E Beniamino pianse con lui. Giuseppe baciò piangendo tutti i suoi fratelli, i quali poi cominciarono a parlare con lui. La notizia si seppe nella casa del Faraone che ne fu contento. Il Faraone disse allora a Giuseppe:

"Di' ai tuoi fratelli: ‘Fate così, caricate le vostre bestie, e tornate nel paese di Canaan, prendete vostro padre e le vostre famiglie, e tornate da me; vi darò il meglio della terra d'Egitto e godrete ciò che offre di migliore’."

Giuseppe fornì ai fratelli dei carri secondo le disposizioni del Faraone e diede loro provviste e vestiario. Per suo padre fece preparare dieci asini carichi delle cose migliori d'Egitto e dieci asine cariche di grano e di pane.

Partirono i fratelli ed arrivarono in terra di Canaan. Là giunti raccontarono al loro padre Giacobbe che Giuseppe era ancora vivo e che dominava in terra d'Egitto, ma Giacobbe non ci credeva e si convinse solo quando vide i carri che Giuseppe aveva mandato. Allora Israele disse:

"Mi basta che mio figlio Giuseppe sia ancora vivo e di andare a vederlo prima di morire!"

Israele si mise in viaggio verso l'Egitto e giunto a Beer Scheva offrì sacrifici al Signore. Di notte il Signore gli apparve in sogno e disse:

"Io sono Iddio, il Dio di tuo padre; non aver paura di andare in Egitto perché là ti farò diventare una grande nazione. Io verrò con te in Egitto ed Io ti farò tornare qui; e Giuseppe ti chiuderà gli occhi."

Partì Giacobbe da Beer Sheva, e con lui tutta la sua famiglia, i figli, le mogli, i figli dei figli, le figlie proprie e quelle dei suoi figli, tutta la sua discendenza. Portarono con sé i loro armenti e i beni che avevano acquistato in terra di Canaan e si trasferirono in Egitto. Giacobbe mandò Giuda davanti a sé da Giuseppe perché gli indicasse la via per Goshen dove poi arrivarono.

Giuseppe andò incontro a suo padre e a Goshen gli si gettò al collo e pianse. E Israele disse a Giuseppe:

"Ora posso proprio morire dopo che ti ho veduto, che sei ancora vivo."

Giuseppe disse allora ai suoi fratelli ed alla famiglia di suo padre che egli avrebbe informato il Faraone del loro arrivo e del fatto che essi erano pastori di greggi ed avevano portato con sé i loro averi ed il loro bestiame. Disse ancora Giuseppe che, quando il Faraone li avesse chiamati e avesse chiesto la loro occupazione, essi avrebbero dovuto rispondere:

"Noi tuoi servi siamo sempre stati pastori di greggi dalla nostra giovinezza fino ad ora, tanto noi quanto i nostri padri."

In questo modo, proseguì Giuseppe sarebbe stato loro consentito di risiedere in modo esclusivo nel paese di Goshen, giacché per gli Egiziani i pastori erano una classe inferiore, con la quale non desideravano avere contatti.

Giuseppe informò quindi il Faraone dell'arrivo di suo padre, dei suoi fratelli e della loro gente. Poi presentò cinque dei suoi fratelli al Faraone il quale chiese quale fosse la loro occupazione. Essi risposero come Giuseppe aveva detto ed il Faraone acconsentì che essi si stabilissero nella terra di Goshen ed anzi disse a Giuseppe che essi badassero anche al bestiame di sua proprietà. Giuseppe fece quindi venire suo padre Giacobbe e lo presentò al Faraone che lo intrattenne brevemente. Giacobbe i suoi figli e tutta la loro gente ebbero quindi il possesso di una terra in Goshen, nella terra di Raamses.

La carestia imperversava in terra d'Egitto come in terra di Canaan e la popolazione aveva ormai finito il denaro per acquistare i viveri da Giuseppe. Iniziò allora Giuseppe a dare viveri in cambio di bestiame. Ma l'anno successivo la popolazione non aveva più bestiame da dare in cambio dei viveri e cominciarono allora ad offrire sé stessi e le loro terre. Fu così che Giuseppe acquistò tutte le terre d'Egitto e tutte divennero proprietà del Faraone e le popolazioni, private delle loro terre, venivano trasferite da una città all'altra. Solo i sacerdoti mantennero la loro terra, perché essi ricevevano dal Faraone un determinato assegno con il quale vivere.

Così disse Giuseppe al popolo quando dette la semente in cambio delle terre acquistate:

"Ecco, io ho acquistato oggi voi e le vostre terre al Faraone; eccovi la semente seminate la terra. Dei raccolti darete un quinto al Faraone, e le altre quattro pari serviranno per seminare i campi, per il mantenimento vostro, di chi avete in casa e dei vostri bambini."

Il popolo acclamò Giuseppe perché lo aveva salvato dalla fame, e dichiarò ubbidienza al Faraone. Da allora restò stabilito che la quinta parte dei prodotti del suolo fossero proprietà del Faraone.

La gente d'Israele rimase nella terra d'Egitto, nel paese di Goshen, vi si stabilì, prolificò ed aumentò grandemente di numero.

Tutte queste vicende riguardanti la grande carestia hanno una straordinaria analogia con quelle che al giorno d'oggi affliggono il nostro paese e gli stati della comunità europea di cui appunto l'Italia è parte. La carestia trasposta al giorno d'oggi è la grave e generalizzata crisi economica che coinvolge tutti i paesi proggrediti.

L'Egitto in un mondo in cui le attività economiche primarie erano l'agricoltura e la pastorizia aveva certamente una ricca e forte economia agricola grazie alla fertile fascia dei terreni a cavallo del Nilo. Se però a questa potente potenzialità economica non si fosse unita l'accorta amministrazione di Giuseppe, l'Egitto non avrebbe superato la grave carestia. L'azione fondamentale di Giuseppe fu quella che lui compì nei sette anni di vacche grasse che precedettero la carestia. Fu il risparmio che Giuseppe volle. E il risparmio, l'ammasso delle granaglie salvò l'Egitto dalla morte per fame insieme ai paesi che da lui dipendevano.

Nell'attualità le economie degli Stati della comunità europea presentano situazioni debitorie di varia consistenza, che per alcuni, generalmente situati nella fascia geografica settentrionale, appaiono controllabili e rientrabili con opportuni aggiustamenti gestionali, mentre per altri, generalmente appartenenti alla fascia meridionale, tra i quali è l'Italia, vi sono difficoltà e forse anche l'impossibilità di controllo e rientro della situazione debitoria sulla sola base delle risorse economiche correnti. Ecco allora che gli Stati più deboli per uscire dalla situazione debitoria si trovano tre possibili strade da poter percorrere: aumentare le tasse; aumentare la produzione; indebitarsi con il leader economico della comunità. Supponiamo che le prime due strade non siano in grado di produrre risultati significativi in tempi accettabilmente brevi, non rimane allora che la terza strada: trovare qualcuno che paghi i loro debiti, che acquisti cioè i loro titoli di Stato con i quali essi pagano gli interessi della massa di titoli in scadenza.

Non rimane quindi per gli Stati fortemente indebitati che trovare un Giuseppe che possa fornire le derrate occorrenti per un prezzo pattuito, che gli paghi cioè i debiti e che dica quali siano le condizioni. Ed a questo punto, qui da noi, siamo nella fase dell'alzata degli scudi da parte degli indebitati, delle recriminazioni per la lesa autonomia dello Stato, per l'ingerenza negli affari interni della nazione, come se qualcuno avesse l'obbligo di regalare qualcosa, senza preoccuparsi di sapere come l’indebitato intenda correggere la propria amministrazione e dovesse quasi chiedere scusa per l’aiuto finanziario.

Giuseppe aveva accumulato abbondanti scorte che amministrò negli anni di carestia vendendole a chi gliene faceva richiesta dapprima per denaro, poi in cambio del bestiame ed infine in cambio della proprietà dei terreni degli acquirenti e della loro stessa libertà, divenendo quindi sia le terre sia le persone proprietà del Faraone. E il popolo accettava le condizioni che Giuseppe poneva per fornire loro le derrate di cui necessitavano e ne lodava l'opera perché li aveva sottratti alla fame.

Forse se al giorno d'oggi si riuscisse ad applicare il metodo Giuseppe, fissando regole comuni di sostegno e cooperazione, l'Europa potrebbe avviarsi ad essere una nazione.



Haftarà di Vaygash
(estratto da Ez.37,15-37,28)


Ecco, Io prendo i figli d’Israele da in mezzo ai popoli fra i quali sono andati, li raccoglierò da tutte le parti e li condurrò al loro paese, ne farò un popolo solo nel paese sui monti d’Israele, un solo re sarà re per tutti loro, non saranno più come due nazioni e non saranno più divisi in due regni.

Il Mio Santuario si eleverà sopra di loro, Io sarò il loro D-o ed essi saranno il Mio popolo. E, essendo il Mio Santuario in mezzo a loro per sempre, le genti riconosceranno che sono Io che ho fatto di Israele il popolo santo.

sabato 8 dicembre 2012

Miketz

(Gen:41,1- 44,17)

Dopo la lettura di questa parashah sarà possibile che si affaccino nella nostra mente domande sia in relazione agli avvenimenti, sia alle modalità secondo cui questi avvenimenti si sviluppano. E’ la vita del Libro che necessita di stabilire con il suo lettore una tensione affinché egli sia coinvolto, assorbendone la sfera dell’intuizione, del sentimento, della razionalità, e pur anche della fisicità, per trascinare tutto l’insieme in uno stato di massima percezione, dove nei fatti del Libro il lettore possa ritrovare la sua storia, le vicende che ha vissuto. Quanto più proverà emozioni, quanto più analizzerà razionalmente le vicende, quanto più scoprirà aspetti che non aveva colto in precedenza, quanto più soffrirà o gioirà nel percorrere il cammino, tanto più la lettura del Libro avrà raggiunto la sua finalità.
Ma vedremo le osservazioni ed i commenti alla fine, dopo la narrazione delle vicende che qui vengono trattate.

Avvenne che il Faraone facesse due sogni nella stessa nottata e che, sentendosi turbato per il loro contenuto, interpellasse maghi e saggi del suo regno perché li interpretassero. Nel primo sogno erano apparse al Faraone sette vacche grasse che pascolavano le erbe palustri in prossimità del Nilo; dopo di queste risalivano dal Nilo altre sette vacche, ma brutte e magre, che fermatesi presso le altre le divorarono rapidamente. Nel secondo sogno il Faraone vide sette spighe grosse e piene che venivano su da un unico stelo; a fianco di queste germogliarono sette spighe sottili lì portate dal vento, che in breve inghiottirono le spighe grosse e piene. Nessuno dei maghi e dei saggi interpellati riuscì però a dare la richiesta interpretazione.

E fu a questo punto che il capo dei coppieri si ricordò di Giuseppe e raccontò al Faraone che c'era un giovane ebreo, servo del giustiziere capo, che aveva appunto la capacità di interpretare i sogni. Il Faraone, mandò a chiamare Giuseppe e a lui chiese il significato dei sogni che egli aveva fatto.

Giuseppe, dopo aver per prima cosa detto che la risposta sarebbe venuta non da lui, ma dal Signore in modo da tranquillizzare il Faraone, espose l'interpretazione dei sogni. Il sogno, disse, era unico ed il fatto che fosse ripetuto due volte stava a significare l'imminenza di ciò che il Signore stava per compiere. Le sette vacche grasse, così come le sette spighe belle, rappresentavano sette anni di grande abbondanza per il regno. Le sette vacche magre e le sette spighe sottili indicavano sette anni di carestia che sarebbero susseguiti agli anni di abbondanza.

A questa interpretazione Giuseppe aggiunse quali disposizioni il Faraone, a suo parere, avrebbe dovuto impartire per far sì che con i prodotti dei sette anni di abbondanza si potesse far fronte alle necessità dei sette anni di carestia. Il Faraone apprezzò a tal punto la risposta di Giuseppe che disse: "Poiché Dio ha fatto conoscere a te tutto questo, non c'è uomo intelligente e saggio come te. Perciò tu sarai preposto alla mia casa e tutto il mio popolo obbedirà ai tuoi ordini; io sarò superiore a te soltanto per il trono."

Si tolse l'anello dal dito il Faraone e lo pose al dito di Giuseppe e gli fece indossare abiti di bisso e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece salire sulla carrozza dei viceré e lo prepose a tutta la terra d'Egitto. Il Faraone impose a Giuseppe il nome di Tsafenath Pa'neach che significa colui che mostra ciò che è nascosto e gli diede in moglie Asenath figlia di Potifar, sacerdote di On.

L'amministrazione di Giuseppe negli anni dell'abbondanza risultò particolarmente efficace ed ogni città ebbe l'ammasso dei prodotti del circondario e l'accumulo del grano fu in particolare molto superiore ad ogni previsione.

Dice anche la parashah che, prima che giungesse l'anno della carestia, nacquero a Giuseppe due figli, perché Asenath gli partorì Manasse ed Efràim. All’arrivo della carestia le previsioni di Giuseppe si rivelarono giuste ed egli riuscì a graduare la cessione delle riserve dei suoi magazzini, talché esse non solo furono sufficienti a fronteggiare le necessità degli egiziani, ma vi furono anche esuberi che egli vendette ai paesi vicini, anch'essi tormentati dalla stessa grande carestia.

Quando Giacobbe seppe che in Egitto c'era disponibilità di grano chiese ai suoi figli di recarvisi per acquistarne. Dieci dei figli partirono mentre Giacobbe trattenne presso di sé il figlio minore Beniamino, per timore che potesse accadergli una disgrazia. I dieci fratelli si presentarono insieme ad altra gente per comperare le provviste e giunto il loro turno si trovarono al cospetto di Giuseppe, colui che vendeva a tutta la popolazione, ma non lo riconobbero. Giuseppe invece riconobbe i suoi fratelli ma si finse estraneo e per di più si mostrò estremamente duro nei loro confronti, tanto da accusarli di essere delle spie venute a prender nota dei luoghi sguarniti del regno. A nulla valsero le parole che i dieci dissero per difendersi dall'accusa. I fratelli furono trattenuti come prigionieri per tre giorni ed al terzo giorno Giuseppe disse loro: "Fate questo e vivrete; io temo Iddio! Se siete persone per bene un vostro fratello rimanga prigioniero qui dove siete detenuti e voi altri andate a portare i viveri necessari alle vostre famiglie. Portatemi il vostro fratello minore; così sarà provato che avete detto la verità e non morrete."

Giuseppe ordinò che i loro sacchi fossero riempiti di grano ed inoltre che in ogni sacco fosse anche messo il denaro pagato e di mettere anche le provviste per il viaggio. Simeone fu trattenuto in ostaggio mentre i fratelli partirono. Ma già quando arrivarono al luogo dove avrebbero pernottato, uno di essi si accorse che alla bocca del suo sacco era anche il denaro. Lo disse ai fratelli che ne rimasero intimoriti non comprendendo la ragione di questo fatto. Arrivarono dal padre Giacobbe, scaricarono i sacchi con le provviste e si accorsero che in tutti i sacchi era stato messo il denaro pagato.

Giacobbe ascoltò il racconto dei suoi figli e seppe che Simeone era stato trattenuto in Egitto come ostaggio e che per la sua liberazione era stato chiesto che i fratelli tornassero portando con sé anche Beniamino. Giacobbe, inizialmente impaurito dall’idea di veder partire anche Beniamino, alla fine si convinse, anche per la risoluta presa di posizione di Giuda che garantì al padre che gli avrebbe riportato indietro il fratello. Giacobbe allora disse di portare a quell’uomo un regalo fatto con i più ricercati prodotti del loro paese e di portare anche denaro in misura doppia della prima volta in modo che fosse loro possibile restituire quanto era stato trovato nei sacchi e pagare le provviste.

Partirono e giunti in Egitto si presentarono davanti a Giuseppe. Quando Giuseppe vide che con loro era anche Beniamino, disse al suo maggiordomo di accogliere quegli uomini in casa e di preparare il pranzo perché essi avrebbero mangiato con lui. I fratelli esternarono al maggiordomo le loro preoccupazioni per la vicenda del denaro che avrebbero dovuto pagare e che invece avevano trovato nei loro sacchi, ma questi li tranquillizzò: “State tranquilli, non abbiate paura! Il Dio vostro e dei vostri padri vi ha messo nei sacchi un tesoro imprevisto, il vostro denaro è pervenuto a me.” Il maggiordomo mise quindi in libertà Simeone e accompagnò tutti i fratelli nella casa del suo padrone.

Quando Giuseppe giunse a casa i fratelli, prostratisi a lui, gli presentarono il dono che avevano portato. Egli chiese loro notizie del padre, poi vide Beniamino e si commosse. Andò in camera e pianse, poi lavatosi il viso tornò da loro e ordinò che fosse portato da mangiare. Mangiarono a tre tavoli: il primo solo per Giuseppe, il secondo per i fratelli, il terzo per gli egiziani. Dopo pranzo Giuseppe ordinò al maggiordomo di riempire di viveri i sacchi dei suoi fratelli e di rimettere in cima ad ogni sacco il denaro pagato. Nel sacco di Beniamino disse di mettere anche la sua coppa d’argento.

Il mattino dopo i fratelli partirono con i loro asini e le provviste, ma furono presto inseguiti dal maggiordomo di Giuseppe che li raggiunse e disse: “Perché avete contraccambiato male per bene? Dov’è la coppa d’argento nella quale beve il mio signore e dalla quale trae gli auspici? E’ una brutta azione quella che avete commesso.

Ed essi risposero: “Perché, signore, parli così? Lungi dai tuoi servi fare queste cose. Se ti abbiamo riportato dal paese di Canaan il denaro che abbiamo trovato alla bocca dei nostri sacchi, come avremmo rubato dalla casa del tuo signore, argento e oro? Quello dei tuoi servi presso il quale venga trovata la coppa sia messo a morte e noi pure saremo tuoi schiavi, o signore!

I sacchi furono tirati giù e si cominciò ad aprirli, finché la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. I fratelli costernati e disperati per l’accaduto ricaricarono i sacchi sugli asini e tornarono in città da Giuseppe, che disse: “Che azione è questa che avete compiuto! Non sapete che un uomo come sono io trae gli auspici?” E Giuda replicò: “Che cosa possiamo dire al mio signore? Che dire e come giustificarci? Dio ha trovato un mezzo per punire i tuoi servi; eccoci schiavi al mio signore, tanto noi quanto colui in possesso del quale è stata trovata la coppa.” Ed a lui Giuseppe: “Lungi da me far questo! Colui in possesso del quale è stata trovata la coppa mi sarà schiavo, e voi tornate in pace da vostro padre.

In attesa della conclusione della storia, per la quale dovremo pazientare fino al prossimo Shabbat, soffermiamoci sugli aspetti della narrazione che maggiormente hanno attratto la nostra attenzione.

Molti commentatori hanno già evidenziato la figura di Giuseppe come quella di un ebreo in terra straniera che ha avuto successo e che partendo da una condizione di schiavitù è arrivato per suo merito e per volontà del Signore fino alle più elevate posizioni sociali ed economiche nel paese che lo ospita. E’ una storia questa che si è ripetuta più volte in un popolo che ha vissuto la diaspora nell’arco di duemila anni e che quindi sostanzialmente è sempre stato in terra straniera mostrando due fondamentali caratteristiche:
- l’ebreo in terra straniera è frequentemente arrivato ad occupare posizioni di rilievo nelle società ospitanti;
- l’ebreo è riuscito a mantenere in terra straniera l’integrità delle proprie tradizioni ed a conservare la propria lingua.

Ma le domande più stimolanti, a mio parere, sono le seguenti che riguardano il comportamento di Giuseppe nei confronti dei propri fratelli: “Perché Giuseppe non si fa riconoscere subito dai suoi fratelli? Perché per due volte rimette il loro denaro nei sacchi delle provviste? Perché mette la sua coppa d’argento nel sacco di Beniamino?

Giuseppe non aveva in realtà una approfondita conoscenza dei propri fratelli in quanto, finché era stato a casa del padre non c’era stato tra loro un rapporto di confidenza, bensì una contrapposizione generata proprio dalla preferenza che Giacobbe nutriva per Giuseppe. Inoltre il modo in cui i fratelli su liberarono di lui fu certamente traumatico, né Giuseppe ebbe modo in quella circostanza di poter distinguere le diverse posizioni da loro assunte nei suoi confronti. Egli sapeva solo che il piccolo Beniamino non era con i suoi fratelli quando lo gettarono nel pozzo e quando fu venduto ai mercanti. Egli non vuole rivelarsi immediatamente ai suoi fratelli, perché così facendo li avrebbe persi, essi lo avrebbero adulato spinti a ciò dalla soggezione per la sua posizione economica e sociale e lui non avrebbe più conosciuto la loro vera natura, né le diversità di indole e di sentimenti. Pensò quindi di non rivelarsi e di metterli in seria difficoltà per vedere in quale modo avrebbero reagito.

Ed effettivamente nelle difficoltà venne fuori il carattere dei fratelli. Quando Giuseppe li accusò di essere spie e trattenne Simeone come ostaggio e disse loro di tornare portando anche Beniamino, egli pensava probabilmente di suscitare in loro proprio quei sentimenti di timore per l’incolumità del fratello più piccolo che essi non avevano nutrito a suo tempo nei suoi confronti.

Quando Giuseppe fece mettere proprio nel sacco di Beniamino la sua coppa d’argento, sicché una volta scoperto Beniamino risultò passibile di morte, constatò che a questo punto i fratelli operarono, solidali tra loro, una scelta e si offrirono tutti, per bocca di Giuda che acquisì il ruolo di loro conduttore, schiavi a Giuseppe pur di aver salva la vita del fratello. Giuseppe ottenne così ciò che desiderava: scoprire che ora in quei fratelli che lo avevano odiato, gettato in un pozzo e venduto, ora dunque tra questi fratelli era maturato ed aveva prevalso il sentimento della solidarietà e dell’amore fraterno.



Haftarà di Miketz
I RE 3,15-3,28 (estratto)

Il re disse: ‘L’una dice: “Questo, il vivo, è mio figlio”, e l’altra dice: “Non è vero, tuo figlio è il morto e il mio è il vivo”, poi soggiunse: “Ebbene portatemi una spada”. Quando la spada fu recata al re, questi disse: “Tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra”. Allora la donna, il figlio della quale era quello vivo, commossa di amore per il proprio figlio, disse al re: “Di grazia, mio signore ! Date a lei il figlio vivo: non fatelo morire.”

sabato 1 dicembre 2012

Vayeshev

(Gen.37,1-40,23)

Giacobbe si era stabilito nella terra di Canaan con le sue mogli ed i suoi figli. Egli prediligeva tra tutti il figlio Giuseppe, forse perché maggiormente gli ricordava sua madre Rachele, che era morta e che era, tra le sue quattro mogli, quella che egli più di ogni altra aveva amato. Il ragazzo, che era consapevole della preferenza paterna, per mettersi ancora maggiormente in luce, ne approfittava raccontando a suo padre tutto quanto di male i suoi fratelli facessero. Questo atteggiamento rafforzava la fiducia e la benevolenza del padre, ma, d'altro canto, suscitava nei fratelli un crescente sentimento di odio, che, come vedremo, si svilupperà fino a produrre la sua violenta espulsione.

La responsabilità di questo deterioramento del rapporto tra i fratelli non mi sentirei di attribuirla a nessuno di loro perché a mio parere il nucleo originante di questa responsabilità non è in loro, ma è nel padre Giacobbe per avere egli seguito la voce del cuore quando manifestò la sua preferenza a Giuseppe, senza verificare se la voce del cuore fosse allineata con la voce della giustizia.

La corretta conduzione di una comunità familiare presuppone l'adozione di criteri di imparzialità e di giustizia, mentre, tornando alla nostra narrazione, abbiamo constatato che qui ciò non è avvenuto e perciò sussiste la colpa ed è altresì individuato il colpevole. Ma allora, potremmo chiederci, come mai Giacobbe, che pure aveva una certa dimestichezza nel dialogo con il Signore, non ricevette a questo proposito un'indicazione che avrebbe potuto evitare il verificarsi di tante sofferenze.

Ma partendo da questa domanda innescheremmo tutta una storia fatta di sè e di ma. Se Giacobbe non avesse mostrato la sua preferenza per Giuseppe, questi non sarebbe stato odiato dai fratelli, che quindi non lo avrebbero gettato nel pozzo e non l'avrebbero venduto ai mercanti. Giuseppe non sarebbe mai stato in Egitto, e nessuno avrebbe mai chiamato la sua gente in quel paese e quindi non sarebbero avvenute tante cose e la narrazione biblica sarebbe stata un'altra.

Dallo sviluppo di questa ipotesi deduciamo quindi che, mentre è conveniente ragionare per capire gli avvenimenti accaduti, ragionare invece su ipotesi e sui loro sviluppi ci allontana dal nostro cammino. Allora andiamo a ciò che avvenne. Giuseppe aveva avuto in dono dal padre una tunica a righe. Raccontò Giuseppe ai fratelli due sogni che egli aveva fatto:

"Ascoltate questo sogno che ho fatto: Legavamo i covoni nel campo, quando il covone mio si alzava e si ergeva diritto; i vostri gli si facevano intorno e gli si prostravano."

E i fratelli a lui: "Sarai tu il nostro sovrano? Dominerai su di noi?"

E ancora un altro sogno egli fece e lo raccontò ai fratelli: "Un altro sogno ho fatto: Il sole la luna e undici stelle si prostravano a me."

Stavolta il padre, che lo aveva udito, lo sgridò e disse: "Che cos'è questo sogno che hai fatto? Dovremo venire io, tua madre e i tuoi fratelli e prostrarci dinanzi a te fino a terra?"

La cosa finì lì, ma l'odio dei fratelli nei confronti di Giuseppe andava sempre più montando. Un giorno il padre disse a Giuseppe di andare dai fratelli che erano a pascolare a Shechem e di riportargli notizie loro e del bestiame. Giuseppe partì e si avviò verso Shechem. Si smarrì, incontrò un uomo e gli chiese dei suoi fratelli. L'uomo gli disse di aver sentito che intendevano andare a Dothan. E a Dothan Giuseppe li avrebbe effettivamente incontrati.

Lo videro arrivare i fratelli ed ordirono come liberarsi di lui, accogliendo però la posizione di Ruben e Giuda, che si erano opposti alla proposta di ucciderlo. Quando Giuseppe arrivò fu spogliato dai fratelli e gettato in un pozzo Successivamente venne venduto a dei mercanti ismailiti in viaggio per l'Egitto. Il prezzo pagato fu di venti monete d'argento. Intrisero i fratelli la tunica di Giuseppe nel sangue di un capretto e la portarono al padre come prova della sua morte. Giacobbe si stracciò le vesti e fece lutto a lungo per suo figlio, rifiutando qualsiasi conforto ed affermando di voler scendere nello sheol così mentre era ancora in lutto.

Mentre tutto ciò accadeva, Giuda, che aveva lasciati i suoi fratelli e si era recato nella terra di Adullam, vide qui la figlia di un cananeo chiamato Shiuà e si invaghì di lei . Si unì alla ragazza ed essa rimase incinta e partorì un primo figlio maschio di nome Er. Rimasta incinta nuovamente partorì ancora un maschio cui venne dato ilo nome di Onan. Ebbe poi un terzo figlio maschio cui fu posto il nome di Shelà.

In seguito, quando i suoi figli furono cresciuti, Giuda prese per il suo primogenito Er una moglie cananea chiamata Tamar. Ma Er non era gradito al Signore e morì senza figli. Giuda allora disse a suo secondogenito Onan di sposare la vedova di suo fratello, in attuazione del precetto del levirato. Ma Onan non volle far nascere la prole di suo fratello, sicché si ritrasse ogni qual volta Tamar gli si accostava. Il Signore fece morire anche Onan a causa di questa sua condotta.

Giuda disse allora alla nuora Tamar: “Rimani vedova in casa di tuo padre finché mio figlio Shelà sia cresciuto.

In realtà Giuda era rimasto colpito dal fatto che entrambi i suoi primi due figli maschi fossero morti dopo aver sposato Tamar. Temeva Giuda che la medesima sorte potesse toccare al figlio minore se anch’egli avesse sposato Tamar. Tamar si accorse che Shelà era ormai da tempo diventato adulto, ma che Giuda non era più venuto da lei per mantenere la sua promessa di dargli in sposo questo suo figliolo.

Seppe Tamar che Giuda si sarebbe recato a Timnà a tosare il suo gregge ed allora si tolse gli abiti vedovili, si adornò e si coprì con un velo e si mise ad attendere in un luogo ben in vista che arrivasse Giuda. Giuda la vide e non la riconobbe, la credette una meretrice e l’accostò per unirsi a lei. Pattuirono il compenso di un capretto che egli le avrebbe mandato e Giuda le lasciò in pegno il suo sigillo ed il suo bastone.

L’indomani Giuda mandò il capretto che, disse, sarebbe stato consegnato alla donna ritirando il bastone ed il sigillo che aveva lasciati in pegno. Ma la donna non era più lì e gli abitanti del luogo dissero di non averla mai vista e che in quel luogo non c’era mai stata una meretrice.

Passarono tre mesi e fu riferito a Giuda che la nuora Tamar si era prostituita ed era rimasta incinta. Giuda disse che la portassero al suo cospetto affinché fosse bruciata. Ma Tamar, condotta davanti a lui, disse: “Sono incinta di colui al quale questi oggetti appartengono; riconosci a chi appartengono questo sigillo, questo cordone, questo bastone?

Giuda riconobbe gli oggetti che le aveva lasciato in pegno e comprese che Tamar era incinta di lui e riconobbe la forza di questa donna che era riuscita a conquistarsi il suo diritto di avere figli dalla casa di Giuda. Nacquero due maschi: Pèretz e Zèrach.

Dalle viscere di Tamar, una donna cananea si badi bene, uscirà la stirpe di David. Ma i Cananei erano gente idolatra che avrebbe dovuto essere annientata dal popolo d’Israele e ciò essenzialmente per la difesa del proprio monoteismo e per il compimento della missione assegnata dal Signore. Si verificò quindi un fatto in collisione con quello che a noi appare un principio generale, quindi non sembrerebbe coerente che da un popolo che deve essere sterminato venga fuori la stirpe del re David. Ma questo è un ragionamento da scartare per gli stessi motivi che sono stati detti prima a proposito del dissidio tra Giuseppe e i suoi fratelli. Dobbiamo prendere atto dei fatti accaduti e non di quello che, secondo noi, avrebbe potuto accadere. E quindi dobbiamo prendere atto che la Cananea Tamar sarà la progenitrice di David.

Torniamo ora a Giuseppe. Egli fu condotto in Egitto e qui fu acquistato da Potifar, ministro del Faraone. Il giovane dette subito prova delle proprie capacità, sicché in breve fu ammesso al servizio personale di Potifar, che lo fece intendente della sua casa ed amministratore di tutto quanto possedeva. Su questa situazione di tranquillità e di bonomia aleggiava tuttavia un’insidia. Giuseppe, oltre che bravo e diligente era anche un giovane di bell’aspetto, sicché la moglie di Potifar gli pose gli occhi addosso e ripetutamente gli propose di giacere con lei. Il giovane rifiutò sempre le proposte della padrona, finché un giorno avvenne qualcosa che effettivamente poteva far nascere dubbi su quanto realmente fosse accaduto. Giuseppe si sottrasse alla padrona che cercava di afferrarlo, ma il risultato fu che lui fuggì nudo dalla casa, mentre a lei rimase in mano il suo vestito. C’erano evidentemente tutti gli elementi per pensare che tra Giuseppe e la sua padrona potesse essere accaduto qualcosa di concreto. Fu così che Potifar fece rinchiudere Giuseppe nella prigione dove erano i detenuti del re.

Il Signore si mostrò ancora benigno con Giuseppe, sicché lo rese gradito al capo delle guardie della prigione. Ben presto fu lui ad occuparsi di tutti i detenuti ed il suo operato non dette mai luogo a lamentele.

Accadde allora che il coppiere ed il panettiere del re d’Egitto commettessero una colpa verso il loro sovrano e venissero anch’essi rinchiusi nello stesso carcere dove era Giuseppe. Al mattino quando Giuseppe si recò da loro, vide che il loro aspetto era molto triste e ne chiese la ragione. Entrambi erano angustiati per avere fatto ognuno un sogno e per non essere in grado di comprenderne il significato.

Il capo dei coppieri raccontò a Giuseppe il suo sogno: “Sognavo che mi stava dinanzi una vite. Quella vite aveva tre tralci e, appena spuntati i germogli, metteva i fiori e i grappoli d’uva erano già maturi. Io tenevo in mano la coppa del Faraone, prendevo l’uva, la spremevo nella coppa e la porgevo al Faraone.

E Giuseppe disse: “L’interpretazione è questa: i tre tralci rappresentano tre giorni; di qui a tre giorni il Faraone ti annovererà di nuovo fra i suoi ministri, ti ripristinerà nel tuo ufficio e porgerai la coppa al Faraone, come per il passato quand’eri il suo coppiere. Magari tu serbassi memoria di me quando starai bene, fossi così buono verso di me ricordandomi al Faraone e facendomi uscire da questa prigione!

Il panettiere volle anch’egli che Giuseppe interpretasse il suo sogno e quindi raccontò: “Anch’io nel mio sogno avevo sul capo tre ceste di pane bianco; nella cesta superiore era ogni specie di prodotti di panettiere di cui si ciba il Faraone e gli uccelli li mangiavano dal canestro di sul mio capo.

Ed a lui Giuseppe disse: “L’interpretazione è questa: le tre ceste rappresentano tre giorni; di qui a tre giorni il Faraone ti taglierà la testa, ti impiccherà sulla forca e gli uccelli ti mangeranno la carne di dosso.

Tutto ciò avvenne nel giorno del compleanno del Faraone, quando egli ripristinò nel suo ufficio il capo dei coppieri, mentre fece impiccare il capo dei panettieri. Il capo dei coppieri una volta libero non si ricordò però di Giuseppe.

Il sogno occupa sempre una posizione di privilegio nella narrazione biblica. La narrazione di un sogno, la sua interpretazione assumono sempre un ruolo di premonizione. Il sogno nel Tanak è una proiezione nel futuro, una finestra aperta su avvenimenti che devono ancora accadere. La moderna psicanalisi connota invece il sogno come effetto dell’elaborazione dei ricordi e delle esperienze che abbiamo vissuto, limitando le proiezioni nel futuro alle logiche elaborazioni delle esperienze vissute. E’ possibile in questo modo arrivare a conciliare i due modi di interpretare i sogni assegnando alle proiezioni nel futuro i connotati di elaborazioni delle esperienze pregresse.



Haftarà di Vayeshev
(estratto da Amos 2,6-3,8)

Per tre colpe di Israele e particolarmente per la quarta non lo lascerò impunito:
Perché essi vendono il giusto per denaro …
… fanno deviare la giustizia dagli umili …
… si coricano nelle vicinanze degli altari …
Ma voi ai nazirei avete dato da bere vino e ai profeti avete detto: ‘Non adempite all’ufficio di profeti.’…
… Soltanto voi ho tenuto in conto tra tutte le famiglie della terra, perciò vi punirò per voi di tutti i vostri peccati.