sabato 8 dicembre 2012

Miketz

(Gen:41,1- 44,17)

Dopo la lettura di questa parashah sarà possibile che si affaccino nella nostra mente domande sia in relazione agli avvenimenti, sia alle modalità secondo cui questi avvenimenti si sviluppano. E’ la vita del Libro che necessita di stabilire con il suo lettore una tensione affinché egli sia coinvolto, assorbendone la sfera dell’intuizione, del sentimento, della razionalità, e pur anche della fisicità, per trascinare tutto l’insieme in uno stato di massima percezione, dove nei fatti del Libro il lettore possa ritrovare la sua storia, le vicende che ha vissuto. Quanto più proverà emozioni, quanto più analizzerà razionalmente le vicende, quanto più scoprirà aspetti che non aveva colto in precedenza, quanto più soffrirà o gioirà nel percorrere il cammino, tanto più la lettura del Libro avrà raggiunto la sua finalità.
Ma vedremo le osservazioni ed i commenti alla fine, dopo la narrazione delle vicende che qui vengono trattate.

Avvenne che il Faraone facesse due sogni nella stessa nottata e che, sentendosi turbato per il loro contenuto, interpellasse maghi e saggi del suo regno perché li interpretassero. Nel primo sogno erano apparse al Faraone sette vacche grasse che pascolavano le erbe palustri in prossimità del Nilo; dopo di queste risalivano dal Nilo altre sette vacche, ma brutte e magre, che fermatesi presso le altre le divorarono rapidamente. Nel secondo sogno il Faraone vide sette spighe grosse e piene che venivano su da un unico stelo; a fianco di queste germogliarono sette spighe sottili lì portate dal vento, che in breve inghiottirono le spighe grosse e piene. Nessuno dei maghi e dei saggi interpellati riuscì però a dare la richiesta interpretazione.

E fu a questo punto che il capo dei coppieri si ricordò di Giuseppe e raccontò al Faraone che c'era un giovane ebreo, servo del giustiziere capo, che aveva appunto la capacità di interpretare i sogni. Il Faraone, mandò a chiamare Giuseppe e a lui chiese il significato dei sogni che egli aveva fatto.

Giuseppe, dopo aver per prima cosa detto che la risposta sarebbe venuta non da lui, ma dal Signore in modo da tranquillizzare il Faraone, espose l'interpretazione dei sogni. Il sogno, disse, era unico ed il fatto che fosse ripetuto due volte stava a significare l'imminenza di ciò che il Signore stava per compiere. Le sette vacche grasse, così come le sette spighe belle, rappresentavano sette anni di grande abbondanza per il regno. Le sette vacche magre e le sette spighe sottili indicavano sette anni di carestia che sarebbero susseguiti agli anni di abbondanza.

A questa interpretazione Giuseppe aggiunse quali disposizioni il Faraone, a suo parere, avrebbe dovuto impartire per far sì che con i prodotti dei sette anni di abbondanza si potesse far fronte alle necessità dei sette anni di carestia. Il Faraone apprezzò a tal punto la risposta di Giuseppe che disse: "Poiché Dio ha fatto conoscere a te tutto questo, non c'è uomo intelligente e saggio come te. Perciò tu sarai preposto alla mia casa e tutto il mio popolo obbedirà ai tuoi ordini; io sarò superiore a te soltanto per il trono."

Si tolse l'anello dal dito il Faraone e lo pose al dito di Giuseppe e gli fece indossare abiti di bisso e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece salire sulla carrozza dei viceré e lo prepose a tutta la terra d'Egitto. Il Faraone impose a Giuseppe il nome di Tsafenath Pa'neach che significa colui che mostra ciò che è nascosto e gli diede in moglie Asenath figlia di Potifar, sacerdote di On.

L'amministrazione di Giuseppe negli anni dell'abbondanza risultò particolarmente efficace ed ogni città ebbe l'ammasso dei prodotti del circondario e l'accumulo del grano fu in particolare molto superiore ad ogni previsione.

Dice anche la parashah che, prima che giungesse l'anno della carestia, nacquero a Giuseppe due figli, perché Asenath gli partorì Manasse ed Efràim. All’arrivo della carestia le previsioni di Giuseppe si rivelarono giuste ed egli riuscì a graduare la cessione delle riserve dei suoi magazzini, talché esse non solo furono sufficienti a fronteggiare le necessità degli egiziani, ma vi furono anche esuberi che egli vendette ai paesi vicini, anch'essi tormentati dalla stessa grande carestia.

Quando Giacobbe seppe che in Egitto c'era disponibilità di grano chiese ai suoi figli di recarvisi per acquistarne. Dieci dei figli partirono mentre Giacobbe trattenne presso di sé il figlio minore Beniamino, per timore che potesse accadergli una disgrazia. I dieci fratelli si presentarono insieme ad altra gente per comperare le provviste e giunto il loro turno si trovarono al cospetto di Giuseppe, colui che vendeva a tutta la popolazione, ma non lo riconobbero. Giuseppe invece riconobbe i suoi fratelli ma si finse estraneo e per di più si mostrò estremamente duro nei loro confronti, tanto da accusarli di essere delle spie venute a prender nota dei luoghi sguarniti del regno. A nulla valsero le parole che i dieci dissero per difendersi dall'accusa. I fratelli furono trattenuti come prigionieri per tre giorni ed al terzo giorno Giuseppe disse loro: "Fate questo e vivrete; io temo Iddio! Se siete persone per bene un vostro fratello rimanga prigioniero qui dove siete detenuti e voi altri andate a portare i viveri necessari alle vostre famiglie. Portatemi il vostro fratello minore; così sarà provato che avete detto la verità e non morrete."

Giuseppe ordinò che i loro sacchi fossero riempiti di grano ed inoltre che in ogni sacco fosse anche messo il denaro pagato e di mettere anche le provviste per il viaggio. Simeone fu trattenuto in ostaggio mentre i fratelli partirono. Ma già quando arrivarono al luogo dove avrebbero pernottato, uno di essi si accorse che alla bocca del suo sacco era anche il denaro. Lo disse ai fratelli che ne rimasero intimoriti non comprendendo la ragione di questo fatto. Arrivarono dal padre Giacobbe, scaricarono i sacchi con le provviste e si accorsero che in tutti i sacchi era stato messo il denaro pagato.

Giacobbe ascoltò il racconto dei suoi figli e seppe che Simeone era stato trattenuto in Egitto come ostaggio e che per la sua liberazione era stato chiesto che i fratelli tornassero portando con sé anche Beniamino. Giacobbe, inizialmente impaurito dall’idea di veder partire anche Beniamino, alla fine si convinse, anche per la risoluta presa di posizione di Giuda che garantì al padre che gli avrebbe riportato indietro il fratello. Giacobbe allora disse di portare a quell’uomo un regalo fatto con i più ricercati prodotti del loro paese e di portare anche denaro in misura doppia della prima volta in modo che fosse loro possibile restituire quanto era stato trovato nei sacchi e pagare le provviste.

Partirono e giunti in Egitto si presentarono davanti a Giuseppe. Quando Giuseppe vide che con loro era anche Beniamino, disse al suo maggiordomo di accogliere quegli uomini in casa e di preparare il pranzo perché essi avrebbero mangiato con lui. I fratelli esternarono al maggiordomo le loro preoccupazioni per la vicenda del denaro che avrebbero dovuto pagare e che invece avevano trovato nei loro sacchi, ma questi li tranquillizzò: “State tranquilli, non abbiate paura! Il Dio vostro e dei vostri padri vi ha messo nei sacchi un tesoro imprevisto, il vostro denaro è pervenuto a me.” Il maggiordomo mise quindi in libertà Simeone e accompagnò tutti i fratelli nella casa del suo padrone.

Quando Giuseppe giunse a casa i fratelli, prostratisi a lui, gli presentarono il dono che avevano portato. Egli chiese loro notizie del padre, poi vide Beniamino e si commosse. Andò in camera e pianse, poi lavatosi il viso tornò da loro e ordinò che fosse portato da mangiare. Mangiarono a tre tavoli: il primo solo per Giuseppe, il secondo per i fratelli, il terzo per gli egiziani. Dopo pranzo Giuseppe ordinò al maggiordomo di riempire di viveri i sacchi dei suoi fratelli e di rimettere in cima ad ogni sacco il denaro pagato. Nel sacco di Beniamino disse di mettere anche la sua coppa d’argento.

Il mattino dopo i fratelli partirono con i loro asini e le provviste, ma furono presto inseguiti dal maggiordomo di Giuseppe che li raggiunse e disse: “Perché avete contraccambiato male per bene? Dov’è la coppa d’argento nella quale beve il mio signore e dalla quale trae gli auspici? E’ una brutta azione quella che avete commesso.

Ed essi risposero: “Perché, signore, parli così? Lungi dai tuoi servi fare queste cose. Se ti abbiamo riportato dal paese di Canaan il denaro che abbiamo trovato alla bocca dei nostri sacchi, come avremmo rubato dalla casa del tuo signore, argento e oro? Quello dei tuoi servi presso il quale venga trovata la coppa sia messo a morte e noi pure saremo tuoi schiavi, o signore!

I sacchi furono tirati giù e si cominciò ad aprirli, finché la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. I fratelli costernati e disperati per l’accaduto ricaricarono i sacchi sugli asini e tornarono in città da Giuseppe, che disse: “Che azione è questa che avete compiuto! Non sapete che un uomo come sono io trae gli auspici?” E Giuda replicò: “Che cosa possiamo dire al mio signore? Che dire e come giustificarci? Dio ha trovato un mezzo per punire i tuoi servi; eccoci schiavi al mio signore, tanto noi quanto colui in possesso del quale è stata trovata la coppa.” Ed a lui Giuseppe: “Lungi da me far questo! Colui in possesso del quale è stata trovata la coppa mi sarà schiavo, e voi tornate in pace da vostro padre.

In attesa della conclusione della storia, per la quale dovremo pazientare fino al prossimo Shabbat, soffermiamoci sugli aspetti della narrazione che maggiormente hanno attratto la nostra attenzione.

Molti commentatori hanno già evidenziato la figura di Giuseppe come quella di un ebreo in terra straniera che ha avuto successo e che partendo da una condizione di schiavitù è arrivato per suo merito e per volontà del Signore fino alle più elevate posizioni sociali ed economiche nel paese che lo ospita. E’ una storia questa che si è ripetuta più volte in un popolo che ha vissuto la diaspora nell’arco di duemila anni e che quindi sostanzialmente è sempre stato in terra straniera mostrando due fondamentali caratteristiche:
- l’ebreo in terra straniera è frequentemente arrivato ad occupare posizioni di rilievo nelle società ospitanti;
- l’ebreo è riuscito a mantenere in terra straniera l’integrità delle proprie tradizioni ed a conservare la propria lingua.

Ma le domande più stimolanti, a mio parere, sono le seguenti che riguardano il comportamento di Giuseppe nei confronti dei propri fratelli: “Perché Giuseppe non si fa riconoscere subito dai suoi fratelli? Perché per due volte rimette il loro denaro nei sacchi delle provviste? Perché mette la sua coppa d’argento nel sacco di Beniamino?

Giuseppe non aveva in realtà una approfondita conoscenza dei propri fratelli in quanto, finché era stato a casa del padre non c’era stato tra loro un rapporto di confidenza, bensì una contrapposizione generata proprio dalla preferenza che Giacobbe nutriva per Giuseppe. Inoltre il modo in cui i fratelli su liberarono di lui fu certamente traumatico, né Giuseppe ebbe modo in quella circostanza di poter distinguere le diverse posizioni da loro assunte nei suoi confronti. Egli sapeva solo che il piccolo Beniamino non era con i suoi fratelli quando lo gettarono nel pozzo e quando fu venduto ai mercanti. Egli non vuole rivelarsi immediatamente ai suoi fratelli, perché così facendo li avrebbe persi, essi lo avrebbero adulato spinti a ciò dalla soggezione per la sua posizione economica e sociale e lui non avrebbe più conosciuto la loro vera natura, né le diversità di indole e di sentimenti. Pensò quindi di non rivelarsi e di metterli in seria difficoltà per vedere in quale modo avrebbero reagito.

Ed effettivamente nelle difficoltà venne fuori il carattere dei fratelli. Quando Giuseppe li accusò di essere spie e trattenne Simeone come ostaggio e disse loro di tornare portando anche Beniamino, egli pensava probabilmente di suscitare in loro proprio quei sentimenti di timore per l’incolumità del fratello più piccolo che essi non avevano nutrito a suo tempo nei suoi confronti.

Quando Giuseppe fece mettere proprio nel sacco di Beniamino la sua coppa d’argento, sicché una volta scoperto Beniamino risultò passibile di morte, constatò che a questo punto i fratelli operarono, solidali tra loro, una scelta e si offrirono tutti, per bocca di Giuda che acquisì il ruolo di loro conduttore, schiavi a Giuseppe pur di aver salva la vita del fratello. Giuseppe ottenne così ciò che desiderava: scoprire che ora in quei fratelli che lo avevano odiato, gettato in un pozzo e venduto, ora dunque tra questi fratelli era maturato ed aveva prevalso il sentimento della solidarietà e dell’amore fraterno.



Haftarà di Miketz
I RE 3,15-3,28 (estratto)

Il re disse: ‘L’una dice: “Questo, il vivo, è mio figlio”, e l’altra dice: “Non è vero, tuo figlio è il morto e il mio è il vivo”, poi soggiunse: “Ebbene portatemi una spada”. Quando la spada fu recata al re, questi disse: “Tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra”. Allora la donna, il figlio della quale era quello vivo, commossa di amore per il proprio figlio, disse al re: “Di grazia, mio signore ! Date a lei il figlio vivo: non fatelo morire.”

Nessun commento:

Posta un commento