lunedì 26 dicembre 2011

Vaygash

(Gen.44,18-47,27)

Giuda, avvicinatosi a lui, disse a Giuseppe della situazione della sua famiglia e quindi che loro avevano un padre vecchio il quale aveva avuto dalla sua moglie più amata due figli, che uno di essi era morto, probabilmente sbranato da un leone e che era rimasto questo suo ultimogenito, Beniamino, cui era molto affezionato. Essi l'avevano portato con loro, riuscendo a superare la reticenza del padre, perché lui, il loro signore, l'aveva chiesto espressamente.
Giuda proseguì dicendo che egli si era fatto garante con il padre che Beniamino sarebbe tornato a casa sano e salvo.Detto tutto ciò Giuda si offrì a Giuseppe come schiavo in sostituzione del ragazzo.

Mentre Giuda parlava la commozione di Giuseppe andava sempre più aumentando finché, arrivati a questo punto, egli ordinò a tutti di uscire dalla sala dove si trovavano e, rimasto solo con i fratelli, si rivelò a loro dicendo:

"Io sono Giuseppe, mio padre è sempre vivo?"

E, accortosi che loro rimanevano fermi come storditi davanti a lui, disse loro di avvicinarsi e proseguì:

"Io sono vostro fratello Giuseppe che vendeste in Egitto. Però non addoloratevi, non vi dispiaccia di avermi venduto qui, perché Dio mi ha mandato avanti a voi perché rimaneste in vita."

E proseguì dicendo loro di andare dal padre e dirgli:

"Così dice tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha fatto padrone di tutto l'Egitto, vieni da me, non indugiare. Abiterai nel paese di Goscen, così sarai vicino a me, tu, i tuoi figli, i figli dei tuoi figli, il tuo bestiame ovino e bovino, e tutto ciò che possiedi. Là io ti manterrò, perché ci saranno ancora cinque anni di carestia, affinché non siate ridotti in miseria tu, la tua famiglia e tutto ciò che possiedi."

Si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse e Beniamino pianse con lui. Baciò piangendo tutti i suoi fratelli, i quali poi cominciarono a parlare con lui. La notizia si seppe nella casa del Faraone ed egli ed i suoi servi ne furono contenti. Il Faraone disse allora a Giuseppe:

"Di' ai tuoi fratelli: Fate così, caricate le vostre bestie, e tornate nel paese di Canaan, prendete vostro padre e le vostre famiglie, e tornate da me; vi darò il meglio della terra d'Egitto e godrete ciò che offre di migliore."

Giuseppe fornì ai fratelli dei carri seondo le disposizioni del Faraone e diede loro provviste e vestiario. Per suo padre fece preparare dieci asini carichi delle cose migliori d'Egitto e dieci asine cariche di grano e di pane.

Partirono i fratelli ed arrivarono in terra di Cannan. E là giunti raccontarono al loro padre Giacobbe che Giuseppe era ancora vivo e che dominava in terra d'Egitto, ma Giacobbe non ci credeva e si convinse solo quando vide i carri che Giuseppe aveva mandato. Allora Israele disse:

"Mi basta che mio figlio Giuseppe sia ancora vivo e di andare a vederlo prima di morire!"

Israele si mise in viaggio verso l'Egitto e giunto a Beer Scheva offrì sacrifici al Signore. Di notte il Signore gli apparve in sogno e disse:

"Io sono Iddio, il Dio di tuo padre; non aver paura di andare in Egitto perché là ti farò diventare una grande nazione. Io verrò con te in Egitto ed Io ti farò tornare qui; e Giuseppe ti chiuderà gli occhi."

Partì Giacobbe da Beer Scheva, e con lui tutta la sua famiglia, i figli, le mogli, i figli dei figli, le figlie proprie e quelle dei suoi figli, tutta la sua discendenza. Portarono con sé i loro armenti e i beni che avevano acquistato in terra di Canaan e si trasferirono in Egitto. Giacobbe mandò Giuda davanti a sé da Giuseppe perché gli indicasse la via per Goscen dove poi arrivarono.

Giuseppe andò incontro a suo padre e a Goscen gli si gettò al collo e pianse. E Israele disse a Giuseppe:

"Ora posso proprio morire dopo che ti ho veduto, che sei ancora vivo."

Giuseppe disse allora ai suoi fratelli ed alla famiglia di suo padre che egli avrebbe informato il Faraone del loro arrivo e del fatto che essi erano pastori di greggi ed avevano portato con sé i loro averi ed il loro bestiame. Disse ancora Giuseppe che, quando il Faraone li avesse chiamati e avesse chiesto la loro occupazione, essi avrebbero dovuto rispondere:

"Noi tuoi servi siamo sempre stati pastori di greggi dalla nostra giovinezza fino ad ora, tanto noi quanto i nostri padri."

In questo modo, proseguì Giuseppe sarebbe stato loro consentito di risiedere in modo esclusivo nel paese di Goscen, giacché per gli Egiziani i pastori erano una classe inferiore, con la quale non desideravano avere contatti.

Giuseppe informò quindi il Faraone dell'arrivo di suo padre, dei suoi fratelli e della loro gente. Poi presentò cinque dei suoi fratelli al Faraone il quale chiese quale fosse la loro occupazione. Essi risposero come Giuseppe aveva detto ed il Faraone acconsentì acché essi si stabilissero nella terra di Goscen ed anzi disse a Giuseppe che essi badassero anche al bestiame di sua proprietà. Giuseppe fece quindi venire suo padre Giacobbe e lo presentò al Faraone che lo intrattenne brevemente. Giacobbe i suoi figli e tutta la loro gente ebbero quindi il possesso di una terra in Goscen, nella terra di Raamses.

La carestia imperversava in terra d'Egitto come in terra di Canaan e la popolazione aveva ormai finito il denaro per acquistare i viveri da Giuseppe. Iniziò allora Giuseppe a dare viveri in cambio di bestiame. Ma l'anno successivo la popolazione non aveva più bestiame da dare in cambio dei viveri e cominciarono allora ad offrire sé stessi e le loro terre. Fu così che Giuseppe acquistò tutte le terre d'Egitto e tutte divennero proprietà del Faraone e le popolazioni, private delle loro terre, venivano trasferite da una città all'altra. Solo i sacerdoti mantennero la loro terra, perché essi ricevevano dal Faraone un determinato assegno con il quale vivere.

Così disse Giuseppe al popolo quando dette la semente in cambio delle terre acquistate:

"Ecco, io ho acquistato oggi voi e le vostre terre al Faraone; eccovi la semente seminate la terra. Dei raccolti darete un quinto al Faraone, e le altre quattro pari serviranno per seminare i campi, per il mantenimento vostro, di chi avete in casa e dei vostri bambini."

Il popolo acclamò Giuseppe perché lo aveva salvato dalla fame, e dichiarò ubbidienza al Faraone. Da allora restò stabilito che la quinta parte dei prodotti del suolo fossero proprietà del Faraone.

La gente d'Israele rimase nella terra d'Egitto, nel paese di Goscen, vi si stabilì, prolificò ed aumentò grandemente di numero.

Tutte queste vicende riguardanti la grande carestia hanno una straordinaria analogia con quelle che al giorno d'oggi affliggono il nostro paese e gli stati della comunità europea di cui appunto l'Italia è parte. La carestia trasposta al giorno d'oggi è la grave e generalizzata crisi economica che coinvolge tutti i paesi proggrediti.

L'Egitto in un mondo in cui le attività economiche primarie erano l'agricoltura e la pastorizia aveva certamente una ricca e forte economia agricola grazie alla fertile fascia dei terreni a cavallo del Nilo. Se però a questa potente potenzialità economica non si fosse unita l'accorta amministrazione di Giuseppe, l'Egitto non avrebbe superato la grave carestia. L'azione fondamentale di Giuseppe fu quella che lui compì nei sette anni di vacche grasse che precedettero la carestia. Fu il risparmio che Giuseppe volle. E il risparmio, l'ammasso delle granaglie salvò l'Egitto dalla morte per fame insieme ai paesi che da lui dipendevano.

Nell'attualità le economie degli stati della comunità europea presentano situazioni debitorie di varia consistenza, che per alcuni, generalmente situati nella fascia geografica settentrionale, appaiono controllabili e rientrabili ccon opportuni aggiustamenti gestionali, mentre per altri, generalmente appartenenti alla fascia meridionale, tra i quali è l'Italia, vi sono difficoltà e forse anche l'impossibilità di controllo e rientro della situazione debitoria sulla sola base delle risorse economiche correnti. Ecco allora che gli stati più deboli per uscire dalla situazione debitoria si trovano tre possibili strade da poter percorrere: aumentare le tasse; aumentare la produzione; indebitarsi con il leader economico della comunità. Supponiamo che le prime due strade non siano in grado di produrre risultati significativi in tempi accettabilmente brevi, non rimane allora che la terza strada: trovare qualcuno che paghi i loro debiti, che acquisti cioé i loro titoli di stato con i quali essi pagano gli interessi della massa di titoli in scadenza.

Non rimane quindi per gli stati fortemente indebitati che trovare un Giuseppe che possa fornire le derrate occorrenti per un prezzo pattuito, che gli paghi cioé i debiti e che dica quali siano le condizioni. Ed a questo punto, qui da noi, siamo nella fase dell'alzata degli scudi da parte degli indebitati, delle recriminazioni per la lesa autonomia dello stato, per l'ingerenza negli affari interni della nazione, come se qualcuno avesse l'obligo di regalare qualcosa e dovesse anche scusarsi per questo.

Giuseppe aveva accumulato abbondanti scorte che amministrò negli anni di carestia vendendole a chi gliene faceva richiesta dapprima per denaro, poi in cambio del bestiame ed infine in cambio della proprietà dei terreni degli acquirenti e della loro stessa libertà, divenendo quindi sia le terre sia le persone proprietà del Faraone. E il popolo accettava le condizioni che Giusepppe poneva per fornire loro le derrate di cui necessitavano e ne lodava l'opera perché li aveva sottratti alla fame.

Forse se al giorno d'oggi si riuscisse ad applicare il metodo Giuseppe, fissando regole comuni di sostegno e cooperazione, l'Europa potrebbe avviarsi ad essere una nazione.

martedì 20 dicembre 2011

Miketz

(Gen:41,1- 44,17)

Dopo la lettura di questa parashah è possibile che si affaccino nella nostra mente domande sia in relazione agli avvenimenti, sia alle modalità secondo cui questi avvenimenti si sviluppano.
E’ la vita del libro che necessita di stabilire con il suo lettore una tensione affinché egli sia coinvolto, assorbendone la sfera dell’intuizione, del sentimento, della razionalità, e pur anche della fisicità, per trascinare tutto l’insieme in uno stato di massima percezione, dove nei fatti del libro il lettore possa ritrovare la sua storia, le vicende che ha vissuto. Quanto più proverà emozioni, quanto più analizzerà razionalmente le vicende, quanto più scoprirà aspetti che non aveva colto in precedenza, quanto più soffrirà o gioirà nel percorrere il cammino, tanto più la lettura del libro avrà raggiunto la sua finalità.

Ma vedremo le osservazioni ed i commenti alla fine, dopo la narrazione delle vicende che qui vengono trattate.

Avvenne che il Faraone facesse due sogni nella stessa nottata e che, sentendosi turbato per il loro contenuto, interpellasse maghi e saggi del suo regno perché li interpretassero.
Nel primo sogno erano apparse al Faraone sette vacche grasse che pascolavano le erbe palustri in prossimità del Nilo. Dopo di esse risalivano dal Nilo sette vacche brutte e magre, che fermatesi presso le altre le divorarono rapidamente.
Nel secondo sogno il Faraone vide sette spighe grosse e piene che venivano su da un unico stelo. A fianco di queste germogliarono sette spighe sottili lì portate dal vento. Le spighe sottili in breve inghiottirono le spighe grosse e piene.
Nessuno dei maghi e dei saggi interpellati diede però la richiesta interpretazione.

E fu a questo punto che il capo dei coppieri si ricordò di Giuseppe e raccontò al Faraone che c'era un giovane ebreo, servo del giustiziere capo, che aveva appunto la capacità di interpretare i sogni.
Il Faraone, mandato a chiamare Giuseppe, gli chiese il significato dei sogni che egli aveva fatto.

Giuseppe, dopo aver precisato che la risposta sarebbe venuta non da lui, ma dal Signore in modo da tranquillizzare il Faraone, espose l'interpretazione dei sogni.
Il sogno era unico ed il fatto che fosse ripetuto due volte stava a significare l'imminenza di ciò che il Signore stava per compiere. Le sette vacche grasse, così come le sette spighe belle, rappresentavano sette anni di grande abbondanza per il regno. Le sette vacche magre e le sette spighe sottili indicavano sette anni di carestia che sarebbero susseguiti agli anni di abbondanza.

A questa interpretazione Giuseppe aggiunse le disposizioni che , a suo parere, il Faraone avrebbe dovuto impartire per far sì che con i prodotti dei sette anni di abbondanza si potesse far fronte alle necessità dei sette anni di carestia.

Il Faraone apprezzò a tal punto la risposta di Giuseppe che disse:

"Poiché Dio ha fatto conoscere a te tutto questo, non c'è uomo intelligente e saggio come te. Perciò tu sarai preposto alla mia casa e tutto il mio popolo obbedirà ai tuoi ordini; io sarò superiore a te soltanto per il trono."

Si tolse l'anello dal dito il Faraone e lo pose al dito di Giuseppe e gli fece indossare abiti di bisso e gli mise al collo una collana d'oro. Lo fece salire sulla carrozza dei viceré e lo prepose a tutta la terra d'Egitto.
Il Faraone impose a Giuseppe il nome di Tsafenath Pa'neach che significa colui che mostra ciò che è nascosto e gli diede in moglie Asenath figlia di Potifar, sacerdote di On.

L'amministrazione di Giuseppe negli anni dell'abbondanza risultò particolarmente efficace ed ogni città ebbe l'ammasso dei prodotti del circondario e l'accumulo del grano fu in particolare molto superiore ad ogni previsione.

Dice anche la parashah che prima che giungesse l'anno della carestia nacquero a Giuseppe due figli, perché Asenath gli partorì Manasse ed Efràim.

All’arrivo della carestia le previsioni di Giuseppe si rivelarono esatte ed egli riuscì ad graduare la cessione delle riserve dei suoi magazzini talché esse non solo furono sufficienti a fronteggiare le necessità degli egiziani, ma vi furono anche esuberi che egli vendette ai paesi vicini, anch'essi tormentati dalla grande carestia.

Quando Giacobbe seppe che in Egitto c'era disponibilità di grano chiese ai suoi figli di recarvisi per acquistarne. Dieci dei figli partirono mentre Giacobbe trattenne presso di sé il figlio minore Beniamino, per timore che potesse accadergli una disgrazia.

I dieci fratelli si presentarono insieme ad altra gente per comperare le provviste e giunto il loro turno si trovarono al cospetto di Giuseppe, colui che vendeva a tutta la popolazione, ma non lo riconobbero. Giuseppe invece riconobbe i suoi fratelli ma si finse estraneo e per di più si mostrò estremamente duro nei loro confronti, tanto da accusarli di essere delle spie venute a prender nota dei luoghi sguarniti del regno. A nulla valsero le parole che i dieci dissero per difendersi dall'accusa. I fratelli furono trattenuti come prigionieri per tre giorni ed al terzo giorno Giuseppe disse loro:

"Fate questo e vivrete; io temo Iddio! Se siete persone per bene un vostro fratello rimanga prigioniero qui dove siete detenuti e voi altri andate a portare i viveri necessari alle vostre famiglie. Portatemi il vostro fratello minore; così sarà provato che avete detto la verità e non morrete."

Giuseppe ordinò che i loro sacchi fossero riempiti di grano e che in ogni sacco fosse anche messo il denaro pagato e di mettere inoltre le provviste per il viaggio. Simeone fu trattenuto in ostaggio mentre i fratelli partirono. Ma già quando arrivarono al luogo dove avrebbero pernottato, uno di essi si accorse che alla bocca del suo sacco era anche il denaro. Lo disse ai fratelli che ne rimasero impauriti non comprendendo la ragione di questo fatto. Arrivarono dal padre Giacobbe, scaricarono i sacchi con le provviste e si accorsero che in tutti i sacchi era stato messo il denaro pagato. Giacobbe ascoltò il racconto dei suoi figli e seppe che Simeone era stato trattenuto in Egitto come ostaggio e che per la sua liberazione era stato chiesto che i fratelli tornassero portando con sé anche Beniamino.

Giacobbe, inizialmente impaurito dall’idea di veder partire anche Beniamino, alla fine si -convinse, anche per la risoluta presa di posizione di Giuda che garantì al padre che gli avrebbe riportato indietro il fratello. Giacobbe allora disse di portare a quell’uomo un regalo fatto con i più ricercati prodotti del loro paese e di portare anche denaro in misura doppia della prima volta in modo che fosse loro possibile restituire quanto era stato trovato nei sacchi e pagare le provviste.

Partirono e giunti in Egitto si presentarono davanti a Giuseppe. Quando Giuseppe vide che con loro era anche Beniamino, disse al suo maggiordomo di accogliere quegli uomini in casa e di preparare per pranzo perché essi avrebbero mangiato con lui. I fratelli esternarono al maggiordomo le loro preoccupazioni per la vicenda del denaro che avrebbero dovuto pagare e che invece avevano trovato nei loro sacchi, ma questi li tranquillizzò:

“State tranquilli, non abbiate paura! Il Dio vostro e dei vostri padri vi ha messo nei sacchi un tesoro imprevisto, il vostro denaro è pervenuto a me.”

Il maggiordomo mise quindi in libertà Simeone e accompagnò tutti i fratelli nella casa del suo padrone.

Quando Giuseppe venne a casa i fratelli, prostratisi a lui, gli presentarono il dono che avevano portato. Egli chiese loro notizie del padre, poi vide Beniamino e si commosse.
Andò in camera e pianse, poi lavatosi il viso tornò da loro e ordinò che fosse portato da mangiare. Mangiarono a tre tavoli: il primo solo per Giuseppe, il secondo per i fratelli, il terzo per gli egiziani.

Dopo pranzo Giuseppe ordinò al maggiordomo di riempire di viveri i sacchi dei suoi fratelli e di rimettere in cima ad ogni sacco il denaro pagato. Nel sacco di Beniamino disse di mettere anche la sua coppa d’argento.

Il mattino dopo i fratelli partirono con i loro asini e le provviste, ma furono presto inseguiti dal maggiordomo di Giuseppe che li raggiunse e disse:

“Perché avete contraccambiato male per bene? Dov’è la coppa d’argento nella quale beve il mio signore che da essa trae gli auspici. E’ una brutta azione quella che avete commesso.”

Ed essi risposero:

“Perché, signore, parli così? Lungi dai tuoi servi fare queste cose. Se ti abbiamo riportato dal paese di Canaan il denaro che abbiamo trovato alla bocca dei nostri sacchi, come avremmo rubato dalla casa del tuo signore, argento e oro? Quello dei tuoi servi presso il quale venga trovata la coppa sia messo a morte e noi pure saremo tuoi schiavi, o signore!”

I sacchi furono tirati giù e si cominciò ad aprirli, finché la coppa fu trovata nel sacco di Beniamino. I fratelli costernati e disperati per l’accaduto ricaricarono i sacchi sugli asini e tornarono in città da Giuseppe, che disse:

“Che azione è questa che avete compiuto! Non sapete che un uomo come sono io trae gli auspici?”

E Giuda replicò:

“Che cosa possiamo dire al mio signore? Che dire e come giustificarci? Dio ha trovato un mezzo per punire i tuoi servi; eccoci schiavi al mio signore, tanto noi quanto colui in possesso del quale è stata trovata la coppa.”

Ed a lui Giuseppe:

“Lungi da me far questo! Colui in possesso del quale è stata trovata la coppa mi sarà schiavo, e voi tornate in pace da vostro padre.”

In attesa della conclusione della storia, per la quale dovremo pazientare fino al prossimo Shabbat, soffermiamoci sugli aspetti della narrazione che maggiormente hanno attratto la nostra attenzione.

Molti commentatori hanno già evidenziato la figura di Giuseppe come quella di un ebreo in terra straniera che ha avuto successo e che partendo da una condizione di schiavitù è arrivato per suo merito e per volontà del Signore fino alle più elevate posizioni sociali ed economiche nel paese che lo ospita. E’ una storia questa che si è ripetuta più volte in un popolo che ha vissuto la diaspora nell’arco di duemila anni e che quindi sostanzialmente è sempre stato in terra straniera mostrando due fondamentali caratteristiche:
- l’ebreo in terra straniera è frequentemente arrivato ad occupare posizioni di rilievo nelle società ospitanti;
- l’ebreo è riuscito a mantenere in terra straniera l’integrità delle proprie tradizioni ed a conservare la propria lingua.

Ma le domande più stimolanti, a mio parere, sono le seguenti che riguardano il comportamento di Giuseppe nei confronti dei propri fratelli:

“Perché Giuseppe non si fa riconoscere subito dai suoi fratelli? Perché per due volte rimette il loro denaro nei sacchi delle provviste? Perché mette la sua coppa d’argento nel sacco di Beniamino?”

Giuseppe non aveva in realtà una approfondita conoscenza dei propri fratelli in quanto, finché era stato a casa del padre non c’era stato tra loro un rapporto di confidenza, bensì una contrapposizione generata proprio dalla preferenza che Giacobbe nutriva per Giuseppe. Inoltre il modo in cui i fratelli su liberarono di lui fu certamente traumatico, né Giuseppe ebbe modo in quella circostanza di poter distinguere le diverse posizioni da loro assunte nei suoi confronti. Egli sapeva solo che il piccolo Beniamino non era con i suoi fratelli quando lo gettarono nel pozzo e quando fu venduto ai mercanti.

Egli non vuole rivelarsi immediatamente ai suoi fratelli, perché così facendo li avrebbe persi, essi lo avrebbero adulato spinti a ciò dalla soggezione per la sua posizione economica e sociale e lui non avrebbe più conosciuto la loro vera natura, né le diversità di indole e di sentimenti. Pensò quindi di non rivelarsi e di metterli in seria difficoltà per vedere in quale modo avrebbero reagito.

Ed effettivamente nelle difficoltà venne fuori il carattere dei fratelli. Quando Giuseppe li accusò di essere spie e trattenne Simeone come ostaggio e disse loro di tornare portando anche Beniamino, egli pensava probabilmente di suscitare in loro proprio quei sentimenti di timore per l’incolumità del fratello più piccolo che essi non avevano nutrito a suo tempo nei suoi confronti.

Quando Giuseppe fece mettere proprio nel sacco di Beniamino la sua coppa d’argento, sicché una volta scoperto Benimino risultò passibile di morte, a questo punto i fratelli operarono solidali una scelta e si offrirono tutti, per bocca di Giuda che acquisì il ruolo di loro conduttore, schiavi a Giuseppe pur di aver salva la vita del fratello.

Giuseppe ottenne così ciò che desiderava: conoscere quale fosse la loro posizione quanto a solidarietà ed amore fraterno.

lunedì 12 dicembre 2011

Vayeshev

(Gen.37,1-40,23)

Giacobbe si era stabilito nella terra di Canaan con le sue mogli ed i suoi figli. Egli prediligeva tra tutti il figlio Giuseppe, forse perché maggiormente gli ricordava sua madre Rachele, che era morta e che era, tra le sue quattro mogli, quella che egli più di ogni altra aveva amato.
Il ragazzo che era consapevole della preferenza paterna, per mettersi ancora maggiormente in luce, ne approfittava per raccontare a suo padre tutto quanto di male i suoi fratelli facessero. Questo atteggiamento mentre da un lato rafforzava la fiducia e la benevolenza del padre, d'altro canto suscitava nei fratelli un crescente sentimento di odio, che, come vedremo, si svilupperà fino a produrre la sua violenta espulsione.

La responsabilità di questo deterioramento del rapporto tra i fratelli non mi sentirei di attribuirla a nessuno di loro perché a mio parere il nucleo originante di questa responsabilità non è in loro, ma è nel padre Giacobbe per avere egli seguito la voce del cuore quando manifestò la sua preferenza a Giuseppe, senza verificare se la voce del cuore fosse in linea di collisione con la voce della giustizia.

Se la corretta conduzione di una comunità familiare presuppone l'adozione di criteri di imparzialità e di giustizia, mentre, tornando alla nostra narrazione, abbiamo constatato che qui ciò non è avvenuto e perciò sussiste la colpa ed è altresì individuato il colpevole, allora, potremmo chiederci come mai Giacobbe, che pure aveva una certa dimestichezza nel dialogo con il Signore, non abbia ricevuto a questo proposito un'indicazione che avrebbe potuto evitare il verificarsi di tante sofferenze.
Ma partendo da questa domanda innescheremmo tutta una storia fatta di sè e di ma.
Se Giacobbe non avesse mostrato la sua preferenza per Giuseppe, questi non sarebbe stato odiato dai fratelli, che quindi non lo avrebbero gettato nel pozzo e non l'avrebbero venduto ai mercanti. Giuseppe non sarebbe mai stato in Egitto, e nessuno avrebbe mai chiamato la sua gente in quel paese e quindi non sarebbero avvenute tante cose e la narrazione biblica sarebbe stata un'altra.

Dallo sviluppo di questa ipotesi deduciamo quindi che, mentre è conveniente ragionare per capire gli avvenimenti accaduti, ragionare invece su ipotesi e sui loro sviluppi ci allontana dal nostro cammino.
Allora andiamo a ciò che avvenne. Giuseppe aveva avuto in dono dal padre una tunica a righe. Raccontò Giuseppe ai fratelli due sogni che egli aveva fatto:

"Ascoltate questo sogno che ho fatto: Legavamo i covoni nel campo, quando il covone mio si alzava e si ergeva diritto; i vostri gli si facevano intorno e gli si prostravano."

E i fratelli a lui:

"Sarai tu il nostro sovrano? Dominerai su di noi?"

Un altro sogno egli fece e lo raccontò ai fratelli:

"Un altro sogno - egli disse - ho fatto: Il sole la luna e undici stelle si prostravano a me."

Stavolta il padre lo sgridò e disse:

"Che cos'è questo sogno che hai fatto?Dovremo venire io, tua madre e i tuoi fratelli e prostrarci dinanzi a te fino a terra?"

La cosa finì lì, ma l'odio dei fratelli nei confronti di Giuseppe andava sempre più crescendo. Un giorno il padre disse a Giuseppe di andare a trovare i fratelli che erano andati a pascolare a Shechem e di portargli notizie loro e del bestiame. Giuseppe partì e si avviò verso Shechem.
Si smarrì, incontrò un uomo e gli chiese dei suoi fratelli. L'uomo gli disse di aver sentito che intendevano andare a Dothan. E a Dothan li avrebbe effettivamente incontrati.

Lo videro arrivare i fratelli ed ordirono come liberarsi di lui, accogliendo la posizione di Ruben e Giuda che si erano opposti alla proposta di ucciderlo.
Quando Giuseppe arrivò fu spogliato dai fratelli e gettato in un pozzo Successivamente venne venduto a dei mercanti ismailiti in viaggio per l'Egitto. Il prezzo pagato fu di venti monete d'argento. Intrisero i fratelli la tunica di Giuseppe nel sangue di un capretto e la portarono al padre come prova della sua morte. Giacobbe si stracciò le vesti e fece lutto a lungo per suo figlio, rifiutando qualsiasi conforto ed affermando di voler scendere nello sheol così mentre era ancora in lutto.

Mentre tutto ciò accadeva, Giuda, che aveva lasciati i suoi fratelli e si era recato nella terra di Adullam, vide qui la figlia di un cananeo chiamato Shiuà e si invaghì di lei . Si unì alla ragazza ed essa rimase incinta e partorì un primo figlio maschio di nome Er. Rimasta incinta nuovamente partorì ancora un maschio cui venne dato ilo nome di Onan. Ebbe poi un terzo figlio maschio cui pose nome Shelà.

In seguito prese Giuda per il suo primogenito Er una moglie cananea chiamata Tamar. Ma Er non era gradito al Signore e morì senza figli. Giuda allora disse a suo secondogenito Onan di sposare la vedova di suo fratello, in attuazione del precetto del levirato. Ma Onan non volle far nascere la prole di suo fratello, sicché si ritrasse ogni qual volta Tamar gli si accostava. Il Signore fece morire anche Onan a causa di questa sua condotta.

Giuda disse allora alla nuora Tamar:

Rimani vedova in casa di tuo padre finché mio figlio Shelà sia cresciuto.

In realtà Giuda era rimasto colpito dal fatto che entrambi i suoi primi due figli maschi che avevano sposato Tamar, fossero morti. Temeva Giuda che la medesima sorte potesse toccare al figlio minore se anch’egli avesse sposato Tamar.
Tamar si accorse che Shelà era ormai da tempo diventato adulto, ma che Giuda non era più venuto da lei per mantenere la sua promessa di dargli in sposo questo suo figliolo.

Seppe Tamar che Giuda si sarebbe recato a Timnà a tosare il suo gregge ed allora si tolse gli abiti vedovili, si adornò e si coprì con un velo e si mise ad attendere in un luogo ben in vista della strada che arrivasse Giuda. Giuda la vide e non la riconobbe, la credette una meretrice e l’accostò per unirsi a lei. Pattuirono il compenso di un capretto che egli le avrebbe mandato e Giuda le lasciò in pegno il suo sigillo ed il suo bastone.
L’indomani Giuda mandò il capretto che, disse, sarebbe stato consegnato alla donna ritirando il bastone ed il sigillo che aveva lasciati in pegno.
Ma la donna non era più lì e gli abitanti del luogo dissero di non averla mai vista e che in quel luogo non c’era mai stata una meretrice.

Passarono tre mesi e fu riferito a Giuda che la nuora Tamar si era prostituita ed era rimasta incinta. Giuda disse che la portassero al suo cospetto affinché fosse bruciata. Ma Tamar, conotta davanti a lui, disse:

Sono incinta di colui al quale questi oggetti appartengono; riconosci a chi appartengono questo sigillo, questo cordone, questo bastone?

Giuda riconobbe gli oggetti che egli le aveva lasciato in pegno e comprese che Tamar era incinta di lui e riconobbe la forza di questa donna che era riuscita a conquistarsi il suo diritto di avere figli dalla casa di Giuda. Nacquero due maschi: Pèretz e Zèrach.

Dalle viscere di Tamar, una donna cananea si badi bene, uscirà la stirpe di David. Ma i Cananei erano gente idolatra che avrebbe dovuto essere annientata dal popolo d’Israele e ciò essenzialmente per la difesa del proprio monoteismo e per il compimento della missione assegnata dal Signore. Si verificò quindi un fatto in collisione con quello che a noi appare un principio generale, quindi non sembrerebbe coerente che da un popolo che deve essere sterminato venga fuori la stirpe del re David. Ma questo è un ragionamento da cestinare per gli stessi motivi che sono stati detti prima a proposito del dissidio tra Giuseppe e i suoi fratelli. Dobbiamo prendere atto dei fatti accaduti e non di quello che, secondo noi, avrebbe dovuto accadere. E quindi dobbiamo prendere atto che la Cananea Tamar sarà la progenitrice di David.

Torniamo ora a Giuseppe. Egli fu condotto in Egitto e qui fu acquistato da Potifar, ministro del Faraone. Il giovane dette subito prova delle proprie capacità, sicché in breve fu ammesso al servizio personale di Potifar, che lo fece intendente della sua casa ed amministratore di tutto quanto possedeva.

Su questa situazione di tranquillità e di bonomia aleggiava tuttavia un’insidia. Giuseppe, oltre che bravo e diligente era anche un giovane di bell’aspetto, sicché la moglie di Potifar gli pose gli occhi addosso e ripetutamente gli propose di giacere con lei. Il giovane rifiutò sempre le proposte della padrona, finché un giorno avvenne qualcosa che effettivamente poteva far nascere dubbi su quanto realmente fosse accaduto.
Giuseppe si sottrasse alla padrona che cercava di afferrarlo, ma il risultato fu che lui fuggì nudo dalla casa della padrona, mentre a lei rimase in mano il suo vestito. C’erano evidentemente tutti gli elementi per pensare che tra Giuseppe e la sua padrona potesse essere accaduto qualcosa di concreto.
Fu così che Potifar fece rinchiudere Giuseppe nella prigione dove erano i detenuti del re.

Il Signore si mostrò ancora benigno con Giuseppe, sicché lo rese gradito al capo delle guardie della prigione. Ben presto fu lui ad occuparsi di tutti i detenuti ed il suo operato non dette mai luogo a lamentele.

Accadde allora che il coppiere ed il panettiere del re d’Egitto commettessero una colpa verso il loro sovrano e venissero anch’essi rinchiusi nello stesso carcere dove era Giuseppe. Al mattino quando Giuseppe si recò da loro, vide che il loro aspetto era molto triste e ne chiese la ragione. Entrambi erano angustiati per avere fatto ognuno un sogno e di non essere in grado di comprenderne il significato.

Il capo dei coppieri raccontò a Giuseppe il suo sogno:

Sognavo che mi stava dinanzi una vite. Quella vite aveva tre tralci e, appena spuntati i germogli, metteva i fiori e i grappoli d’uva erano già maturi. Io tenevo in mano la coppa del Faraone, prendevo l’uva, la spremevo nella coppa e la porgevo al Faraone.

E Giuseppe disse:

L’interpretazione è questa: i tre tralci rappresentano tre giorni; di qui a tre giorni il Faraone ti annovererà di nuovo fra i suoi ministri, ti ripristinerà nel tuo ufficio e porgerai la coppa al Faraone, come per il passato quand’eri il suo coppiere. Magari tu serbassi memoria di me quando starai bene, fossi così buono verso di me ricordandomi al Faraone e facendomi uscire da questa prigione!

Il panettiere volle anch’egli che Giuseppe interpretasse il suo sogno e quindi raccontò:

Anch’io nel mio sogno avevo sul capo tre ceste di pane bianco; nella cesta superiore era ogni specie di prodotti di panettiere di cui si ciba il Faraone e gli uccelli li mangiavano dal canestro di sul mio capo.

Ed a lui Giuseppe disse:

L’interpretazione è questa: le tre ceste rappresentano tre giorni; di qui a tre giorni il Faraone ti taglierà la testa, ti impiccherà sulla forca e gli uccelli ti mangeranno la carne di dosso.

Tutto ciò avvenne nel giorno del compleanno del Faraone, quando egli ripristinò nel suo ufficio il capo dei coppieri, mentre fece impiccare il capo dei panettieri. Il capo dei coppieri una volta libero non si ricordò però di Giuseppe.

Il sogno occupa sempre una posizione di privilegio nella narrazione biblica. La narrazione di un sogno, la sua interpretazione assumono sempre un ruolo di premonizione. Il sogno nel Tanak è una proiezione nel futuro, una finestra aperta su avvenimenti che devono ancora presentarsi. La moderna psicanalisi connota invece il sogno come effetto dell’elaborazione dei ricordi e delle esperienze che abbiamo vissuto, limitando le proiezioni nel futuro alle logiche elaborazioni delle esperienze vissute. E’ possibile in questo modo arrivare a conciliare i due modi di interpretare i sogni assegnando alle proiezioni nel futuro i connotati di elaborazioni delle esperienze pregresse.

lunedì 5 dicembre 2011

Vayshlach

(Gen.32,4-36,43)

Giacobbe giunto in vista del paese di Seir, dove sapeva risiedere suo fratello, gli inviò dei messaggeri che preannunciassero il suo arrivo e dichiarassero le sue intenzioni amichevoli. I messaggeri tornarono e gli dissero che suo fratello Esaù gli veniva incontro, portando con sè quattrocento uomini. La notizia preoccupò molto Giacobbe, che sospettava che il fratello avesse cattive intenzioni. Cominciò quindi a preparare i doni che gli avrebbe offerto: duecento capre e venti capri; duecento pecore e venti montoni; trenta cammelle allattanti con i loro figli; quaranta vacche e dieci tori; venti asine e dieci puledri.
Giacobbe evidentemente era consapevole del fatto che Esaù potesse avere nei suoi confronti seri motivi di risentimento in relazione al diritto di primogenitura che lui gli aveva sottratto e perciò si preparava a presentarsi a lui in atteggiamento che si dimostrasse sicuramente rispettoso ed amichevole.
Peraltro, in previsione che l’incontro potesse avvenire non nel migliore dei modi, durante la notte egli prese le mogli, le ancelle ed i suoi figli e tutto ciò che gli apparteneva e passò a guado lo Jabboc. Quando rimase solo un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'alba. Vedendo che non riusciva a batterlo l'uomo lo toccò all'estremità del femore, che si slogò. Ma Giacobbe continuava ancora a trattenerlo e l'uomo disse:

"Lasciami andare che è spuntata l'alba."

E Giacobbe:

"Non ti lascerò finchè non mi avrai benedetto."

E l'altro:

"Come ti chiami?"

Rispose:

"Giacobbe."

"Non Giacobbe sarai chiamato ma Israele, poichè hai lottato con un essere divino e con uomini e ce l'hai potuta."

Giacobbe gli disse:

"Dimmi il tuo nome."

E l'altro:

"A che scopo me lo domandi?"

E là lo benedisse. E Giacobbe chiamò quel luogo Peniel poichè disse:

"Ho veduto faccia a faccia un essere divino ed ho avuto salva la vita."

Dunque Giacobbe vive l’attesa dell’incontro con il fratello con un misto di paura e di preoccupazione, in uno stato di tensione per quella che lui considera una prova impegnativa, un appuntamento, un incontro inevitabile che avviene dopo venti anni, con l’incognita di non sapere quale sarà l’atteggiamento del fratello nei suoi confronti.

Ricordiamoci che anche fisicamente Esaù era villoso e molto più forte di Giacobbe e che i suoi modi erano modi bruschi e che quindi anche nel confronto personale c’erano motivi di seria preoccupazione.

A questo punto per Giacobbe si rivela provvidenziale l’incontro e la lotta notturna con lo sconosciuto. Lo sconosciuto ha partita vinta quando tocca l’estremità del femore di Giacobbe e ne provoca la slogatura. Ma Giacobbe resiste ancora e ne riceve la benedizione e con essa la consapevolezza che il Signore è con lui e sarà con lui anche nell’incontro con il fratello. Egli si è misurato con Dio, chi può ancora temere? E Dio lo ha benedetto e quindi chi mai potrà batterlo?

Alzò gli occhi Giacobbe e vide Esaù che si avvicinava con quattrocento uomini. Mise in ordine la sua famiglia, mettendo i figli vicini alle loro madri ed egli si mise davanti a tutti e si prostrò a terra sette volte finché non giunse il fratello.

Quando Esaù giunse tutti i timori nutriti da Giacobbe si dissolsero. Esaù corse incontro al fratello e lo abbracciò, lo baciò e piansero insieme. Chiese Esaù della famiglia di Giacobbe ed a turno si prostrarono a lui le ancelle e i loro figli, Lea ed i suoi figli, Rachele e Giuseppe.

Giacobbe disse al fratello dei doni che aveva preparato per lui ma il fratello si schernì affermando che lui era già ricco di suo e che lui tenesse pure i doni per sé. Giacobbe però insistette tanto finché Esaù accettò. Si lasciarono quindi e Giacobbe proseguì il suo viaggio e giunse alla città di Scechem, in terra di Canaan dove si accampò. Acquistò la parte del campo dove era la sua tenda e là eresse un altare, presso il quale proclamò:

Dio è il Dio d’Israele.

Dina, la figlia che Giacobbe ebbe da Lea, uscì per vedere le donne del paese. Ma Shechem, figlio di Chamor, principe ittita della città, la vide e la rapì. Si giacque Shechem con lei violentandola.
Ma Shechem si affezionò a Dina tanto che disse a suo padre di prendergli in moglie quella fanciulla. Chamor si recò da Giacobbe e trovò lui ed i suoi figli addolorati ed adirati per il disonore subito da Dina e per l’offesa ricevuta dalla famiglia.

Chamor parlò chiedendo che Dina fosse concessa in moglie a suo figlio Shechem che si era invaghito di lei. Aprì le porte del suo paese Chamor, auspicando che tra la sua gente e quella di Giacobbe potesse avvenire un imparentamento reciproco a mezzo delle loro figlie. Chamor peraltro si obbligò a provvedere al premio nunziale la cui entità lasciava che fosse determinata da Giacobbe e dai suoi figli.

I figli di Giacobbe risposero, avendo già ordito un inganno a causa del disonore che Shechem aveva arrecato alla loro sorella Dina. Essi dissero infatti che l’offerta di Chamor avrebbe potuto essere accettata solamente se tutti i maschi della gente di Chamor fossero stati circoncisi, come loro erano circoncisi.

Chamor tornò in città dalla sua gente e riferì nel merito della richiesta ricevuta di circoncidere tutti i maschi e disse che riteneva questa richiesta accettabile e che sarebbe stato comunque vantaggioso per loro legarsi a questa nuova gente e che da questa unione sarebbe derivato un rafforzamento della loro città.

Tutti gli abitanti della città diedero ascolto a Chamor e tutti i maschi furono circoncisi.
Al terzo giorno, quando tutti i maschi della città erano sofferenti, Simeone e Levi, fratelli di Dina, presero le loro spade e, all’insaputa di Giacobbe, si precipitarono nella città, uccidendone tutti i maschi, compresi Chamor e suo figlio Shechem.

Quando Giacobbe seppe ciò che avevano fatto, egli si lagnò con loro perché la sua gente veniva a trovarsi così in cattiva luce in un ambiente dove sarebbe bastata una coalizione di due o più popoli contro di loro per annientarli. Ma i suoi figli gli risposero:

Avrebbe dovuto la nostra sorella essere considerata come una meretrice?

Il Signore disse a Giacobbe:

Alzati, va’ a Beth-El e là fa’ un altare al Dio che ti apparve quando fuggivi da tuo fratello Esaù.

Giacobbe disse alla sua gente di consegnare tutti gli idoli che erano tra loro e di purificarsi, dopo di ché sarebbero andati a Beth-El dove lui avrebbe eretto un altare al Dio che l’aveva già esaudito nel periodo di maggiore angustia della sua vita.

Così fecero e quando giunsero a Beth-El Giacobbe eresse un altare e chiamò quel luogo El-Beth-El, perché là gli era apparso Dio quando era fuggito da suo fratello. In quel luogo morì Debora, nutrice di Rebecca e fu seppellita giù a Beth-El sotto una quercia che prese il nome di quercia del pianto.

Ancora una volta Dio apparve a Giacobbe di ritorno da Paddam-Aram, lo benedisse e gli disse:

Tu ti chiami Giacobbe; non continuerai a chiamarti ancora Giacobbe, il tuo nome sarà Israele.

E gli impose nome Israele. Dio stesso soggiunse:

Io sono Iddio Onnipotente, prolifica e diventa numeroso, una nazione; un insieme di nazioni deriverà da te; dai tuoi lombi usciranno dei re. A te assegno la terra che già assegnai ad Abramo ed Isacco, la darò alla tua discendenza dopo di te.

Giacobbe eresse un monumento di pietra nel luogo ove Dio gli aveva parlato e vi fece libazione e vi spruzzò olio. Pose nome Beth-El a quel luogo.

Partirono in direzione di Efrath, ma prima di giungervi Rachele partorì ed ebbe un parto difficile. Nacque Beniamino ma Rachele non ce la fece e morì. La tomba che Giacobbe eresse per lei è ancor oggi visibile sulla via di Efrath che è Beth-Lèchem.

Israele partì e piantò le tende oltre Migdal Eder e mentre era qui Ruben giacque con Bilhà, concubina di suo padre ed Israele venne a saperlo.

Dunque i figli di Giacobbe erano dodici e Giacobbe andò da suo padre Isacco in Mamrè Kirjath Arbà, poi detta Chevron. Isacco aveva centottantanni quando morì e si riunì alla sua gente. I figli Esaù e Giacobbe lo seppellirono.

Il capitolo 36, finale della parashà tratta della discendenza di Esaù o Edom. Esaù prese le sue mogli tra le cananee ed ebbe anch’egli molti figli ed anche il suo bestiame e gli altri beni crebbero fino al punto che la terra di Canaan non poteva più ospitare lui e suo fratello Giacobbe insieme. Esaù si trasferì allora in un altro paese e andò sul monte Se’ir.
Anche la discendenza di Esaù fu molto numerosa ed al termine della narrazione è l’enumerazione dei re che regnarono in Edom fino ai tempi mosaici.

Trovo che il passo più appassionante della parashà sia quello della lotta di Giacobbe con lo sconosciuto che si rivelerà poi come la lotta di Israele con Dio. E’ questo l’episodio che dice alla nostra sensibilità: fermati ed ascolta ciò che intendo dirti. Il Signore, ammesso che l’essere umano lo incontri, è una dimensione verso la quale non ci si deve mantenere passivi, attendendo che lui faccia tutto e ci impregni di sé. E’ richiesta la nostra partecipazione attiva, critica, anche la nostra contestazione, in definitiva la lotta con Lui, affinchè così Egli possa intimamente penetrare in noi, fin nei più riposti anfratti della nostra anima e renderci consapevoli della nostra appartenenza a Lui, dell’essere noi figli ed Egli Padre.

lunedì 28 novembre 2011

Vayetzè

(Gen.28,10-32,3)

Giacobbe era in viaggio verso Charan ed al calare della sera si fermò per pernottare in quello stesso luogo in cui era giunto.
Prese delle pietre, le pose sotto il capo e si coricò. In sogno gli apparve una scala, poggiata a terra e la cui cima arrivava al cielo.
Gli Angeli del Signore salivano e scendevano lungo la scala ed il Signore dall'alto diceva:

"Io sono il Signore Dio di Abramo tuo padre, e Dio di Isacco; la terra sulla quale stai coricato la darò a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come la polvere della terra e ti estenderai a occidente, a oriente, a settentrione e a mezzogiorno e in te e nella tua discendenza si benediranno tutte le nazioni della terra. Io sono con te ti proteggerò ovunque andrai e ti farò tornare in questo paese; non ti abbandonerò ma adempirò a quel che ti ho detto."

Giacobbe stava andando a cercare moglie nella terra di Labano, fratello di sua madre, ma era solo ed a mani vuote, non aveva doni né per Labano, né per la futura moglie. Aveva ben presente Giacobbe che la sua partenza precipitosa era stata essenzialmente una fuga per sfuggire all'ira del fratello Esaù.

Avrebbe potuto temere Giacobbe che il Signore lo avesse abbandonato come potevano far supporre i fatti accadutigli e cioè la necessità di fuggire e l’aver dovuto lasciare i genitori, la sua casa e la sua terra nella disponibilità di suo fratello Esaù. Il sogno è quindi provvidenziale per Giacobbe: il Signore dissipa ogni timore e lo rassicura dicendogli che a lui ed alla sua discendenza Egli darà la terra dove si trova e che si estenderà in tutte le direzioni e che allora potranno essere benedette tutte le nazioni della terra.

Molto si è discusso da parte dei saggi e dei rabbini sul significato della scala e degli Angeli che su di essa salgono e scendono. Personalmente condivido l’interpretazione che la scala rappresenti simbolicamente il percorso ideale delle comunicazioni che intercorrono tra l’essere umano ed il Signore e che gli Angeli siano i messaggeri che portano al Signore le comunicazioni che l’essere umano esprime e riportano a lui le comunicazioni del Signore.

Perché gli Angeli? Perché non un altro tipo di immagine per esprimere questo flusso di comunicazioni, ad esempio avrebbe potuto essere un corso d’acqua che sale ed un altro che scende, quasi un anello con un flusso continuo che avrebbe reso il concetto di una comunicazione che fluisce senza interruzioni. Per rispondere a questa domanda occorre tener conto che le comunicazioni umane sono sempre frammentarie, noi discutiamo sempre trattando un determinato argomento o un numero limitato di argomenti perché è la limitatezza della nostra mente umana che non ci consente la trattazione di argomenti o concetti indefiniti o illimitati, che farebbero parte di un tutto continuo, dove tutti gli argomenti si fondono e si impastano in un modo indistinto. La comunicazione indefinita ed illimitata si sostanzia nella contemplazione mistica, che però non è certo il più frequente sistema comunicativo adoperato dall’essere umano nel suo dialogo con Dio. Ed allora l’immagine della sequenza di angeli che sale e che scende rende con efficacia il concetto di un dialogo che per essere comunemente accessibile alla mente umana non può che essere frammentario e costituito da frammenti limitati e perciò comprensibili.

Giacobbe risvegliatosi dal sonno disse:

In questo luogo c’è proprio il Signore, ed io non lo sapevo.

ed aggiunse:

Quanto è venerando questo luogo! Indubbiamente è la casa di Dio, è la porta del cielo.

Giacobbe prese la pietra sulla quale aveva messo la testa e la pose come monumento, versò sopra dell’olio e chiamò quel luogo Beth-El , la casa di Dio.

Giunse quindi Giacobbe in prossimità di Charan e si fermò a un pozzo dove erano alcuni pastori che abbeveravano le greggi. Gli indicarono Rachele, figlia di Labano, che stava arrivando al pozzo con il suo gregge. Giacobbe scoperchiò per lei il pozzo e fece abbeverare il bestiame di Labano. Baciò Rachele e le disse che le era parente, figlio di Rebecca. Rachele corse subito via e giunta a casa e raccontò tutto al padre Labano.

Giacobbe stette un mese ospite in casa di Labano, che ebbe così modo di apprezzarne le qualità lavorative. Trascorso il mese Labano parlò a Giacobbe e gli disse che riteneva giusto ricompensarlo per i servizi che egli svolgeva e gli chiese quale compenso egli volesse.

Giacobbe, che amava Rachele, disse prontamente a Labano:

Ti servirò sette anni per Rachele, la tua figlia minore.

E così avvenne. Giacobbe servì Labano per sette anni e poi gli chiese che gli desse in moglie Rachele. Labano organizzò allora un pranzo, cui partecipò tutta la gente del luogo. A sera però Labano prese Lea, la sua figlia maggiore, e la condusse alla tenda di Giacobbe il quale si unì a lei. Al mattino Giacobbe si accorse dell’inganno e indignato si recò da Labano per chiedere conto di quanto gli era stato fatto. Ma Labano gli replicò:

Non si fa così nel nostro paese, di dar marito alla minore prima che alla maggiore. Finisci la settimana di questa, e ti daremo anche l’altra, per il servizio che mi presterai per altri sette anni.

E così fu che dopo sette giorni di festeggiamenti per il matrimonio con Lea, Labano dette in moglie a Giacobbe anche Rachele. Lea aveva una serva di nome Zilpà e Rachele una schiava di nome Bilhà. Dall’unione con Lea nacquero quattro figli: Ruben, Simeone, Levi e Giuda. Rachele, vedendo che non riusciva a rimanere incinta, chiese a Giacobbe di unirsi alla sua ancella Bilhà, sicchè per suo tramite ella potesse avere figli. E da Bilhà nacquero: Dan e Naftalì. Lea, vedendo che i suoi parti si erano interrotti, prese anch’essa la sua ancella Zilpà e la dette in moglie a Giacobbe. Da Zilpà nacquero: Gad ed Asher. E ancora nuovamente rimase incinta Lea e generò: Issachar, Zevulon e una figlia Dina. Infine anche Rachele partorì nuovamente e generò Giuseppe.

Da Giacobbe dunque nascono i capostipiti delle tribù d’Israele e questi capostipiti nascono non nella terra di Canaan, ma al di fuori di essa, stando a significare che se è vero che la terra di Canaan è la terra promessa verso la quale tutto il popolo d’Israele anela a tornare, è anche vero che le azioni fondamentali e fondanti possono realizzarsi anche al di fuori di essa.
Ed infatti il popolo d’Israele vivrà nella sua storia più volte la sua diaspora. Lasciò Ur dei Caldei per recarsi nella terra di Canaan; andò quindi in Egitto per sfuggire alla carestia; fu deportato a Babilonia quando avvenne la distruzione del primo tempio; venne disperso nelle provincie dell’impero quando i romani distrussero il secondo tempio e rasero al suolo Gerusalemme; fu espulso dalla Spagna nell’anno della scoperta dell’America e venne in Italia, nei Paesi Bassi, nel nord Africa, nell’impero ottomano e oltre; fu perseguitato e sterminato nei paesi dell’Europa centrale e si trasferì negli Stati Uniti, nel sud America e ancora nello Stato d’Israele, prodigiosamente ricostituitosi dopo due millenni per essere la casa del popolo ebraico.

Trascorsi anche gli ulteriori sette anni pattuiti, Giacobbe si recò da Labano e gli chiese di poter andar via e tornare alla sua terra. Labano propose a Giacobbe di rimanere ancora a lavorare per lui e gli chiese quale compenso volesse per questo. E Giacobbe rispose:

Non mi dar niente; se mi concederai questo, pascolerò ancora il tuo gregge e lo curerò. Passerò oggi in rassegna tutto il tuo gregge, separando da esso i singoli capi punteggiati e macchiati e quelli bruni fra le pecore, nonché quelli macchiati e punteggiati fra le capre. Quelli che nasceranno tali da ora in poi, costituiranno la mia mercede.

Labano gli disse di essere d’accordo e che così avrebbero fatto. Ma subito dopo, il giorno stesso, fece separare dai suoi greggi tutti gli animali che avevano quelle particolarità che Giacobbe gli aveva detto e li consegnò ai suoi figli. Giacobbe pascolava intanto la rimanente parte delle greggi di Labano.

Giacobbe preparò dei rami d’albero con delle scorticature che ne mettevano a nudo il bianco e quindi collocò questi bastoni lungo i sentieri che conducevano agli abbeveratoi. Le pecore, che erano in calore e che andando ad abbeverarsi vedevano i rami striati, partorivano animali striati, punteggiati o macchiati. Poneva Giacobbe questi bastoni a primavera quando gli animali erano robusti, mentre non li poneva in autunno quando le pecore erano deboli e in questo modo i nuovi nati striati erano quelli robusti e spettavano a Giacobbe, mentre quelli senza macchie o striature ma deboli toccavano a Labano.

Con il passare del tempo Giacobbe continuava ad arricchirsi e Labano ed i suoi figli iniziarono a manifestargli la loro ostilità. Il Signore allora disse a Giacobbe:

Torna alla terra dei tuoi padri e alla tua patria e Io sarò con te.

Allora Giacobbe mise i figli e le mogli sui cammelli, portò via tutto il suo bestiame, tutti i beni che aveva acquistato, il bestiame che aveva messo insieme in Paddam-Aram per tornare da suo padre Isacco in terra di Canaan. Rachele al momento di partire rubò gli idoli di suo padre.
Giacobbe non informò l’arameo Labano della sua partenza, ma fuggì, passò l’Eufrate e si diresse verso Ghil’ad, ad est del Giordano.

Labano lo inseguì per sette giorni e lo raggiunse al monte Ghil’ad. Il Signore apparve quella notte in sogno a Labano e gli disse:

Fai attenzione a non parlare a Giacobbe né in bene né in male.

Labano allora parlò a Giacobbe chiedendogli perché mai l’avesse ingannato e fosse fuggito portando via le sue figliole e rubando i suoi idoli. Giacobbe rispose dicendo che era fuggito per paura che lui, Labano, non gli facesse portar via le sue due figlie. Per quanto riguardava il furto degli idoli Giacobbe, che era effettivamente all’oscuro della vicenda, disse che se fosse stato trovato il ladro, questi sarebbe stato messo a morte. Labano entrò nella tenda di Giacobbe e in quelle della figlia Lea e delle due ancelle Bilhà e Zilpà ma non trovò i suoi idoli. Entrò infine nella tenda di Rachele, che aveva prontamente nascosti gli idoli nella sella del cammello sulla quale era seduta, ed anche qui non trovò niente.

Giacobbe si lamentò con Labano di tutto questo suo frugare, che tradiva una mancanza di fiducia che egli riteneva di non meritare dopo che l’aveva servito fedelmente per vent’anni. Stipularono allora un patto Labano e Giacobbe stabilendo una linea di confine che reciprocamente non avrebbero dovuto oltrepassare con intenzioni aggressive.

Si lasciarono e Giacobbe riprese il suo viaggio ed incontrò dei messaggeri di Dio e quando li vide disse:

Questo è un campo di Dio.

E chiamò quel luogo Machanàim , che significa “campo duplice” cioè di Angeli e di uomini.

La figura di Giacobbe si presta a critiche per diversi motivi riguardanti i suoi comportamenti. Già l’immagine della sua nascita la dice lunga: egli si serve del fratello afferrandogli saldamente il tallone come fosse una maniglia cui appigliarsi per facilitare la sua venuta alla luce. Truffa quindi il fratello Esaù sottraendogli i diritti di primogenitura per un piatto di lenticchie. Truffa il padre spacciandosi per suo fratello e ne carpisce la benedizione. Fugge e si trattiene dallo zio Labano per circa vent’anni, si accoppia qui con due mogli e due loro ancelle generando figli con ognuna di esse. Truffa infine Labano con l’allevamento del bestiame e si arricchisce alle sue spalle.

Eppure il Signore lo predilige ed a lui ed alla sua discendenza promette la terra di Canaan.
Ma come può il Signore dare la Sua preferenza ad una persona che ricorre all’inganno abitualmente? Come si conciliano i comportamenti di Giacobbe con i dettami morali che saranno poi codificati nei precetti impartiti dal Signore al popolo d’Israele?

La risposta a queste domande va ricercata non sulla base di un principio generale, quello di non mentire, che è inoppugnabile, bensì sulla particolarità delle figure di Giacobbe e dei personaggi con lui coinvolti nello svolgimento dei fatti nonché sulla valutazione dell’esistenza di possibili alternative.

Si intuisce che il rapporto con Esaù, dotato di grande forza e di temperamento selvatico, non può essere gestito sullo stesso piano da Giacobbe, che ha invece corporatura gracile ed è di temperamento mite. In fin dei conti in questa fase non c’è inganno da parte di Giacobbe perché lui dice chiaramente al fratello i termini del baratto: la primogenitura per un piatto di lenticchie. Tutt’al più potrebbe imputarsi a Giacobbe la consapevolezza di una non corretta valutazione da parte del fratello dell’entità di ciò a cui rinunciava. Ma questa è una carenza di Esaù più che una colpa di Giacobbe.

Quanto all’inganno nei confronti del padre, sicuramente mai questi gli avrebbe impartito la benedizione del primogenito se l’avesse riconosciuto. Il racconto però avrebbe potuto prevedere un’altra modalità di svolgimento dei fatti, che è quella alla quale spesso la Torà ricorre, e cioè che il Signore avesse parlato ad Isacco, chiedendogli di benedire Giacobbe. Ma se a questa alternativa non si è fatto ricorso significa che l’inganno attuato ai danni del padre non inficia la predilezione del Signore verso Giacobbe.

Anche l’inganno ai danni di Labano non ha influenza sulla fiducia del Signore verso Giacobbe. Il Signore ammonisce anzi Labano dal guardarsi dal compiere azioni di rappresaglia nei confronti di Giacobbe.

Insomma al Signore e al narratore biblico Giacobbe piace. Perché?
E’ probabile che Giacobbe rappresenti la figura ideale per l’uomo medio evoluto, che ha capito le potenzialità della ragione e della tattica nei confronti della forza bruta; è l’uomo che avuto quattro donne ed un stuolo di figli, è l’uomo infine che arricchisce grazie al suo ingegno. E tutto questo in terra straniera!

martedì 22 novembre 2011

Toledot

(Gen.25,19-28,9)

Isacco aveva quarant'anni quando sposò Rebecca. Con il passare del tempo divenne evidente che Rebecca era sterile ed allora Isacco pregò a lungo il Signore affinché concedesse loro un figlio. Il Signore infine l'ascoltò e Rebecca rimase incinta. La gravidanza si rivelò travagliata e Rebecca era preoccupata per i forti urti che avvertiva tra i due feti che erano nel suo ventre. Ella andò a consultare il Signore, che le disse:

Nel tuo ventre ci sono due nazioni, due popoli si dirameranno dalle tue viscere, una nazione sarà più forte dell’altra, ma il più grande servirà il più piccolo.

Nacquero infine due gemelli. Il primo era tutto rosso e peloso e lo chiamarono Esaù, che vuol dire appunto “peloso”. Uscì quindi il secondo, che con la mano teneva il calcagno del fratello ed a lui fu messo il nome di Giacobbe, che dalla radice ‘akev significa calcagno. Quando nacquero Isacco aveva sessant’anni.

I ragazzi crebbero ed Esaù, di carattere più sanguigno e di fisico più forte, divenne un esperto cacciatore, mentre Giacobbe, che aveva un temperamento più tranquillo, si dedicava ad occupazioni sedentarie.
Esaù era il preferito di suo padre Isacco, Rebecca invece prediligeva Giacobbe.

Ma Giacobbe, in confronto al fratello, era sì di corporatura gracile e di carattere mite, ma possedeva però un requisito che sarebbe risultato decisivo per il loro futuro: Giacobbe aveva l’astuzia per fronteggiare l’irruenza del fratello e con l’astuzia egli avrebbe prevalso.

Infatti un giorno che Giacobbe si era preparato una minestra di lenticchie, Esaù tornò stanco dalla campagna e disse al fratello:

Fammi trangugiare un po’ di quella roba rossa, ché sono stanco.

E fu allora che Giacobbe prontamente rispose:

Vendimi la tua primogenitura.

Esaù acconsentì e giurò, in cambio di un piatto di lenticchie, di aver ceduto la primogenitura a Giacobbe.

Si verificò poi nel paese una grave carestia ed il Signore disse ad Isacco di non recarsi in terra d’Egitto ma di fermarsi in Gherar dove era re Avimèlech, giacché a lui ed alla sua discendenza Egli avrebbe dato quella terra:

… Farò numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo, darò alla tua stirpe tutte queste terre, e nella tua stirpe si benediranno tutte le nazioni della terra, come premio che Abramo mi obbedì, osservò i miei ordini, i miei comandamenti, i miei statuti e le mie leggi.

Isacco dunque rimase a Gherar ed anche lui, come aveva fatto suo padre Abramo in precedenza, fece passare la moglie Rebecca per sua sorella, perché aveva paura che altrimenti gli abitanti del posto potessero ucciderlo per impossessarsi di Rebecca, la quale, nonostante l’età matura era ancora una bella donna.

La cosa venne però scoperta perché la coppia fu vista in atteggiamento di intima confidenza ed Avimèlech allora espresse ad Isacco le sue lagnanze per questo inganno, che fortunatamente non aveva avuto conseguenze in quanto nessuno fino ad allora aveva giaciuto con Rebecca. Proclamò peraltro Avimèlech che chiunque avesse toccato Isacco o sua moglie Rebecca sarebbe stato messo a morte.

In quella terra Isacco seminò e raccolse in abbondanza e divenne sempre più ricco e possedeva bestiame minuto e grosso ed aveva molta servitù. Di questa sua ricchezza i Filistei ingelosirono e gli chiusero i pozzi d’acqua già scavati al tempo di Abramo. Infine Avimèlech disse ad Isacco di andar via dalla città:

Va’ via da noi, poiché sei diventato molto più potente di noi.

Isacco e la sua gente andarono via e si stabilirono nella pianura di Gherar, dove scavarono nuovi pozzi e trovarono l’acqua. Avvennero però contestazioni tra i pastori di Isacco e quelli di Gherar, che sostenevano che l’acqua fosse loro. Scavarono i servi d’Isacco un altro pozzo ed anche per questo vi fu contestazione. Scavarono un terzo pozzo per il quale non vi furono contestazioni ed Isacco lo chiamò Rechovoth poiché disse:

Ora il Signore ci ha fatto largo e potremo prosperare nel paese.

Di là andarono a Beer-Shèvah, dove il Signore apparve in sogno ad Isacco e gli disse:

Io sono il Dio di tuo padre Abramo; non temere Io sono con te, ti benedirò e farò numerosa la tua discendenza in grazia di Abramo Mio servo.

Qui, dopo che Isacco ebbe eretto un altare ed invocato il Signore, si fermarono e scavarono un altro pozzo.
Mentre erano accampati arrivò da Gherar il re Avimèlech, accompagnato da due dignitari, con l’intendimento di stabilire un patto di pace. Isacco li accolse, offrì loro il pranzo e li ospitò per la notte. Il giorno dopo, di buon mattino, avvenne il giuramento e poi si accomiatarono.

Esaù a quarant’anni prese per moglie una donna ittita, arrecando così amarezza ad Isacco ed a Rebecca.

Quando Isacco fu vecchio la vista gli si indebolì al punto di non vedere più. Chiamò il figlio prediletto Esaù e gli chiese di andare a caccia con l’arco e di preparare poi per lui una vivanda gustosa, sicché egli potesse benedirlo prima di morire.

Rebecca, che aveva sentito tutte queste parole, chiamò Giacobbe ed insieme ordirono un inganno per far sì che il vecchio Isacco benedicesse, senza accorgersene, non Esaù ma Giacobbe.

Giacobbe preparò una pietanza con due capretti del gregge, indossò le vesti del fratello Esaù per averne il medesimo odore e si ricoprì le braccia ed il collo con le pelli dei capretti, affinchè il loro vello simulasse al tatto la pelle del fratello. Quindi si presentò al padre dicendo:

Sono Esaù tuo primogenito, ho fatto come mi hai detto; su, siediti deh! E mangia della mia caccia per darmi poi la benedizione.

Isacco si mostrò dubbioso che quello fosse veramente suo figlio Esaù, e ciò perché era tornato troppo presto dalla caccia e perché la voce non sembrava la sua, ma infine, sentendone l’odore e toccandolo si convinse. Mangiò Isacco e benedisse suo figlio come primogenito.

Quando Esaù tornò dalla caccia e venne a sapere dell’inganno attuato da Giacobbe e che la benedizione data da Isacco non poteva essere più ritirata e che ora Giacobbe era signore su di lui e padrone di tutti i beni, allora egli espresse il suo pensiero:

Sono vicini i giorni del lutto di mio padre; allora ucciderò mio fratello Giacobbe.

Rebecca, venuta a conoscenza delle intenzioni di Esaù disse a Giacobbe di fuggire via e rifugiarsi da suo fratello Labano a Charan e di restarvi finchè l’ira di Esaù non si fosse calmata. Ad Isacco Rebecca disse che occorreva evitare che Giacobbe prendesse in moglie un’ittita e fu così che Isacco stesso chiamò Giacobbe e gli disse di andare in Paddam-Aram, e di prendere là una moglie tra le figlie di Labano.

Esaù venne a sapere tutte queste cose e si accorse che le donne cananee non piacevano a suo padre. Si recò allora presso Ismaele e ne prese in moglie, oltre quelle che già aveva, una delle figlie.

La parashà copre un arco temporale di circa quarant’anni e ci fa’ assistere al declino fisico di Isacco che arriva a Gherar presumibilmente all’età di circa ottant’anni, considerato che ne aveva sessanta quando nacquero i suoi due figli e che essi sono adesso adulti, “maggiorenni” diremmo noi oggi. Rebecca a Gherar doveva avere circa cinquantacinque anni, evidentemente ben portati considerando i timori di Isacco sul fatto che qualcuno desiderasse portargliela via.

E’ una parashà in cui c’è un protagonista meno visibile, ma presente per ben tre volte: l’inganno.

Il primo inganno è quello ordito da Isacco ai danni di Avimèlech e degli abitanti di Gherar.
Isacco presenta sua moglie dicendo che è sua sorella. E’ lo stesso inganno attuato da Abramo ai danni del Faraone quando disse che Sara era sua sorella e però in quel caso c’era una parvenza di verità perché Sara effettivamente, oltre che moglie, era anche sorella di Abramo.
Nel caso di Isacco non ci sono scusanti, si tratta di un inganno a tutto campo.

Il secondo inganno è quello di Giacobbe nei confronti del padre Isacco, al quale viene carpita la benedizione di primogenitura. Anche questo è un inganno senza scusanti, il danneggiato è il primogenito Esaù, al quale può imputarsi solamente la grande leggerezza con cui si è disfatto del diritto di primogenitura.

Il terzo inganno è quello di Rebecca ai danni di Isacco e di Esaù, sia nella fase in cui ella istruisce Giacobbe sul come presentarsi al padre facendogli credere di essere suo fratello, sia ancora più avanti quando dirà ad Isacco dell’opportunità che Giacobbe vada da Labano, non già per sottrarsi all’ira del fratello Esaù, ma per trovare moglie.

E’ da notare che questi inganni sono presentati nella parashà non come attuazione di istruzioni date dal Signore, ma come iniziative umane, il primo per iniziativa di Isacco, gli altri per iniziativa di Giacobbe e Rebecca.
Il Signore infatti non esercita l’inganno, ma ne prevede l’esistenza sicché l’essere umano, nel suo agire, possa esercitare la sua facoltà di libero arbitrio, scegliendo ed assumendosi la responsabilità e le conseguenze di un’azione condotta con inganno rispetto ad una condotta in modo palese.

lunedì 14 novembre 2011

Hayei Sarà

(Gen.23,1-25,18)

Morì Sara all'età di centoventisette anni a Kiriath Arbà ora Chevron. Abramo la pianse e ne fece le esequie. Poi, per provvedere alla sepoltura, trattò con l'ittita Efron l'acquisto della grotta di Machpelà. Il prezzo pagato per la grotta fu di quattrocento sicli d'argento di commercio.

Abramo era ormai in età molto avanzata quando chiamò il suo servo fidato Eliezer e gli chiese, sotto giuramento, di provvedere a prendere una moglie per suo figlio Isacco non presso i Cananei, ma recandosi in Mesopotamia da suo fratello Nachor.

Eliezer prese dieci cammelli, li caricò delle cose più belle del suo padrone e partì. Giunse verso sera a Charan, la città di Nachor, e si fermò presso un pozzo facendo inginocchiare i cammelli. Era l'ora in cui le donne escono per andare ad attingere l'acqua ed Eliezer si augurava che il Signore gli facesse incontrare una ragazza alla quale lui avrebbe chiesto di poter bere dalla sua brocca e che rispondesse offrendo l'acqua a lui e provvedendo anche a dissetare i suoi cammelli. Quella, pensava Eliezer, sarebbe stata la ragazza destinata dal Signore ad Isacco.

Ed a questo punto ecco apparire una ragazza giovane e bellissima che scese alla fonte, riempì la brocca e risalì. La ragazza era Rebecca, nata da Bethuel figlio di Milcà, moglie di Nachor, fratello di Abramo, ma Eliezer non lo sapeva.
Eliezer le corse incontro e le disse:

"Deh! Dammi da bere un po' d'acqua dalla tua brocca!"

La ragazza rispose porgendogli la brocca:

"Bevi, signor mio."

E dopo che lui ebbe bevuto, ella aggiunse:

"Attingerò anche per i tuoi cammelli finché abbiano bevuto a sufficienza."

Quando anche i cammelli ebbero finito di bere Eliezer, che aveva apprezzato la gentilezza della ragazza, le dette un pendente d’oro e due bracciali d'oro e le chiese di chi fosse figlia e se nella casa di suo padre ci fosse posto per pernottare. La ragazza rispose che suo padre era Bethuel e suo nonno Nachor e che nella sua casa c'era posto per ospitarli per la notte.

Eliezer si prostrò al Signore e disse:

"Sia benedetto il Signore Dio del mio padrone Abramo che non ha cessato la sua benevolenza e la sua fedeltà verso il mio padrone, ora nel mio viaggio mi ha condotto alla casa dei parenti del mio padrone."

La ragazza nel frattempo corse a casa di sua madre a raccontare tutti questi fatti. Suo fratello Labano, sentito il racconto e visti i doni che ella aveva ricevuto, andò incontro all'uomo di cui la sorella aveva parlato e gli disse:

"Vieni benedetto del Signore; perché stai fuori mentre io ho fatto posto in casa anche per i cammelli?"

L'uomo entrò in casa, scaricò i suoi cammelli e si lavò i piedi ma, prima di mangiare, si presentò e disse i motivi del suo viaggio:

"Sono un servo di Abramo. Il Signore ha molto benedetto il mio padrone sì che questi è arricchito; gli ha dato pecore, buoi, argento, oro, schiavi, schiave, cammelli e asini. Sara, moglie del mio padrone, già vecchia, gli ha partorito un figlio al quale egli ha dato tutto ciò che possiede. Il mio padrone mi ha fatto giurare: - Non prendere moglie per mio figlio fra le donne dei Cananei nel cui paese io abito. Ma recati alla mia casa paterna, presso la mia famiglia a prendere una moglie per mio figlio."

Raccontò quindi Eliezer di come, giunto a Charan e fermatosi al pozzo, avesse immaginato che qui sarebbe avvenuto l’incontro con la ragazza che il Signore aveva scelto per Isacco e di come poi questo incontro fosse effettivamente avvenuto. Rebecca aveva dato da bere a lui ed aveva dissetato i suoi cammelli. Lui, saputo di chi era figlia la ragazza, le donò un pendente d’oro per il naso e due braccialetti d’oro per le braccia, poi ringraziò il Signore per averlo indirizzato nella giusta via facendogli trovare la moglie di Isacco.

Labano e Bethuel, udite tutte queste cose, risposero:

La cosa proviene dal Signore, noi non possiamo dirtene né male né bene. Rebecca ti sta dinanzi, prendila e va’; diventi moglie del figlio del tuo padrone, come il Signore ha stabilito.

Eliezer allora trasse fuori i doni che aveva portato con sé e li diede a Rebecca, al fratello ed alla madre di lei. Mangiarono, bevvero e pernottarono. Il mattino seguente Eliezer disse che doveva partire subito per tornare dal suo padrone. Rebecca venne chiamata e le fu chiesto se volesse andar via con quell’uomo. Lei rispose di sì e partirono.

Verso sera Isacco uscì di casa per passeggiare nella campagna quando, alzando gli occhi, vide dei cammelli che si avvicinavano. Anche Rebecca alzò gli occhi, vide Isacco e saltò giù dal cammello. Chiese chi fosse quell’uomo che veniva loro incontro ed Eliezer le disse che era il suo padrone. Rebecca si coprì il volto con il velo.

Isacco la condusse nella tenda di Sara, sua madre, la prese in moglie e l’amò; così ebbe conforto dopo la morte di sua madre.

Abramo aveva preso con sé un’altra donna di nome Keturà dalla quale ebbe sei figli. Egli però lasciò tutto ciò che aveva a suo figlio Isacco, mentre riguardo ai figli delle sue concubine, dette loro dei doni, ma li mandò lontano verso levante. Aveva centosettantacinque anni Abramo quando morì e la sua anima si riunì alla sua gente quando abbandonò il suo corpo. Venne seppellito nella grotta di Machpelà, dove già era sua moglie Sara.

Il racconto si conclude con l’enumerazione della discendenza di Ismaele, il figlio che Abramo ebbe dall’egiziana Hagar.

Con questa parashà si conclude un significativo anello della lunga catena delle generazioni dei conduttori del popolo ebraico. Esce di scena la coppia Abramo e Sara e subentra loro quella formata da Isacco e Rebecca. Abramo e Sara hanno assolto al loro compito, quello comandato dal Signore ad Abramo di uscire da Ur dei Caldei per recarsi nella terra di Canaan ed assolto questo compito si conclude la loro esistenza. Altre volte vedremo questa stretta associazione tra la conclusione del compito assegnato dal Signore e la conclusione della vita di chi l’ha assolto, come se il Signore volesse ricordarci che l’unico motivo per il quale noi siamo in vita è proprio per svolgere il nostro compito, così come Lui ce lo ha assegnato.

mercoledì 9 novembre 2011

Vayerà

(Gen.18,1-22,24)

E’ questa una parashah densa di avvenimenti notevoli e fondamentali per la formazione e lo sviluppo del popolo ebraico. Inizia il capitolo 18 con l’apparizione del Signore ad Abramo presso il querceto di Mamrè, dove egli si trovava accampato. Il Signore prende la forma di tre uomini che, inaspettatamente e nell’ora più calda del giorno, si avvicinano alla tenda. Abramo immediatamente corre loro incontro ed esprime la sua accoglienza dicendo ad uno di loro:

Signor mio, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, ti prego, non passare oltre al tuo servo. Si prenderà un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Prenderò un pezzo di pane, vi ristorerete, poi proseguirete, giacché siete passati presso al vostro servo.

Segue la descrizione dei preparativi e quindi delle pietanze che vengono offerte agli ospiti:

Prese poi della crema e del latte, il vitello che aveva preparato, e pose tutto dinanzi a loro; essi mangiarono mentre egli stava in piedi vicino a loro sotto l’albero.

E qui possiamo constatare che il pasto non è certamente conforme a quelle che sarebbero poi diventate le regole della kasherut. Infatti non si sarebbero mai potuti presentare insieme nello stesso pasto latte e carne. Ma i precetti della kasherut saranno emanati solamente molto tempo dopo e quindi, al tempo di Abramo non sussisteva per questo nessuna violazione.

Potremmo chiederci inoltre perché siano tre gli uomini che si presentano ad Abramo e se tra essi vi sia una distinzione o se il loro numero derivi dalle particolari funzioni che si accingono a svolgere. Vedremo presto che una delle tre figure è il Signore mentre le altre due sono Angeli, sue emanazioni. Il dialogo con Abramo vede le tre figure parlare all’unisono, come un’unica persona, fintantoché ci si ferma ai convenevoli di accoglienza. Non appena però vengono toccati argomenti profetici uno solo esprimerà la voce del Signore.

Uno di essi disse: Tornerò da te di qui a un anno e allora tua moglie Sara avrà un figlio.

E poi ancora, dopo che Sara ebbe riso ascoltando queste parole, il Signore disse ad Abramo:

Perché Sara ha riso pensando: E’ proprio vero che io così vecchia possa partorire? C’è cosa impossibile per il Signore? Da qui ad un anno tornerò da te e Sara avrà già un figlio.

Ed ancora uno solo di loro comunicò ad Abramo le lamentele che pervenivano a causa delle colpe gravi di Sodoma e Gomorra e la determinazione che aveva conseguentemente assunto di intervenire direttamente, prendendo in esame i comportamenti degli abitanti delle due città.

Mentre gli altri due, gli Angeli, partirono verso Sodoma il Signore si trattenne presso Abramo. Ed Abramo, rimuginando su quanto il Signore gli aveva detto, si fece avanti e disse:

Vorrai sterminare col malvagio anche il giusto? Forse ci saranno nella città cinquanta giusti e tuttavia distruggerai e non risparmierai il paese in grazia dei cinquanta giusti che vi si trovano?

Il Signore rassicurò Abramo e gli disse che se avesse trovato cinquanta giusti avrebbe certamente risparmiato la città. Ma ecco che subito dopo sorsero in Abramo dubbi sul fatto che nella città potessero esserci effettivamente cinquanta giusti e qui si innescò tra lui ed il Signore un gioco per così dire al ribasso per cui il numero minimo dei giusti da trovare passò da almeno cinquanta, ad almeno quarantacinque, poi quaranta, trenta, venti e si chiuse a dieci, quando il Signore disse:

Non distruggerò in grazia dei dieci.

Nel frattempo i due Angeli giunsero a Sodoma. Quando li vide arrivare Lot andò loro incontro, si prostrò a terra e li invitò nella sua casa ed insistette fintanto che essi non accettarono l’ospitalità che egli offriva loro. Gli abitanti di Sodoma però, che in qualche modo erano venuti a conoscenza del motivo della visita dei due personaggi, circondarono la casa di Lot e, minacciando di linciare Lot, la sua famiglia e gli stessi Angeli messaggeri, così recriminavano:

Uno solo che è venuto qui, forestiero, si permette di fare da giudice! Ora faremo male a te più che a loro.

Ma gli Angeli intervennero abbagliando la vista di quanti erano attorno alla casa e portarono con sé fuori dalla città Lot, sua moglie e le loro due figlie. Uno degli Angeli disse loro di mettersi in salvo senza mai fermarsi per guardare indietro. Lot chiese al Signore di poter trovare rifugio nel piccolo paese di Tsò’ar e ne ebbe l’assenso.

Il Signore allora fece piovere zolfo e fuoco su Sodoma e Gomorra e le due città, con tutti i loro abitanti e la vegetazione del suolo furono incenerite. La moglie di Lot si girò a guardare e divenne statua di sale. Lot ebbe timore e partì da Tsò’ar con le sue due figlie. Si fermarono in una grotta per pernottare e qui la maggiore delle sue due figlie disse all’altra:

Nostro padre è vecchio, e nel paese non c’è nessuno che, come è regolare, possa coabitare con noi. Diamo dunque da bere del vino a nostro padre, corichiamoci con lui, e così avremo figli da lui.

Così fecero e la prima notte toccò alla maggiore, la notte successiva alla minore. Lot non si accorse di nulla. Entrambe le ragazze rimasero incinte e avrebbero poi partorito la maggiore Moav, capostipite dei Moabiti, la minore Ben-‘Ammì, capostipite degli Ammoniti.

In questo modo l’incesto viene ad essere giustificato dalla necessità di assecondare la volontà del Signore dando vita alle due stirpi con le quali il popolo ebraico avrà poi decisivi contatti fino all’ingresso nella terra promessa. Insomma qui è la ragion di Stato, per così dire, che giustifica sia l’incesto, sia l’inganno ai danni del padre, rimasto inconsapevole dell’accaduto. E’ un po’ come la contessa di Castiglione che andrà a letto con Napoleone III sacrificando il suo onore, per la salvezza dell’Italia.

Al capitolo 20 ritorniamo ad Abramo, che nel frattempo si era rimesso in marcia ed era giunto a Gherar, città filistea a nord-est di Gaza. E qui Abramo ancora una volta mette in atto il solito odioso inganno riguardante sua moglie Sara, che viene presentata ancora come sua sorella agli abitanti del luogo e non già come sua moglie. E questo fece Abramo per salvare la propria pelle, che credeva in pericolo. La vicenda qui è molto meno credibile rispetto all’episodio precedente con il Faraone. Qui accade che Avimèlech, re di Gherar, mandò a prendere Sara, che era una donna, sia pure avvenente, ma ormai sfiorita per l’età molto avanzata. Allora il Signore apparve in sogno ad Avimèlech e gli disse:

Tu morrai a causa della donna che hai preso, poiché è maritata.

Ma Avimèlech, che a questo punto era stato reso sterile, espresse le sue rimostranze al Signore, facendo presente di non aver toccato la donna e che comunque egli l’aveva mandata a prendere perché aveva ritenuto che fosse la sorella di Abramo e non sapeva che fosse sua moglie. Sempre nel sogno il Signore lo tranquillizzò riconoscendo che aveva agito così per ingenuità. Doveva però restituire la donna al marito il quale avrebbe pregato per lui ed egli sarebbe guarito.

Di buon mattino Avimèlech chiamò Abramo e gli disse:

Che cosa ci hai fatto? In che cosa ho mancato verso di te che hai fatto cadere su di me e sul mio regno una colpa così grave? Hai fatto nei miei riguardi cose che non si debbono fare. … Quali ragioni hai avuto per far questo?

Avimèlech parla con accenti che sono propri di una persona indignata perché sa di essere dalla parte della ragione e di essere stata raggirata. La risposta di Abramo non gli fa onore, le giustificazioni che egli adduce tradiscono codardia:

Pensai: certamente qui non c’è timor di Dio; potrebbero anche uccidermi a causa di mia moglie. …

Avimèlech restituì Sara ad Abramo e lo colmò di doni in bestiame e schiavi e gli dette mille monete d’argento come indennizzo per aver rapito Sara. Abramo allora pregò Dio e Avimèlech, sua moglie e le sue ancelle che erano stati resi sterili guarirono.

Al capitolo 21 si narra della nascita di Isacco e della cacciata nel deserto di Hagar, la moglie egiziana di Abramo, con suo figlio Ismaele. Pianse Hagar, disperata e senz’acqua da dare a suo figlio, ma un Angelo del Signore la chiamò e le disse:

Che hai Hagar? Non temere, Dio ha ascoltato la voce del ragazzo là dove si trova. Alzati, tira su il ragazzo e sostienilo con forza; lo farò diventare una grande nazione.

E si aprirono gli occhi ad Hagar ed ella vide un pozzo d’acqua e diede da bere a suo figlio.

Si narra poi del pozzo del giuramento, il giuramento con cui Abramo si obbliga a conservare memoria della buona accoglienza ricevuta a Gherar. Alla località dà il nome di Beer Scèva’, che viene confermato dal giuramento di Avimèlech, il quale riconosce che quel pozzo è stato scavato da Abramo.

Il capitolo 22 è il clou della parashà, è il capitolo che ha come personaggi il Signore, Abramo e Isacco. E’ il capitolo dove si offre la percezione del limite dell’obbedienza e dell’amore dell’essere umano per il Signore. Limite che qui è fissato dal Signore, giacché Abramo ha dimostrato la disponibilità a superare qualsiasi limite al sacrificio in onore e omaggio al Signore.

E’ una storia toccante quella del sacrificio di Isacco, che è nella realtà un mancato sacrificio ma è vissuto con la drammatica intensità di un sacrificio consumato.

Prese poi le legna per l’olocausto e le caricò addosso a suo figlio Isacco, egli stesso tenne il fuoco e il coltello e ambedue insieme proseguirono il cammino. Isacco rivolto al padre disse: - Babbo – ed egli: - Eccomi qui figlio mio -. E questi: - Qui c’è il fuoco e le legna, ma l’agnello per l’olocausto dov’è? - . A cui Abramo: - Figlio mio, Dio provvederà l’agnello per l’olocasto - . ….. legò il figlio Isacco e lo mise sull’altare sopra la legna. Stese poi la mano e prese il coltello per scannare il figlio.

E qui Abramo viene fermato dall’intervento divino e la voce del Signore dice:

… non avendomi negato il tuo unico figlio, ti benedirò, renderò numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia che è sulla riva del mare, i tuoi discendenti possederanno le città dei loro nemici, e nella tua stirpe saranno benedette tutte le nazioni della terra, come ricompensa di avere tu obbedito alla Mia parola.

Chiude la parashà con le notizie di nuove nascite nella casa di Abramo.

mercoledì 2 novembre 2011

Lech-Lechà

(Gen. 12,1-17,27)

Il Signore disse ad Abramo di abbandonare il suo paese, i suoi parenti e la casa paterna per recarsi nella terra di Canaan. Abramo partì con sua moglie Sarài, con Lot figlio di suo fratello e con tutti i beni che possedeva e le persone al suo servizio. Giunse nel paese di Canaan e si fermò presso Sichem al querceto di Morè. Qui il Signore gli apparve e disse:

Ai tuoi discendenti darò questa terra.

In quel luogo Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso e si trasferì quindi verso il monte ad est di Beth-El ed anche qui eresse un altare invocando il nome del Signore.

Imperversava una grave carestia nella terra di Canaan sicché Abramo decise di rifugiarsi in Egitto, ma prima di entrare in questo paese disse a sua moglie Sarài:

So che tu sei donna di bell’aspetto; quando gli Egiziani ti vedranno diranno: - Costei è sua moglie. Uccideranno me e te lasceranno in vita. Di’ dunque che sei mia sorella affinché io possa avere, in grazia tua, il beneficio di aver salva la vita.

E così avvenne e Sarài fu portata dal Faraone, che colpito dalla bellezza della donna la prese in moglie ed inviò ad Abramo, che riteneva suo fratello, doni in bestiame e schiavi. Ma il Signore colpì il Faraone e la sua casa con gravi castighi per avere preso Sarài ed il Faraone, allora, chiamò Abramo e gli disse:

Che cosa mi hai fatto! Perché non mi hai detto che era tua moglie? Perché hai detto: E’ mia sorella.? Così io l’ho presa per moglie! Eccoti dunque tua moglie; prendila e va’.

Questo episodio suscita inevitabilmente il nostro atteggiamento critico nei confronti del comportamento di Abramo. Come si può infatti tollerare che la propria moglie sia oggetto di passioni sessuali e pensare alla propria salvezza invece che alla sua difesa? Come si possono accettare i doni procurati dalle prestazioni della propria moglie? Sono domande senza risposta, che insinuano però in noi il sospetto di un maschilismo naturalmente accettato secondo cui l’uomo maschio era esclusivo depositario della dignità umana e la donna era un corollario, un accessorio dato al maschio per soddisfarne le esigenze.

Così Abramo partì verso il Neghev e giunse a Beth-El, nel luogo dove aveva già costruito un altare e qui invocò il nome del Signore. Era adesso un uomo ricchissimo in bestiame, argento e oro ed anche Lot, suo nipote, aveva molto bestiame e molte tende e decisero di separarsi per evitare l’insorgere di questioni tra i propri rispettivi pastori perché una stessa terra non poteva bastare per tutti e due. Lot scelse la valle del Giordano e le città della pianura fino a Sodoma. Abramo si stabilì nella terra di Canaan.

Dopo che Lot si fu separato da lui, il Signore disse ad Abramo:

Alza gli occhi dal luogo ove ti trovi e guarda a settentrione, a mezzogiorno, a oriente e a occidente; tutto il paese che vedi, lo darò a te e alla tua discendenza in perpetuo. Farò la tua discendenza come la polvere della terra; se qualcuno potrà contare la polvere della terra, anche la tua discendenza si conterà. Lèvati, percorri il paese per lungo e per largo, perché lo darò a te.

Abramo piantò le tende ed andò ad abitare nel querceto di Mamrè presso Chevron, e là costruì un altare al Signore.

Al tempo di Hammurabi, re di Babilonia, avvenne che la pentapoli costituita dalle città di Sodoma, Gomorra, Admà, Tsevoim e Bèla’ nota come Tsò’ar, si ribellò allo stato di vassallaggio al re ed ai suoi alleati. Ci fu una guerra e la pentapoli venne sconfitta e le sue città vennero depredate. Lot, nipote di Abramo, che si trovava a Sodoma venne fatto anch’egli prigioniero e portato via dai vincitori.

Quando Abramo seppe della cattura di Lot armò i suoi giovani e si pose all’inseguimento dei rapitori. Li raggiunse, li sconfisse e si fece restituire Lot con tutti i suoi beni. Il re di Sodoma si offrì di ricompensare Abramo per avere egli vinto gli eserciti di Hammurabi e dei suoi alleati, ma Abramo rifiutò.

Il Signore, apparso in visione, disse ad Abramo:

Non temere, Abramo, Io ti sono scudo; la ricompensa che riceverai sarà grandissima.

Ed a questo punto Abramo tirò fuori il suo più grande cruccio:

Signore Dio, che cosa mi darai? … Non mi hai dato prole; il mio domestico sarà il mio erede.

Ma il Signore replicò:

Il tuo erede non sarà lui; ti erediterà uno che uscirà dalle tue viscere.
Osserva il cielo e conta le stelle, se puoi contarle.
Così numerosa sarà la tua discendenza.

E gli disse poi:

Io sono il Signore che ti feci uscire da Ur-Casdim per darti il possesso di questa terra.

Sappi che i tuoi discendenti dimoreranno, stranieri, in un paese non loro, che li asserviranno e li opprimeranno per quattrocento anni.

E in quel giorno il Signore stabilì con Abramo un patto dicendogli:

Alla tua discendenza ho assegnato questa terra, dal fiume d’Egitto fino al gran fiume, il fiume Eufrate. Kenei, Kenizei, Cadmonei, Chittei, Perizei, Refaei, Emorei, Cananei, Ghirgascei, Jevusei.

Anche qui dunque il Signore promette ad Abramo l’assegnazione di un territorio molto più ampio rispetto a quello compreso tra il Giordano ed il mare. A questa estensione si avvicinò e per un breve periodo il regno di Salomone. Pare di cogliere nella visione di un così vasto territorio il desiderio che possa avvenire il ricongiungimento della terra promessa con la città d’origine, quell’Ur dei Caldei da dove Abramo era partito.

Sarài, che non aveva dato figli ad Abramo, aveva una schiava egiziana di nome Hagar e propose ad Abramo, suo marito, di unirsi a lei, affinché tramite questa unione essi potessero avere un figlio. Abramo accettò e dalla sua unione con Hagar nacque un figlio al quale venne posto nome Ishma’el, il Signore ha ascoltato.

Abramo aveva novantanove anni quando il Signore gli apparve e gli disse:

Il mio patto con te è questo: tu sarai padre di numerose genti. Non ti chiamerai più Avram, il tuo nome sarà Avraham perché ti faccio padre di numerose genti.

A te ed alla tua discendenza dopo di te darò in possesso perpetuo la terra delle tue peregrinazioni, tutta la terra di Canaan, e sarò il loro Dio.

Questo è il mio patto che osserverete tra Me, voi e la tua discendenza dopo di te: di circoncidere tutti i vostri maschi. Circonciderete la carne del vostro prepuzio; questo sarà il segno del patto tra Me e voi. All’età di otto giorni, per le vostre generazioni, verranno circoncisi tutti i maschi, nati in casa o acquistati col denaro da qualsiasi straniero non appartenente alla vostra stirpe. Venga circonciso chi nasce in casa e chi è acquistato col tuo denaro; il Mio patto sia nella vostra carne un patto perpetuo. L’individuo maschio incirconciso, che non avrà circonciso la carne del suo prepuzio, verrà tagliato fuori dalle sue genti, perché avrà infranto il mio patto.

La circoncisione dei maschi è un rituale diffuso anche oggi presso molte popolazioni semitiche e risponde oltre che a dettami di natura religiosa ad esigenze di natura igienica e di vita sessuale. La circoncisione è chiamata in ebraico milah, vocabolo che vuol dire anche “parola” e che sottende un concetto di apertura.

Poi Dio disse ad Abramo:

Sarài tua moglie non chiamarla più Sarài; il suo nome sia Sara. Io la benedirò e ti darò anche da lei un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli trarranno origine da lei.

… tua moglie è per partorirti un figlio; gli porrai nome Itschac e con esso confermerò il Mio patto, patto perpetuo per la sua discendenza successiva.

Abramo aveva novantanove anni quando si circoncise ed Ismaele tredici.