domenica 28 ottobre 2012

Vayerà

(Gen.18,1-22,24)

E’ questa una parashà densa di avvenimenti notevoli e fondamentali per la formazione e lo sviluppo del popolo ebraico. Inizia il capitolo 18 con l’apparizione del Signore ad Abramo presso il querceto di Mamrè, dove egli si trovava accampato. Il Signore prende la forma di tre uomini che, inaspettatamente e nell’ora più calda del giorno, si avvicinano alla tenda. Abramo immediatamente corre loro incontro per esprimere la sua accoglienza e dice ad uno di loro:

Signor mio, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, ti prego, non passare oltre al tuo servo. Si prenderà un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Prenderò un pezzo di pane, vi ristorerete, poi proseguirete, giacché siete passati presso al vostro servo.

Segue la descrizione dei preparativi e quindi delle pietanze che vengono offerte agli ospiti:

Prese poi della crema e del latte, il vitello che aveva preparato, e pose tutto dinanzi a loro; essi mangiarono mentre egli stava in piedi vicino a loro sotto l’albero.

E qui non possiamo esimerci dal constatare che il pasto non è certamente conforme a quelle che sarebbero poi diventate le regole della kasherut. Infatti non si sarebbero mai potuti presentare insieme nello stesso pasto latte e carne. Ma i precetti della kasherut saranno emanati solamente molto tempo dopo e quindi, al tempo di Abramo non sussisteva per questo nessuna violazione.

Potremmo chiederci inoltre perché siano tre gli uomini che si presentano ad Abramo e se tra essi vi sia una distinzione o se il loro numero derivi dalle particolari funzioni che si accingono a svolgere. Vedremo presto che una delle tre figure è emanazione del Signore mentre le altre due sono Angeli. Il dialogo con Abramo vede le tre figure parlare all’unisono, come un’unica persona, fintantoché ci si ferma ai convenevoli di accoglienza. Non appena però vengono toccati argomenti profetici uno solo esprimerà la voce del Signore.

Uno di essi disse: Tornerò da te di qui a un anno e allora tua moglie Sara avrà un figlio.

E poi ancora, dopo che Sara ebbe riso ascoltando queste parole, il Signore disse ad Abramo:

Perché Sara ha riso pensando: E’ proprio vero che io così vecchia possa partorire? C’è cosa impossibile per il Signore? Da qui ad un anno tornerò da te e Sara avrà già un figlio.

Ed ancora uno solo di loro comunicò ad Abramo le lamentele che pervenivano a causa delle colpe gravi di Sodoma e Gomorra e la determinazione che aveva conseguentemente assunto di intervenire direttamente, prendendo in esame i comportamenti degli abitanti delle due città.

Mentre gli altri due, gli Angeli, partirono verso Sodoma il Signore si trattenne presso Abramo. Ed Abramo, rimuginando su quanto il Signore gli aveva detto, si fece avanti e disse:

Vorrai sterminare col malvagio anche il giusto? Forse ci saranno nella città cinquanta giusti e tuttavia distruggerai e non risparmierai il paese in grazia dei cinquanta giusti che vi si trovano?

Il Signore rassicurò Abramo e gli disse che se avesse trovato cinquanta giusti avrebbe certamente risparmiato la città. Ma ecco che subito dopo sorsero in Abramo dubbi sul fatto che nella città potessero esserci effettivamente cinquanta giusti e qui si innescò tra lui ed il Signore un gioco per così dire al ribasso per cui il numero minimo dei giusti da trovare passò da almeno cinquanta, ad almeno quarantacinque, poi quaranta, trenta, venti e si chiuse a dieci, quando il Signore disse:

Non distruggerò in grazia dei dieci.

Nel frattempo i due Angeli giunsero a Sodoma. Quando li vide arrivare Lot andò loro incontro, si prostrò a terra e li invitò nella sua casa ed insistette fintanto che essi non accettarono l’ospitalità che egli offriva loro. Gli abitanti di Sodoma però, che in qualche modo erano venuti a conoscenza del motivo della visita dei due personaggi, circondarono la casa di Lot e, minacciando di linciare Lot, la sua famiglia e gli stessi Angeli messaggeri, così recriminavano:

Uno solo che è venuto qui, forestiero, si permette di fare da giudice! Ora faremo male a te più che a loro.

Ma gli Angeli intervennero abbagliando la vista di quanti erano attorno alla casa e portarono con sé fuori dalla città Lot, sua moglie e le loro due figlie. Uno degli Angeli disse loro di mettersi in salvo senza mai fermarsi per guardare indietro. Lot chiese al Signore di poter trovare rifugio nel piccolo paese di Tsò’ar e ne ebbe l’assenso.

Il Signore allora fece piovere zolfo e fuoco su Sodoma e Gomorra e le due città, con tutti i loro abitanti e la vegetazione del suolo furono incenerite. La moglie di Lot si girò a guardare e divenne statua di sale. Lot ebbe timore e partì da Tsò’ar con le sue due figlie. Si fermarono in una grotta per pernottare e qui la maggiore delle sue due figlie disse all’altra:

Nostro padre è vecchio, e nel paese non c’è nessuno che, come è regolare, possa coabitare con noi. Diamo dunque da bere del vino a nostro padre, corichiamoci con lui, e così avremo figli da lui.

Così fecero e la prima notte toccò alla maggiore, la notte successiva alla minore. Lot non si accorse di nulla. Entrambe le ragazze rimasero incinte e avrebbero poi partorito la maggiore Moav, capostipite dei Moabiti, la minore Ben-‘Ammì, capostipite degli Ammoniti.

In questo modo l’incesto viene ad essere giustificato dalla necessità di assecondare la volontà del Signore dando vita alle due stirpi con le quali il popolo ebraico avrà poi decisivi contatti fino all’ingresso nella terra promessa. Insomma qui è la ragion di Stato, per così dire, che giustifica sia l’incesto, sia l’inganno ai danni del padre, rimasto inconsapevole dell’accaduto. E’ un po’ come la contessa di Castiglione che andrà a letto con Napoleone III sacrificando il suo onore, per la salvezza dell’Italia.

Al capitolo 20 ritorniamo ad Abramo, che nel frattempo si era rimesso in marcia ed era giunto a Gherar, città filistea a nord-est di Gaza. E qui Abramo ancora una volta mette in atto il solito odioso inganno riguardante sua moglie Sara, che viene presentata ancora come sua sorella agli abitanti del luogo e non già come sua moglie. E questo fece Abramo per salvare la propria pelle, che credeva in pericolo. La vicenda qui è molto meno credibile rispetto all’episodio precedente con il Faraone. Qui accade che Avimèlech, re di Gherar, mandò a prendere Sara, che era una donna, sia pure avvenente, ma ormai sfiorita per l’età molto avanzata. Allora il Signore apparve in sogno ad Avimèlech e gli disse:

Tu morrai a causa della donna che hai preso, poiché è maritata.

Ma Avimèlech, che a questo punto era stato reso sterile, espresse le sue rimostranze al Signore, facendo presente di non aver toccato la donna e che comunque egli l’aveva mandata a prendere perché aveva ritenuto che fosse la sorella di Abramo e non sapeva che fosse sua moglie. Sempre nel sogno il Signore lo tranquillizzò riconoscendo che aveva agito così per ingenuità. Doveva però restituire la donna al marito il quale avrebbe pregato per lui ed egli sarebbe guarito.

Di buon mattino Avimèlech chiamò Abramo e gli disse:

Che cosa ci hai fatto? In che cosa ho mancato verso di te che hai fatto cadere su di me e sul mio regno una colpa così grave? Hai fatto nei miei riguardi cose che non si debbono fare. … Quali ragioni hai avuto per far questo?

Avimèlech parla con accenti che sono propri di una persona indignata perché sa di essere dalla parte della ragione e di essere stato raggirato. La risposta di Abramo non gli fa onore, le giustificazioni che egli adduce tradiscono codardia:

Pensai: certamente qui non c’è timor di Dio; potrebbero anche uccidermi a causa di mia moglie. …

Avimèlech restituì Sara ad Abramo e lo colmò di doni in bestiame e schiavi e gli dette mille monete d’argento come indennizzo per aver rapito Sara. Abramo allora pregò Dio e Avimèlech, sua moglie e le sue ancelle che erano stati resi sterili guarirono.

Al capitolo 21 si narra della nascita di Isacco e della cacciata nel deserto di Hagar, la moglie egiziana di Abramo, con suo figlio Ismaele. Pianse Hagar, disperata e senz’acqua da dare a suo figlio, ma un Angelo del Signore la chiamò e le disse:

Che hai Hagar? Non temere, Dio ha ascoltato la voce del ragazzo là dove si trova. Alzati, tira su il ragazzo e sostienilo con forza; lo farò diventare una grande nazione.

E si aprirono gli occhi ad Hagar ed ella vide un pozzo d’acqua e diede da bere a suo figlio.

Si narra poi del pozzo del giuramento, il giuramento con cui Abramo si obbliga a conservare memoria della buona accoglienza ricevuta a Gherar. Alla località dà il nome di Beer Scèva’, che viene confermato dal giuramento di Avimèlech, il quale riconosce che quel pozzo è stato scavato da Abramo.

Il capitolo 22 è il “clou” della parashà. Il capitolo che ha come personaggi il Signore, Abramo e Isacco. E’ il capitolo dove si offre la percezione del limite dell’obbedienza e dell’amore dell’essere umano per il Signore. Limite che qui è fissato dal Signore, giacché Abramo ha dimostrato la disponibilità a superare qualsiasi limite al sacrificio in onore e omaggio al Signore.

E’ una storia toccante quella del sacrificio di Isacco, che è nella realtà un mancato sacrificio ma è vissuto con la drammatica intensità di un sacrificio consumato.

Prese poi le legna per l’olocausto e le caricò addosso a suo figlio Isacco, egli stesso tenne il fuoco e il coltello e ambedue insieme proseguirono il cammino. Isacco rivolto al padre disse: - Babbo – ed egli: - Eccomi qui figlio mio -. E questi: - Qui c’è il fuoco e le legna, ma l’agnello per l’olocausto dov’è? - . A cui Abramo: - Figlio mio, Dio provvederà l’agnello per l’olocausto - . ….. legò il figlio Isacco e lo mise sull’altare sopra la legna. Stese poi la mano e prese il coltello per scannare il figlio.

E qui Abramo viene fermato dall’intervento divino e la voce del Signore dice:

… non avendomi negato il tuo unico figlio, ti benedirò, renderò numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia che è sulla riva del mare, i tuoi discendenti possederanno le città dei loro nemici, e nella tua stirpe saranno benedette tutte le nazioni della terra, come ricompensa di avere tu obbedito alla Mia parola.

Si conclude la parashà con le notizie di nuove nascite nella casa di Abramo.


Haftarà di Vayerà
(estratto da 2Re 4,1-4,37)

Protagoniste dei due episodi tratti dal secondo libro dei Re sono due donne, che nelle circostanze più dolorose ed avverse scelgono la fiducia nel Signore, contro ogni pregiudizio razionale, affidandosi completamente alla Sua volontà.

La Sciunamita, protagonista del secondo episodio, dimostrerà in particolare una fiducia nel Signore che va oltre l’irrimediabilità della morte, con spirito di modestia e senza pretese e per questo sarà premiata, per questo il Signore le mostrerà che anche la morte può essere vinta dalla fiducia in Lui.

*****
La prima delle due donne implorò Eliseo dicendo:

Mio marito, tuo servo, è morto, e tu sai che egli era timorato del Signore, e il creditore è venuto per prendere come schiavi i miei due figli.

Le chiese Eliseo cosa potesse fare per lei e cosa avesse in casa per soddisfare il creditore. Ella rispose che in casa aveva solamente un’ampolla d’olio. Le disse allora Eliseo di procurarsi in prestito dai suoi vicini molti recipienti vuoti e di riempirli poi, a casa sua, con l’olio dell’ampolla. La donna eseguì quanto Eliseo le aveva detto, senza obiettare che l’olio dell’ampolla non sarebbe certamente bastato a riempire tutti i recipienti. Ed ella per la sua fiducia nel Signore venne premiata perché con l’olio dell’ampolla furono riempiti tutti i recipienti e ne avanzò ancora. Andò la donna da Eliseo per riferirgli quanto accaduto ed egli le disse:

Va’ a vendere l’olio, paga il tuo debito, e tu ed i tuoi figli vivrete con quello che avanzerà.

*****
Quando Eliseo passava per Sciunem, un paese situato a sud del monte Tabor, si fermava a mangiare presso una donna che ogni volta si era dimostrata ben lieta di accoglierlo alla sua mensa. La donna un giorno parlò con il marito, dicendogli che avrebbero potuto anche far pernottare da loro il sant’uomo, riservandogli una stanza al primo piano della loro casa. Il marito fu d’accordo ed essi prepararono la stanza per Eliseo. La volta successiva Eliseo accettò l’offerta della donna e pernottò presso di loro. Il mattino seguente Eliseo fece chiamare la Sciunamita dal suo servo Ghechazì e le chiese in qual modo potesse ricompensarla per l’ospitalità della quale aveva goduto. Poiché la donna si scherniva e non rispondeva alla domanda, Eliseo si consigliò con il suo servo Ghechazì dal quale seppe che marito e moglie, ormai entrambi in età avanzata, non avevano figli. Eliseo chiamò allora la donna e le disse:

Fra un anno, in questa stagione, tu abbraccerai un figlio.

E la donna:

No, mio signore, uomo di D-o, non dare alla tua serva una vana illusione.

La donna rimase incinta e, un anno dopo, dette alla luce un bambino. Diventato grande, il fanciullo si trovava un giorno con il padre in mezzo ai mietitori, quando improvvisamente fu colto da un malessere e venne riportato a casa, dove nonostante le cure prestatigli da sua madre, morì prima del mezzogiorno. La Sciunamita disse allora al marito:

Mandami un servo ed un’asina perché io voglio fare una corsa fino all’uomo di D-o, e poi ritornerò.

Andò la donna da Eliseo ed egli, quando seppe ciò che era accaduto, dette il suo bastone al servo Ghechazì e gli disse di precederlo a casa della donna e che, qui giunto, mettesse il bastone sulla faccia del fanciullo. Egli e la donna sarebbero arrivati subito dopo. Il servo eseguì quanto gli era stato comandato e tornò subito incontro ad Eliseo per dirgli che il fanciullo non si era svegliato.

Eliseo, giunto a casa della donna, vide il fanciullo morto, disteso sul suo letto, e si sdraiò su di lui, bocca a bocca, occhi ad occhi, riscaldandone tutto il corpo. Poi si mosse su e giù per la stanza e di nuovo salì sul letto e si sdraiò sul fanciullo, che questa voltà starnutì. Starnutì sette volte il fanciullo ed aprì gli occhi.
Eliseo disse alla Sciunamita:

Prendi tuo figlio.

Ed ella si prostrò ai piedi del profeta e quindi prese suo figlio ed uscì.

domenica 21 ottobre 2012

Lech Lechà

(Gen. 12,1-17,27)

Il Signore disse ad Abramo di abbandonare il suo paese, i suoi parenti e la casa paterna per recarsi nella terra di Canaan. Abramo obbedì e partì con sua moglie Sarài, con Lot, figlio di suo fratello, e con tutti i beni che possedeva e le persone al suo servizio. Giunse nel paese di Canaan e si fermò presso Sichem al querceto di Morè. Qui il Signore gli apparve e disse:

Ai tuoi discendenti darò questa terra.

In quel luogo Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso e quindi si diresse verso il monte ad est di Beth-El ed anche qui eresse un altare invocando il nome del Signore.

Imperversava una grave carestia nella terra di Canaan sicché Abramo decise di rifugiarsi in Egitto, ma prima di entrare in questo paese disse a sua moglie Sarài:

So che tu sei donna di bell’aspetto; quando gli Egiziani ti vedranno diranno: ‘Costei è sua moglie.’ Uccideranno me e te lasceranno in vita. Di’ dunque che sei mia sorella affinché io possa avere, in grazia tua, il beneficio di aver salva la vita.

E così avvenne e Sarài fu portata dal Faraone, che colpito dalla bellezza della donna la prese in moglie ed inviò ad Abramo, che riteneva suo fratello, doni in bestiame e schiavi. Ma il Signore colpì il Faraone e la sua casa con gravi castighi per avere preso Sarài ed il Faraone, allora, venuto a sapere come realmente stavano le cose, chiamò Abramo e gli disse:

Che cosa mi hai fatto! Perché non mi hai detto che era tua moglie? Perché hai detto: ‘E’ mia sorella.?’ Così io l’ho presa per moglie! Eccoti dunque tua moglie; prendila e va’.

Questo episodio suscita i nostri inevitabili commenti critici nei confronti del comportamento di Abramo. Come si può infatti tollerare che la propria moglie sia oggetto di passioni sessuali e pensare alla propria salvezza invece che alla sua difesa? Come si possono accettare i doni procurati dalle prestazioni della propria moglie? Sono domande senza risposta, che insinuano però in noi il sospetto di un maschilismo naturalmente accettato nella società dell’epoca, secondo cui l’uomo maschio era l’esclusivo depositario della dignità umana e la donna ne era un corollario, un accessorio dato al maschio per soddisfarne le sue esigenze.

Così Abramo partì verso il Neghev e giunse a Beth-El, nel luogo dove aveva già costruito un altare e qui invocò il nome del Signore. Era adesso un uomo ricchissimo in bestiame, argento e oro ed anche Lot, suo nipote, aveva molto bestiame e molte tende e decisero di separarsi per evitare l’insorgere di questioni tra i propri rispettivi pastori perché una stessa terra non poteva bastare per tutti e due. Lot scelse la valle del Giordano e le città della pianura fino a Sodoma. Abramo si stabilì nella terra di Canaan.

Dopo che Lot si fu separato da lui, il Signore disse ad Abramo:

Alza gli occhi dal luogo ove ti trovi e guarda a settentrione, a mezzogiorno, a oriente e a occidente; tutto il paese che vedi, lo darò a te e alla tua discendenza in perpetuo. Farò la tua discendenza come la polvere della terra; se qualcuno potrà contare la polvere della terra, anche la tua discendenza si conterà. Lèvati, percorri il paese per lungo e per largo, perché lo darò a te.

Abramo piantò le tende ed andò ad abitare nel querceto di Mamrè presso Chevron, e là costruì ancora un altare al Signore.

Al tempo di Hammurabi, re di Babilonia, avvenne che la pentapoli costituita dalle città di Sodoma, Gomorra, Admà, Tsevoim e Bèla’ nota come Tsò’ar, si ribellasse allo stato di vassallaggio al re ed ai suoi alleati. Ci fu una guerra e la pentapoli venne sconfitta e le sue città vennero depredate. Lot, nipote di Abramo, che si trovava a Sodoma venne fatto anch’egli prigioniero e portato via dai vincitori.

Quando Abramo seppe della cattura di Lot armò i suoi giovani e si pose all’inseguimento dei rapitori. Li raggiunse, li sconfisse e si fece restituire Lot con tutti i suoi beni. Il re di Sodoma si offrì di ricompensare Abramo per avere egli vinto gli eserciti di Hammurabi e dei suoi alleati, ma Abramo rifiutò.

Il Signore, apparso in visione ad Abramo, disse:

Non temere, Abramo, Io ti sono scudo; la ricompensa che riceverai sarà grandissima.

Ma a questo punto Abramo tirò fuori quello che era il suo più grande cruccio:

Signore Dio, che cosa mi darai? … Non mi hai dato prole; il mio domestico sarà il mio erede.

Ed il Signore replicò:

Il tuo erede non sarà lui; ti erediterà uno che uscirà dalle tue viscere.
Osserva il cielo e conta le stelle, se puoi contarle.
Così numerosa sarà la tua discendenza.

E poi aggiunse:

Io sono il Signore che ti feci uscire da Ur-Casdim per darti il possesso di questa terra.

Sappi che i tuoi discendenti dimoreranno, stranieri, in un paese non loro, che li asserviranno e li opprimeranno per quattrocento anni.

E in quel giorno il Signore stabilì con Abramo un patto dicendogli:

Alla tua discendenza ho assegnato questa terra, dal fiume d’Egitto fino al gran fiume, il fiume Eufrate. E’ la terra ora abitata da Kenei, Kenizei, Cadmonei, Chittei, Perizei, Refaei, Emorei, Cananei, Ghirgascei, Jevusei.

Anche qui dunque il Signore promette ad Abramo l’assegnazione di un territorio molto più ampio rispetto a quello compreso tra il Giordano ed il mare, che sarà quello della terra di Canaan. A questa maggiore estensione si avvicinò, per un breve periodo, il regno di Salomone. Pare di cogliere nella visione di un così vasto territorio il desiderio che possa avvenire il ricongiungimento della terra promessa con la città d’origine, quell’Ur dei Caldei da dove Abramo era partito, oppure ancora l’estensione del territorio promesso potrebbe interpretarsi come corrispondente a tutto il mondo allora conosciuto, comprendente quindi anche i territori delle grandi potenze dell’epoca, l’Assiria e L’Egitto, e quindi, in tal modo, in buona sostanza, la promessa acquisirebbe la valenza universale di un’espansione di Israele su tutta la terra.

Sarài, che non aveva dato figli ad Abramo, aveva una schiava egiziana di nome Hagar e propose ad Abramo, suo marito, di unirsi a lei, affinché tramite questa unione essi potessero avere un figlio. Abramo accettò e dalla sua unione con Hagar nacque un figlio al quale venne posto nome Ishma’el, che significa ‘il Signore ha ascoltato’.

Ma i rapporti tra Sarài e Hagar presto ebbero a guastarsi, poiché Hagar era insuperbita per avere generato un figlio ad Abramo, mentre la moglie legittima si era rivelata sterile. Sarài si risentì per questo mutato atteggiamento della schiava nei suoi confronti e, con il consenso del marito Abramo, la trattò così crudamente da indurla a fuggire nel deserto con suo figlio Ismaele. Un messo del Signore trovò Hagar nel deserto, presso la fonte di Sciur, e le disse di tornare dalla sua signora, restando a lei sottomessa, e aggiunse:

"Farò la tua discendenza tanto numerosa che non si potrà contare."

La discendenza di Hagar, attraverso Ismaele, darà luogo alle tribù beduine del deserto ed alla nazione araba.

Abramo aveva novantanove anni quando il Signore gli apparve e gli disse:

Il mio patto con te è questo: tu sarai padre di numerose genti. Non ti chiamerai più Avram, il tuo nome sarà Avraham perché ti faccio padre di numerose genti.

A te ed alla tua discendenza dopo di te darò in possesso perpetuo la terra delle tue peregrinazioni, tutta la terra di Canaan, e sarò il loro Dio.

Questo è il mio patto che osserverete tra Me, voi e la tua discendenza dopo di te: di circoncidere tutti i vostri maschi. Circonciderete la carne del vostro prepuzio; questo sarà il segno del patto tra Me e voi. All’età di otto giorni, per le vostre generazioni, verranno circoncisi tutti i maschi, nati in casa o acquistati col denaro da qualsiasi straniero non appartenente alla vostra stirpe. Venga circonciso chi nasce in casa e chi è acquistato col tuo denaro; il Mio patto sia nella vostra carne un patto perpetuo. L’individuo maschio incirconciso, che non avrà circonciso la carne del suo prepuzio, verrà tagliato fuori dalle sue genti, perché avrà infranto il mio patto.

La circoncisione dei maschi è un rituale diffuso ancora oggi presso molte popolazioni semitiche e di fede islamica e risponde, oltre che a dettami di natura religiosa, ad esigenze di natura igienica e di vita sessuale. La circoncisione è chiamata in ebraico milah, vocabolo che vuol dire anche “parola” e che sottende un concetto di apertura.

Poi Dio disse ad Abramo:

Sarài tua moglie non chiamarla più Sarài; il suo nome sia Sara. Io la benedirò e ti darò anche da lei un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli trarranno origine da lei.

… tua moglie è per partorirti un figlio; gli porrai nome Itschac e con esso confermerò il Mio patto, patto perpetuo per la sua discendenza successiva.

Abramo aveva novantanove anni quando si circoncise ed Ismaele tredici.



Haftarà di Lech Lechà
(estratto da Is.40,25-41,17)

Perché dunque Giacobbe dice, Israele afferma: ‘Occulto al Signore è il mio stato, dal mio D-o è trascurato il mio diritto?’. Ma non sai tu, non hai tu inteso che l’Eterno D-o, Creatore del mondo fino alle sue estremità, non si stanca e non si affatica, che non ha limiti la Sua intelligenza? Egli dà forza allo stanco, aggiunge vigore all’impotente. Possono si stancarsi e affaticarsi i ragazzi, possono inciampare i giovani, ma coloro che sperano nel Signore vanno di mano in mano sempre acquistando nuove forze, alzano le loro ali come aquile, corrono e non si affaticano, camminano e non si stancano.

“E tu, Israele mio servo, Giacobbe che Io ho prescelto, discendenza di Abramo che Mi amava, tu, che Io ho preso dalle stremità della terra, che ho chiamato da in mezzo ai più nobili dei suoi abitanti ed al quale ho detto: ‘Tu sei mio servo, ti ho prescelto e non ti ho respinto.’, non temere, perché Io sono con te, non turbarti, perché Io sono il tuo D-o, ti ho dato forza e inoltre ti ho aiutato e ti ho sostenuto con la Mia destra che fa giustizia. Ecco, saranno delusi e svergognati tutti quelli che si adirano contro di te, saranno ridotti al nulla e periranno coloro che contendono con te.

domenica 14 ottobre 2012

Nòah

(Gen.6,9-11,32)

Questa parashà racconta di due episodi per così dire “meravigliosi” della narrazione biblica: il diluvio universale e la torre di Babele. “Meravigliosi” perché suscitano stupore, timore, meraviglia, perché cancellano le imprese dell’uomo, perché ci mettono di fronte alle forze incontenibili della natura, alle quali nessuna opera umana è in grado di resistere. Perché la presunzione umana ne esce umiliata e distrutta.

La storia del diluvio universale appartiene anche ad altre culture diverse dall’ebraica e molti studiosi sono inclini ad ipotizzare che effettivamente possa essere avvenuto in tempi remoti un cataclisma naturale di portata straordinaria e tale da aver severamente minacciato l’esistenza umana.

Del resto anche al giorno d’oggi si verificano purtroppo calamità naturali come inondazioni, piogge torrenziali, maremoti, quelli che abbiamo imparato a chiamare tzunami, che evidenziano la fragilità e l’impotenza degli esseri viventi di fronte alla forza incontrastabile che le acque possono arrivare ad assumere.

Questa consapevolezza di impotenza può avere alimentato la diffusione ed il consolidamento del mito del diluvio universale. Peraltro la narrazione biblica, letta come narrazione morale, prospetta il diluvio come la catastrofe che viene scatenata per punire i mali che l’uomo ha prodotto nel mondo. Dio infatti disse a Noè:

Ho decretato la fine di tutte le creature, perché per esse la terra è piena di violenza; ed Io le distruggerò con la terra stessa.

E’ interessante evidenziare che non è solo per l’essere umano che si decreta la fine, ma per tutte le creature e più avanti si dirà:

Perì ogni creatura che si muoveva sulla terra; i volatili, gli animali domestici e selvatici, i rettili striscianti sulla terra; e tutte le persone.

Tutti quindi accomunati dalla violenza della quale avevano riempito la terra. E la riprova che tutti siano colpevoli sta nel fatto che tutti saranno sostituiti perché nell’arca troveranno rifugio, non solo Noè ed i suoi familiari, ma anche gli esemplari animali di tutte le specie:

… di animali selvatici e domestici, tutte le specie di rettili striscianti sulla terra, tutte le varie specie di volatili, tutti gli uccelli, tutti gli animali forniti di ali;

Non ci sono i pesci nell’arca e quindi i pesci esistenti al momento del diluvio sembra proprio che siano stati destinati a sopravvivere.

Il diluvio, questo gigantesco mikveh purifica tutto e da esso emergono i sopravvissuti mondati da colpe per ricominciare una nuova vita.

L’arcobaleno, qeshet, creato dal Signore, come un ponte scintillante di luce tra Lui e la terra è il segno tangibile del patto che Egli ha stretto con la terra:

Pongo nelle nuvole il mio arco che sarà il segno del patto tra me e la terra. Quando farò addensare le nubi sopra la terra, si vedrà l’arcobaleno nelle nubi; ed Io ricorderò il mio patto tra Me, voi ed ogni essere vivente, ogni creatura, né più le acque produrranno un diluvio per distruggere tutte le creature. L’arcobaleno sarà nelle nuvole, ed Io lo vedrò per ricordare il patto perpetuo esistente tra Dio e tutti gli esseri viventi, fra tutte le creature esistenti sulla terra.

Dio disse a Noè:

Questo è il segno del patto che fermo fra Me e tutte le creature esistenti sulla terra.

Per l’altro episodio “meraviglioso”, quello che riguarda la torre di Babele, al capitolo 10 si dice della discendenza di Noè ed in particolare dei figli di Jèfeth:

… si diramarono nelle loro terre le nazioni d’oltremare aventi ciascuna la propria lingua, diverse per famiglie nelle varie nazioni.

E più avanti:

Questi sono i figli di Cham per famiglie e linguaggi, nei loro paesi, nelle rispettive nazioni.

E ancora:

Questi sono i figli di Scem per famiglie e linguaggi, nei loro paesi, nelle rispettive nazioni.

Esisteva quindi, secondo quanto detto al capitolo 10, una pluralità di linguaggi ma questo viene contraddetto al successivo capitolo 11 dove si dice:

In tutta la terra si parlava una lingua unica e si usavano le stesse espressioni.

Gli esperti biblisti dicono che la contraddizione va intesa come apparente, che la successione dei capitoli è stata fissata dopo molto tempo da quando furono scritti e che il loro ordine di successione può interpretarsi in senso inverso.
Oppure può intendersi che la narrazione della torre di Babele ci spiega nella sua sequenza come si sia arrivati al pluralismo linguistico.

Gli uomini, arrivati nella pianura di Scin’ar, si dicono:

Orsù fabbrichiamoci dei mattoni e facciamoli cuocere.

E poi, ancora:

Orsù fabbrichiamoci una città e una torre la cui cima arrivi fino al cielo; ci faremo un nome e non accadrà che ci sparpagliamo sulla faccia di tutta la terra.

A questo punto il Signore scese a vedere cosa stavano facendo e disse:

Sono un popolo solo, parlano tutti la stesa lingua e hanno cominciato a fare questo! Niente impedirà loro di fare tutto ciò che proporranno. Orsù scendiamo e confondiamo la loro lingua, si ché uno non comprenda quel che dice l’altro.

Il Signore li disperse su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di fabbricare la città, alla quale fu dato il nome di Bavel, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra.

Ci chiediamo a questo punto quale sia stata la colpa dei costruttori di Babele, sempre che la molteplicità delle lingue e la dispersione siano da intendersi come provvedimenti punitivi. Una corrente di pensiero, infatti, non attribuisce a questi due elementi i connotati di punizione impartita dal Signore ai costruttori, bensì quelli di una scelta operata dal Signore per conseguire la molteplicità della popolazione del mondo.

Se invece intendiamo cogliere nelle parole del Signore la volontà punitiva è necessario individuare quale sia stata la colpa. La colpa non è stata fare i mattoni, la colpa non è neanche stata quella di costruire la città, anche se qui si comincia a vedere un’intenzione di accorpamento che in un certo senso contravviene al dettato del Signore, che invece comanda l’espansione:

“Prolificate e moltiplicatevi ed empite la terra.”

Neanche la costruzione della torre è di per sé la colpa, giacché la costruzione della torre potrebbe mirare a conseguire un avvicinamento al Signore, cosa di per sé naturale ed anzi lodevole da parte di una creatura nei confronti del suo creatore.

Se invece la torre ha lo scopo di dominare dall’alto la terra e chi è rimasto in basso, alimentando la propria autorità e la propria potenza sicché essi possano dire:

… ci faremo un nome e non accadrà che ci sparpaglino sulla faccia di tutta la terra.

In questo caso la torre rivela l’ambizione non già di avvicinarsi al Signore, ma di competere con Lui e la costruzione diventa così la colpa dei suoi costruttori, idolatria ancora una volta, perché espressione del culto non verso il Signore, ma verso la potenza umana. Per questa colpa i costruttori sono stati confusi e dispersi.



Haftarà di Nòah
(Is.54,1-55,5)

Inneggia o sterile, che non avevi partorito; emetti grida di gioia e giubila, tu che non avevi avuto le doglie, perché i figli di colei che era solitaria saranno più numerosi di quelli di colei che ha marito, ha detto il Signore.

La sposa della giovinezza potrebbe forse venire ripudiata? Dice il tuo Dio: Per un breve istante Io ti ho abbandonata, ma con grande misericordia ti raccoglierò. In un impeto d’ira ti ho per un istante nascosto la Mia faccia, ma con favore eterno avrò pietà di te, detto del Signore. Sarà per Me come le acque di Noè: come ho giurato che le acque di Noè non passeranno più sulla terra, così ho giurato che non Mi sdegnerò più contro di te né più ti minaccerò.

Ecco Io ti ho costituito come testimonio alle nazioni, principe e comandante alle nazioni. Gente che non conoscevi tu chiamerai, popoli che non ti conoscevano a te correranno, in grazia del Signore tuo Dio, e del Santo d’Israele che a te dà gloria.

lunedì 8 ottobre 2012

Bereshit

(Gen. 1,1 – 2,3)

Questa parashà dà inizio al nuovo ciclo annuale di lettura della Toràh, e viene letta, una prima volta, in occasione della festività di Simchat Toràh ed una seconda volta il primo shabbat successivo Nel primo capitolo si narra dei primi sei giorni della creazione, che si dice avvenne in questa sequenza:

1° Giorno - Sulla terra sterminata, vuota e immersa nelle tenebre Dio disse: “Sia luce e luce fu.” Egli vide che era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò giorno la luce e notte le tenebre.

2° Giorno - Dio disse: “Sia una distesa in mezzo alle acque che separi le une dalle altre.” Le acque furono separate e Dio chiamò cielo le acque al di sopra della distesa.

3° Giorno – Dio disse: “Si riuniscano le acque che sono al di sotto del cielo in un sol luogo sì che apparisca l’asciutto.” Così fu e Dio chiamò l’asciutto terra e mari l’ammasso delle acque. Dio vide che era cosa buona e disse: “La terra produca germogli, erbe che facciano seme, alberi da frutto che diano frutti ciascuno della propria specie, contenenti il loro seme, sulla terra.” Così fu e Dio vide che era cosa buona.

4° Giorno – Dio disse: “Siano luminari nella distesa del cielo per far distinzione tra il giorno e la notte; siano anche indici per le stagioni, per i giorni e per gli anni. Funzionino come luminari nella distesa del cielo per far luce sulla terra.” E così fu.

5° Giorno – Dio disse: “Brulichino le acque di un brulicame di esseri viventi; volatili volino sulla terra, sulla superficie della distesa celeste.” Ed Egli creò gli esseri viventi che popolano le acque e creò i volatili delle diverse specie. Dio vide che era cosa buona e disse:” Prolificate, moltiplicatevi, empite le acque dei mari; il volatile si moltiplichi sulla terra.”

6° Giorno – Dio disse: “La terra produca esseri viventi di specie varie, animali domestici, rettili e bestie selvatiche di specie diversa.” E così fu. Dio fece ogni specie di animali e vide che era cosa buona. Dio disse poi: “Facciamo un uomo a immagine nostra, a nostra somiglianza; domini sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sugli animali domestici, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra.” Dio creò l’uomo a Sua immagine; lo creò a immagine di Dio; creò maschio e femmina, li benedisse e disse loro: “Prolificate, moltiplicatevi, empite la terra e rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare, sui volatili del cielo e su tutti gli animali che si muovono sulla terra.” Dio disse: “Ecco, Io vi do tutte le erbe che fanno seme, che sono sulla faccia di tutta la terra, tutti gli alberi che danno frutto d’albero producente seme; vi serviranno come cibo. Agli animali tutti della terra, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli striscianti sulla terra che hanno un afflato di vita, tutte le erbe verdi serviranno di cibo.” E così fu. Dio vide che tutto quello che aveva fatto era molto buono.

Questo primo capitolo così denso di avvenimenti prodigiosi merita alcune riflessioni prima di procedere oltre nella narrazione. Ogni atto creativo compiuto dal Signore è preannunciato dalle parole: Iddio disse, che non significa semplicemente volle, perché altrimenti così sarebbe stato scritto al posto di questo reiterato disse, ripetuto tante volte affinché fosse inequivocabile che la parola è questa e non un’altra. E questo disse è ogni volta seguito da e così fu. Perché è il disse che materializza la creazione, e al disse che segue sempre, conseguentemente, e così fu.

La parola è lo strumento che attua la volontà creatrice.
Quanto è importante la parola per il popolo ebraico, quanto per il popolo del Libro! La parola e la scrittura, la legge e la tradizione, La Toràh ed il Talmud, L’Aggadah e la Halachah.

E ogni volta che crea il Signore giudica il risultato e constata che sia cosa buona prima di consentirne la proliferazione, come se il creato, una volta iniziata la sua esistenza, si fosse in parte sottratto al totale controllo della volontà creatrice; come se il creato, nel momento della sua creazione, una volta coagulatosi e separatosi dalla massa indistinta, avesse acquisito un certo qual grado di autonomia.

Il sesto giorno avviene la creazione dell’uomo, maschio e femmina, l’unico del quale si dice che fu creato ad immagine di Dio. Non poteva essere altrimenti se il Signore desiderava che questa creatura fosse in grado di accostarsi a Lui. Tutti i requisiti che l’essere umano possiede risiedono nel Signore, ma non tutti i requisiti del Signore risiedono anche nell’essere umano.

Si chiude il primo capitolo con l’affermazione che l’essere umano, così come tutti gli animali, si nutrirà di specie vegetali.

All’inizio del secondo capitolo si dice che il Signore, che aveva completato la Sua opera, nel settimo giorno cessò da tutta la Sua opera e “benedisse il settimo giorno e lo santificò, poiché in esso aveva cessato tutta la Sua opera che egli stesso aveva creato per poi elaborarla”.

Parrebbe allora, a prima vista, di poter dire che i giorni della creazione sono in effetti sei perché è scritto che nel settimo giorno il Signore aveva cessato la Sua opera, opera culminata nella creazione dell’essere umano. Ma questa sarebbe una visione miope ed errata perché invece l’opera del Signore culmina proprio nel settimo giorno con la creazione del Sabato, che viene benedetto e santificato. Il Signore, pur avendo posto l’essere umano in posizione di predominio sul creato, non benedice e santifica lui bensì benedice e santifica il giorno del compimento, il giorno del non lavoro, che non è un giorno creato per il riposo, ma il giorno creato per essere dedicato al Signore: lo Shabbat è la finalità della creazione.



Haftarà di Bereshit
(Is.42,1-43,10)

Quando passerai per le acque sarò con te, quando passerai nei fiumi questi non ti travolgeranno, quando andrai nel fuoco non ne sarai bruciato, la fiamma non arderà in te. Perché Io sono il Signore tuo Dio, Santo d’Israele, tuo Salvatore, do l’Egitto come tuo riscatto, Etiopia e Sevà invece di te.
Poiché tu sei caro e pregiato ai Miei occhi ed Io ti amo; do altri uomini in vece di te e nazioni in luogo tuo.
Non temere, perché Io sono con te: dall’oriente farò venire la tua discendenza, e dall’occidente ti radunerò.
Dirò al settentrione: ‘Dà’, e al mezzogiorno: ‘Non trattenere. Porta i miei figli da lontano, le mie figlie dall’estremità della terra, tutti quelli che si chiamano con il Mio nome, che ho creati, formati e fatti a Mia gloria.’
Io traggo fuori il popolo cieco, che ha occhi, i sordi, che hanno orecchie.
Tutti i popoli si radunino insieme, si raccolgano le nazioni.
Chi fra loro può annunziare questo?
Ci facciano udire antiche profezie, portino i loro testimoni sicchè essi siano riconosciuti veritieri e coloro che odono dicano: E’ vero.
Voi siete i miei testimoni, detto del Signore, e questo è il Mio servo che Io ho prescelto, affinchè Mi conosciate, abbiate fiducia in Me, comprendiate che Io sono quello avanti del quale non è stata formata alcuna divinità, e dopo del quale non ve ne sarà alcuna.

domenica 7 ottobre 2012

Vezòt haBerachà

Mosè sa di dover morire perché il suo compito è terminato ed il Signore gli ha detto chiaramente che egli non entrerà nella terra promessa. Ha fatto un ultimo tentativo chiedendo se alla fine non gli fosse consentito di entrare, ma non ha insistito più di tanto. Ha capito, non si è rassegnato, si è affidato al Signore ed alle Sue decisioni.

E’ consapevole della grandezza della sua impresa, di avere forgiato una torma di transfughi trasformandoli in un popolo, nel popolo del Signore; di avere con loro vissuto la sua vita nel viaggio, il viaggio che tra tanti tentennamenti, incertezze, ripensamenti, tradimenti ha prodotto alla fine un popolo, con un ordinamento religioso e civile, con una disciplina che gli ha conferito univoco carattere identitario.

Anche nell’accostarsi alla morte Mosè mantiene l’epica della sua figura: non un cedimento, nessun segno di logorio, è un uomo ancora integro nelle forze e lucido nella mente e si prepara alla morte come farebbe un buon padre. Un buon padre chiamerebbe i propri figli al suo cospetto per esprimere loro le sue volontà, ed egli chiama le sue tribù, con affetto e sentimento, connotando ognuna con una caratteristica che la individua e la differenzia e profetizzando per ciascuna di esse il filo conduttore del proprio futuro. A ciascuna delle tribù egli impartisce la propria benedizione.

Conclude Mosè pronunciando la benedizione per l’intero popolo di Israele:

Eccelso tuo rifugio è l’eterno Iddio e in basso sono le sue braccia eterne. Egli scacciò dinanzi a te il nemico e ti disse: Distruggilo. Israele se ne starà tranquillo ed appartato, la discendenza di Giacobbe sarà in una terra di grano e di mosto ed i suoi cieli stilleranno rugiada. Te beato, o Israele! Chi è come te, un popolo che viene salvato dal Signore, che è lo scudo della tua potenza e la spada che difende la tua nobiltà? I tuoi nemici ti mentiranno, ma tu calpesterai le loro alture.

Sale quindi Mosè dalle pianure di Moav fino sulla cima del monte Nevò, di fronte a Gerico. Dall’alto il Signore gli mostra tutto il paese ed i territori assegnati a ciascuna tribù e dice:

Questa è la terra che ho giurato ad Abramo, ad Isacco ed a Giacobbe dicendo: Alla tua discendenza Io la darò. Io dunque te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non potrai entrarvi.

Mosè morì là, nel paese di Moav, e nessuno conobbe mai il luogo della sua sepoltura.
I figli d’Israele lo piansero per trenta giorni e poi da quel momento in poi ubbidirono a Giosuè, come Mosè aveva loro comandato. Ma non sorse mai più profeta comparabile a Mosè, colui con il quale il Signore aveva trattato faccia a faccia.

Per la morte di Mosè così commenta Rav Riccardo Pacifici:

“Mosè si allontana da questa terra e nel momento del suo distacco, nessuno gli è vicino, nessuno né dei familiari, né dei discepoli, né del popolo; egli è solo come tutti i grandi spiriti, egli è solo al cospetto di Dio. Egli si diparte, ma i resti mortali del suo corpo, non sono raccolti e composti nella pace del sepolcro: non una tomba, non un mausoleo, perché nessun monumento terreno sarebbe stato degno di lui. Solo Iddio assiste al suo trapasso, solo Iddio si interessa della sepoltura di Mosè, nessuno sarebbe stato degno di tanto ufficio, ed ecco quindi che il monte e la valle sono la sua sepoltura, ecco quindi che nel teatro grandioso di questo spettacolo naturale, lì alle pendici del monte Nebo, all'ultimo corso della valle del Giordano, là dinanzi agli estremi limiti della terra d'Israele, là in quel quadro si chiude la vita terrena del grande condottiero: "Velò qam navi 'od be-Israel" (Deut., XXXIV, 10).”

Simhàt Toràh

Si celebra il giorno dopo Sheminì Azèret, ovvero il ventiquattresimo giorno del mese di Tishrì, che quest’anno corrisponde al 9 ottobre 2012. Questo è il giorno che conclude il ciclo delle feste autunnali ed esprime letteralmente la “gioia della Toràh”.

E’ in questo giorno infatti che si dà lettura dell’ultima Parashà del Deuteronomio Vezot ha-Berachà, che contiene la cronaca della benedizione di Mosè e della sua morte, e subito dopo si procede alla lettura della Parashàt Bereshith con la quale inizia il libro della Genesi. Si conclude quindi un ciclo annuale e se ne inizia immediatamente un altro, stando a significare la continuità della presenza della Toràh nella vita dell’ebreo.

La lettura del passo conclusivo del Deuteronomio viene eseguita dal Chatàn Toràh, che significa lo “sposo della Toràh”. Alla lettura del primo capitolo della Toràh provvede invece il Chatan Bereshit, ovvero lo sposo della Genesi.

Alla vigilia di Simhàt Toràh i rotoli sono estratti dall’arca per festeggiare e ballare con essi. L’atmosfera della festa è di grande allegria ed il ballo in circolo portando i rotoli esprime la ciclicità senza interruzioni della presenza della Toràh per l’ebreo, il quale sa che le letture saranno sempre le stesse, ma le riflessioni, le associazioni, i significati e gli ammaestramenti che da queste deriveranno saranno sempre diversi, come i momenti del tempo della sua vita.

Sheminì Azèret

Il 22 ottobre 2012 corrisponde al 22 di Tishrì dell’anno 5773, giorno in cui si celebra la festa di Sheminì Azéret. E’ l’ottavo giorno di Sukkòt, la Sukkàh non viene più utilizzata, né lo sono più il Lulav e l’Etrog.

Questo giorno esprime semplicemente il perdurare della gioia di Sukkòt. Un tempo, quando esisteva ancora il Tempio di Gerusalemme, Sukkòt era probabilmente la festa di pellegrinaggio più osservata. Per chi affrontava un lungo viaggio ed aveva eseguito i sacrifici previsti per i primi sette giorni, questo era un giorno di sosta, un giorno in cui rimanere soli davanti al Signore.

Sheminì Azéret è il giorno in cui nell'Amidàh si introduce la supplica quotidiana per la pioggia in luogo di quella per la rugiada e così per l'intera stagione autunnale ed invernale fino a Pèsah.

lunedì 1 ottobre 2012

Qohèlet

Sabato 6 ottobre 2012 sarà Shabbat chol hamoed di Sukkot e durante lo Shacharit del mattino si darà lettura di una parte speciale della Torà, tratta dai capitoli 32 e 34 di Esodo, nella quale, tra l’altro, si dice dell’istituzione della festa autunnale di Sukkot. In aggiunta è l’usanza in molte comunità di leggere anche la meghillah di Qohèlet, detta anche comunemente Ecclesiaste.

La meghillah esprime, con una reiterazione incalzante, scetticismo e dubbi a proposito di tutti i valori umani in quanto tali, così da costituire un poderoso esame di coscienza. Questa severità può sembrare, a prima vista, contrastante con il clima della festa di Sukkot, che è chiamata il tempo della nostra gioia, al punto di chiederci come questo testo possa armonizzarsi con tale clima. E’ necessario allora ricordare che la riflessione penitenziale non è termina completamente con Yom Kippur, ma si prolunga, al termine di Sukkot, fino a Hoshanà Rabà che costituisce così il termine ultimo per il giudizio annuale e la salvezza.

"Io sono Qohèlet, fui re sopra Israele in Gerusalemme. Applicai la mia mente a indagare e a investigare con sapienza su tutto ciò che accade sotto il cielo: un'infelice occupazione che il Signore ha dato agli uomini perchè vi si affatichino. Ho osservato tutti i fatti che si compiono sotto il sole ed ecco tutto è vanità e sforzo inutile. Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare. Meditai tra me dicendo: ecco io ho acquistato molta e vasta sapienza, più di tutti quelli che furono prima di me in Gerusalemme, e la mia mente ha visto molta sapienza e conoscenza. E applicai la mia mente a conoscere sapienza e a conoscere follia e stoltezza; seppi che anche questo è uno sforzo inutile. Poiché dove è molta sapienza è molto affanno e colui che accumula senno accumula dolore." (Ecclesiaste 1, 12-18)

הבל הבלים אמר קהלת הבל הבלים הכל הבל
"Vanità delle vanità, dice Qohèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità."
(Ecclesiaste 1,2)

Con queste parole si apre il libro dell'Ecclesiaste e si presenta a noi il suo autore: Qohèlet, figlio di Davide, Re di Gerusalemme. La tradizione lo identifica con Re Salomone (970-928 a.C.), del quale si legge:

"D-o concesse a Salomone sapienza e grandissima intelligenza, e larghezza d'intelletto in abbondanza come la rena che si trova sulla riva del mare ... E la sua fama si sparse fra tutti i popoli d'intorno. Egli pronunciò tremila sentenze, ed i suoi carmi furono millecinquecento. Egli trattò temi relativi alle piante, dal cedro del Libano fino all'issopo che spunta tra i muri, trattò temi relativi agli animali, ai volatili, ai rettili e ai pesci. E si recavano per ascoltare la sua sapienza da tutti i popoli, da tutti i re della terra che avevano udito parlare della sua sapienza." (I Re 5, 9-14).

Oggi si ritiene che la stesura dell'Ecclesiaste, quale noi conosciamo, debba collocarsi intorno al III-II secolo a.e.v., epoca nella quale era in uso la lingua tardo-ebraica di redazione del testo. Siamo quindi nell'epoca durante la quale gli ebrei furono dominati dai regni greci dei Tolomei e dei Seleucidi, formatisi alla morte di Alessandro Magno. Il contatto con la cultura greca, nettamente più avanzata in tutti i campi delle arti e delle scienze, in quello militare, amministrativo e nei commerci, costituì una pressione poderosa verso l'ellenizzazione del popolo ebraico.

L'Ecclesiaste lamenta la smania di ricchezza sotto il dominio greco. A che cosa è mai servito, si chiede, accumulare immense fortune? Qohèlet si mostra combattuto fra le nuove idee straniere e la sua religiosità congenita, fra lo spirito critico ed il tradizionalismo.

L'impatto dell'ellenizzazione sugli ebrei colti fu per molti aspetti simile a quello dell'illuminismo sul ghetto durante il XVIII secolo. Destò lo stato-tempio dal suo sonno incantato: era una forza destabilizzante dal punto di vista spirituale e, soprattutto, era una forza secolarizzante, materialistica.
Il processo di ellenizzazione fallì quando le iniziative dei riformisti per accelerare l’assimilazione provocarono una violenta reazione nazionalistica, concretizzatasi nella rivolta asmonea (167 a.C.), la riacquisizione dell'indipendenza ed il ripristino dei valori religiosi tradizionali.

כאשר אינך יודע מה דרך הרוח כעצמים בבטן המלאה ככה לא תדע את מעשה האלהים אשר יעשה את הכל
"Come non conosci la via del vento, né come si formino le ossa nel ventre della donna incinta, così non conosci l'opera del Signore che fa ogni cosa."
(Ecclesiaste 11,5)


"Lo stolto è collocato in posti molto elevati e i ricchi siedono in basso. Ho visto servi andare a cavallo e principi che camminavano a piedi come servi. Chi scava una fossa vi cadrà dentro, chi abbatte una siepe lo morderà un serpente. Chi taglia pietre si ferirà con esse, chi spacca legna correrà pericolo. Se il ferro perde il taglio e uno non lo affila, dovrà aumentare gli sforzi, perciò porta vantaggio la sapienza." (Ecclesiaste 10, 6-10)

Ed infine, nel penultimo versetto della meghillà Qohelèt la scia il suo messaggio:

Dopo aver ascoltato ogni cosa la conclusione è questa: temi Dio, osserva i Suoi precetti, poiché questo è tutto per l’uomo;

Tutto, si badi bene, non la convenienza, non il bene, non l’appagamento, ma tutto.