domenica 24 luglio 2011

Mas'è

(Num.33-36)
Siamo arrivati al termine del libro dei Numeri ed il capitolo 33 elenca tutte le tappe dei viaggi e delle soste del popolo ebraico da quando esso partì da Ra’meses, fino alle soglie della terra di Canaan. E’ per ordine del Signore che Mosè ha messo per iscritto l’elenco delle tappe di un itinerario, che per essere percorso ha richiesto quarant’anni di tempo: la vita di un’intera generazione.
Ci si può chiedere a cosa serva il lungo elenco di nomi delle località che hanno costituito le tappe, località di arrivo e di partenza del lungo viaggio. Sono paletti, sono le pietre miliari, che consentono di mantenere la concretezza del viaggio, che associano il racconto alla geografia del territorio, che faranno percepire, anche in futuro, quando i ricordi tenderanno a sfumare, che il viaggio non è stato un sogno, ma un’avvenimento reale, che le località toccate sono state località reali, che semmai capitasse di rivederle potranno richiamare alla mente l’epopea vissuta con una connotazione storica e non di leggenda.
Il capitolo 33 si conclude con le parole che il Signore disse a Mosè: “Quando avrete oltrepassato il Giordano e sarete entrati nella terra di Canaan, scaccerete dinanzi a voi tutti gli abitanti del paese, distruggerete tutte le loro pietre effigiate, tutte le loro immagini di getto e tutti i loro luoghi consacrati. Dovrete scacciare gli abitanti di quella terra, e abitarla voi, perché a voi ho destinato quel paese qual possesso. Spartirete la terra a sorte fra le vostre famiglie. Alle famiglie più numerose dovrete assegnare un possesso maggiore, a quelle meno numerose darete un retaggio minore. Dove gli sarà venuta la sorte, ognuno avrà il possesso presso la propria tribù paterna. Se non avrete scacciato dinanzi a voi gli abitanti del paese, allora quelli che ne lascerete, saranno come spine nei vostri occhi e come pungoli nei vostri fianchi e vi angustieranno nel paese dove abitate. Ciò che io pensavo di fare a loro, farò a voi”.
Queste parole innanzi tutto ci dicono che la terra di Canaan è proprietà del Signore e che il suo possesso è assegnato al popolo d’Israele affinché la amministri, traendone sì il proprio sostentamento, ma, nel contempo, avendo cura, direi amore di essa, in quanto affidata dal Signore, per il mantenimento di quelle doti naturali di fertilità, irrigazione e bellezza possedute al momento dell’affidamento, doti che non dovranno essere depauperate, ma semmai si dovrà cercare di migliorare ancora.
Ma soprattutto queste parole ci dicono che il possesso è affidato in esclusiva al popolo d’Israele e che questo possesso dovrà realizzarsi scacciando tutti gli abitanti del paese, tenendo bene a mente che coloro di questi abitanti che dovessero ancora restare costituirebbero una continua insidia e turbativa all’esclusivo possesso del territorio.
Queste parole riferite ad avvenimenti che si collocano agli albori della storia d’Israele, trovano tuttavia una potente eco nell’attualità, dove il conflitto, ormai perdurante da sessant’anni, tra il moderno Stato d’Israele e le popolazioni arabe circostanti ha connotati politici, religiosi e territoriali.

Al capitolo 34 il Signore descrive i confini della terra di Canaan assegnata, dettagliandone le località lungo tutto il suo perimetro. Mosè allora comandò ai figli d’Israele: “Questo è il paese che darete in retaggio a sorte, che il Signore ha comandato di dare alle nove tribù e mezzo. Poiché la tribù dei figli di Ruben e le sue case paterne, la tribù dei figli di Gad con le case paterne, e metà della tribù di Manasse hanno preso il loro retaggio. Queste due tribù hanno preso il loro retaggio sulla riva orientale del Giordano di Gerico”.
Si chiude il capitolo 34 con l’indicazione, che il Signore fornisce a Mosè, dei nomi degli uomini che provvederanno all’assegnazione dei terreni. Gli incaricati furono: il sacerdote El’azar; Giosuè già designato a condurre la conquista della terra di Canaan; un capo per ogni tribù, ad esclusione delle due tribù di Ruben e Gad che avevano già avuto l’assegnazione dei terreni ad est del Giordano.

Il capitolo 35 tratta delle città da assegnare ai Leviti. Siccome i Leviti non dovevano avere alcuna parte di territorio insieme alle altre tribù, ogni tribù doveva assegnare a loro delle città per abitarvi e dei recinti per pascolo e per i loro viveri. Le città da dare ai Leviti erano in tutto quarantotto con i relativi recinti e ciascuna tribù avrebbe partecipato a questa assegnazione in misura proporzionale alla quantità dei terreni a lei assegnati.
Sei delle quarantotto città sarebbero state “città di rifugio”, città cioè dove chi avesse ucciso una persona per errore avrebbe potuto trovare rifugio, sottraendosi alla vendetta dei parenti dell’ucciso.
Lo stesso capitolo esprime che, in ogni caso, l’omicida sarebbe stato sottoposto a giudizio ed indica le regole generali che potevano condurre ad esprimere un verdetto riguardo alla premeditazione o alla involontarietà dell’uccisione.
L’uccisione premeditata, o ad essa assimilabile, conduceva alla morte dell’uccisore, mentre l’omicidio involontario prevedeva la sottrazione dell’uccisore alla vendetta dei parenti dell’ucciso ed il rilascio dell’uccisore, dopo l’emissione del giudizio di omicidio involontario, in una città di rifugio, ove egli avrebbe dovuto rimanere fino alla morte del Sommo Sacerdote, dopodiché sarebbe tornato libero.

Il capitolo 36, infine, torna ad occuparsi del caso delle figlie di Tselofchad, che già avevano ottenuto di essere censite ai fini dell’assegnazione delle terre. Qui viene trattato un altro aspetto riguardante le limitazioni da porre in essere, nel caso in cui le ragazze intendessero sposare uomini appartenenti ad altre tribù, cosa che avrebbe comportato come conseguenza che terreni assegnati ad una tribù potessero in questo modo transitare nella disponibilità di un’altra. Venne deciso che le ragazze avrebbero potuto sposare solamente uomini della loro stessa tribù, e così avvenne.

mercoledì 20 luglio 2011

Mattoth

(Num.30,2-32,42)
Mosè parlò ai capi delle tribù per comunicare loro il comando del Signore secondo cui ciascuna persona del popolo d’Israele avrebbe dovuto rispettare voti e giuramenti fatti, impegnandosi per l’attuazione di quanto pronunciato dalle proprie labbra, e consentendo così di non profanare la parola data. E’ da tener presente che questo precetto non costituisce un precetto positivo, espresso cioè dal dover fare quello che si è promesso, è bensì un precetto negativo, quello cioè di “non profanare la parola” data al Signore. La parola ha nell’ebraismo un valore sacrale, perché è con la parola che il Signore ha creato il mondo e con la parola ha comunicato a Mosè ed è la parola che éleva l’uomo al di sopra degli animali. Ma i Saggi, che si posero il problema se un voto o un giuramento potessero mai essere sciolti, arrivarono ad interpretare la frase “non profanare la parola” come abbreviazione di un’espressione più estesa: “tu non profanare la parola, ma gli altri possono profanala per te”.
Su questa interpretazione si fonda, come spiega Maimonide nel suo Sefer haMitzvòt, il precetto positivo dell’annullamento dei voti, che può essere pronunciato, dopo discussione e valutazione della richiesta, da parte del Tribunale. Il Tribunale, evidentemente, procede allo scioglimento qualora ravvisi che l’espressione del voto non sia stata in linea con gli insegnamenti della Torà.
Per questa stessa interpretazione si comprende quanto viene detto nella parashà a proposito di voti e giuramenti fatti dalle donne.
Il capitolo 30 prosegue, infatti, trattando in maniera estesa, dal versetto 4 fino al conclusivo versetto 17, dei voti fatti dalle donne e degli effetti sulla loro validità dei divieti espressi dal padre o dal marito
La regola assegnava al padre o al marito la potestà di vietare un voto o un giuramento fatto dalla donna, ma egli poteva esercitare questa potestà una volta sola e nel momento in cui veniva a conoscenza del voto o del giuramento. Ma se l’uomo, nel venire a conoscenza del voto o del giuramento della donna, aveva taciuto, egli perdeva per sempre la prerogativa di poter esprimere il proprio divieto riguardo al quel voto.
L’esercizio di questa potestà al giorno d’oggi la ritroviamo solamente nella figura del padre verso i figli minori, e consiste nell’esercizio della cosiddetta “patria potestà”, mentre per quello che riguarda il marito direi che i tempi sono sostanzialmente cambiati, almeno in tutto il nostro mondo occidentale.
I voti della donna per i quali il marito poteva trovarsi a voler esprimere il divieto erano evidentemente quelli che riteneva andassero a ledere i suoi interessi, diritti, o prerogative. Qui si tratta di voti che non sono evidentemente solo quelli, ad esempio, di non voler cucinare il pollo per un certo periodo di tempo, ma può trattarsi di un voto di castità, che andava a colpire quello che l’uomo riteneva un suo diritto e ne intaccava la dignità. Il trovarsi davanti a voti femminili di questo tipo sono ipotesi non lontane dalla realtà, quando si ricordi, ad esempio, che il voto di “nazireato” poteva essere pronunciato sia da parte di uomini, sia da parte di donne.

Il capitolo 31 si apre con l’assegnazione, da parte del Signore, dell’ultimo compito a Mosè: “Vendica i figli d’Israele sui Midianiti, dopo verrai raccolto al tuo popolo”.
Vennero armati, allora, mille uomini per ogni tribù, con loro era Pinchas, sacerdote figlio di El’azar, ed egli aveva in mano gli oggetti sacri e le trombe per impartire gli ordini. In esito all’attacco rimasero uccisi i cinque re di Midian ed anche il mago Bil’am, che si era rifugiato presso di loro. Tutti i midianiti furono distrutti e furono bruciate le loro città e le loro fortezze. Le donne, i bambini, insieme al bestiame furono catturati e portati davanti a Mosè, El’azar ed il popolo tutto nella pianura di Moav.
Mosè si adirò: “Avete lasciato in vita tutte le femmine? Erano ben esse che, per consiglio di Bil’am, sedussero i figli d’Israele a diventare infedeli al Signore nell’affare di Pe’or per cui scoppiò la mortalità nella congrega del Signore. Ed ora uccidete ogni maschio tra i bambini, e ogni donna atta a coabitazione con uomo uccidetela. Ogni bimba tra le femmine che non conobbero coabitazione con maschi, tenete in vita per voi. E voi accampate fuori dall’accampamento per sette giorni. Ognuno che abbia ucciso una persona o toccato un caduto, fatevi aspergere il terzo ed il settimo giorno, voi ed i vostri prigionieri. Ogni abito, ogni oggetto fatto di pelle, ogni oggetto fatto di pelo di capra e ogni oggetto di legno farete aspergere”.
El’azar aggiunse quindi le istruzioni per la purificazione degli oggetti di metallo, che avrebbero dovuto essere aspersi con l’acqua della purificazione e poi essere passati per il fuoco.
Il Signore diede quindi a Mosè le istruzioni per la divisione del bottino e per l’individuazione del tributo.
Il bottino, ivi compresi i prigionieri, sarebbe stato diviso in due parti uguali, da assegnarsi una ai combattenti, l’altra al popolo tutto.
Dalla parte assegnata ai combattenti avrebbe dovuto prelevarsi il tributo destinato al Signore, nella misura di uno su cinquecento, sia per le persone, sia per il bestiame grosso, sia per gli asini, sia per il bestiame minuto. Questo tributo avrebbe dovuto essere consegnato ad El’azar.
Il tributo da prelevare dalla parte di bottino assegnata al popolo era invece fissato nella misura di uno su cinquanta di tutto il bestiame e doveva essere dato ai Leviti, che avevano la cura del Tabernacolo del Signore.
I comandanti ed i capi dell’esercito si recarono quindi da Mosè per portare gli oggetti e monili d’oro che ognuno di loro aveva preso come preda nel conflitto con i midianiti ed espressero che intendevano offrire tali oggetti al Signore in sacrificio di espiazione.

Al capitolo 32 si narra delle tribù di Gad e di Ruben che avevano molto bestiame e che, giunti ormai prossimi al Giordano, giudicarono quelle terre adatte per loro e pertanto chiesero a Mosè: “Se abbiamo trovato grazia ai tuoi occhi, sia dato questo paese qual retaggio ai tuoi servi. Non farci oltrepassare il Giordano”. E Mosè così rispose: “Devono i vostri fratelli entrare in guerra e voi rimanere qui? Perché volete suscitare l’opposizione dei figli d’Israele al passare nel paese che il Signore ha dato loro?” Mosè inoltre rammentò l’ira del Signore, che aveva colpito il popolo con quarant’anni di peregrinazione nel deserto e l’esclusione dell’intera generazione uscita dall’Egitto dalla terra promessa, tutto ciò per non avere amato questa terra dopo la prima esplorazione.
Ma Ruben e Gad chiarirono che essi avrebbero preso sì le terre ad est del Giordano, ma che avrebbero anche partecipato, come tutte le altre tribù, alla conquista della terra promessa.
Dopo questo accordo Mosè diede ai figli di Gad, a quelli di Ruben e alla metà della tribù di Manasse, figlio di Giuseppe, il regno di Sichon, re degli Emorei, e il regno di ‘Og, re di Bascian, il paese diviso in città con i confini tutt’attorno.
Teniamo a mente questa distinzione: le terre dal Giordano al mare sono assegnate dal Signore; le terre ad est del Giordano sono assegnate da Mosè.

martedì 12 luglio 2011

Pinchas

(Num.25,10-30,1)
Pinchas con atto violento e risoluto uccise Zimrì e la sua amante midianita, e l’impatto di questo gesto sul popolo fu talmente forte che venne a ristabilirsi la fedeltà del popolo al patto di alleanza con il Signore. L’ira del Signore, come abbiamo visto anche alla fine della precedente parashà, si placò e cessò la pestilenza inviata per punire il popolo d’Israele.
Pinchas, sacerdote figlio di El’azar figlio di Aron, per lo zelo dimostrato in questa circostanza ricevette dal Signore, per sé e per i suoi discendenti, la linea di supremo sacerdozio.
Pinchas è una figura severa, che con il suo gesto interrompe una prassi alla quale eravamo in un certo qual modo abituati. Durante il lungo viaggio verso la terra promessa molte furono le sommosse e le ribellioni del popolo d’Israele alle disposizioni impartite dal Signore. Ogni volta la punizione venne inflitta direttamente dal Signore ed ogni volta Mosè ebbe ad intercedere perché il popolo non fosse annientato e gli venisse concessa ancora una possibilità. Anche questa volta il popolo si disunì e numerosi furono gli atti di fornicazione dei figli d’Israele con donne moabite e midianite, molti si allontanarono dal culto del Signore per adorare il Baal Peor. Il Signore inviò una pestilenza che mietette ventiquattromila vittime e si placò questa volta non per l’intercessione di Mosè, ma per l’azione con la quale Pinchas, sacerdote di severi costumi, pose fine allo scandalo uccidendo la coppia di amanti.
L’atto di Pinchas può apparire a noi, persone che apparteniamo ad una società decadente, avvezza ad unioni, che rapidamente si formano ed ancora più rapidamente si disfano, eccessivo, sproporzionato, addirittura condannabile. Potremmo pensare che male mai avessero commesso i due amanti, che si presume fossero giovani e di bell’aspetto, se non quello di seguire la voce del cuore, che è quello che l’attuale senso comune dell’etica corrente ritiene si debba fare in barba a qualsiasi costrizione e imposizione.
La risposta che ha valore per il popolo d’Israele ed in base alla quale Pinchas ha agito la troviamo nella terza parte dello “Shemà”:
E parlò il Signore a Mosè dicendo: parla ai figli d’Israele, e dirai loro di fare, per loro e per tutte le loro generazioni Tzitzìt sulle ali estreme dei loro vestiti, e porranno sulla Tzitzìt all’estremità un filo azzurro. E sarà per voi come Tzitzìt, e guardando ricorderete tutte le mitzvòt del Signore, e le osserverete. E non vi perderete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, poiché vi prostituireste seguendoli. Affinché ricordiate ed osserviate tutte le mie mitzvòt e vi distinguiate per il vostro Signore. Io sono il vostro Signore, che vi ha tratti dalla terra d’Egitto per essere il vostro Signore. Io sono il vostro Signore”. (Num.15,37-41)
L’amore per il Signore e l’osservanza delle mitzvòt guidano quindi la vita dell’ebreo, dalla quale deve essere rimosso ogni altro interesse collidente ed in particolare il frutto delle passioni del cuore.
Ciò detto appare chiaro che l’atto compiuto da Pinchas fu una punizione impartita per una grave infrazione della Legge. Potrebbe ancora essere incolpato Pinchas di eccesso di zelo, nel senso che si sarebbe arrogato il diritto di infliggere la punizione, prerogativa questa solitamente esercitata dal Signore, direttamente o per Sua disposizione. Ma per questo aspetto il Signore non manifestò doglianza, anzi vi fu manifestazione di apprezzamento, tant’è che Pinchas e la sua discendenza ricevettero eterna gratificazione per l’atto da lui compiuto.
Il capitolo 26 tratta del censimento di tutti i maschi di età da vent’anni in su, idonei per il servizio militare. Questo censimento riguarda solamente le nuove generazioni, giacché, come già sappiamo, nessuno di coloro che uscirono dall’Egitto, Mosè compreso, potrà entrare nella terra promessa. Il censimento ha lo scopo di definire la consistenza numerica di ciascuna delle dodici tribù, consistenza in base alla quale verrà stabilità l’entità delle terre da assegnare.
Il censimento, oltre che numerico, è anche, a ben vedere, un censimento onomastico e molti dei nomi citati in questo capitolo trovano corrispondenza nell’onomastica ebraica contemporanea.
Al capitolo 27 è l’episodio delle figlie di Tselofchad: Machlà, No’à, Choglà, Milchà, Tirtsà.
Tselofchad si ritiene fosse il vecchio ebreo colto a raccogliere legna di sabato e quindi messo a morte. Le ragazze presentatesi a Mosè fecero presente che, poiché nella loro famiglia non c’erano componenti maschi, questa non sarebbe risultata nel censimento e loro non avrebbero avuto nessun terreno al momento dell’assegnazione.
A questo punto il Signore accolse la richiesta delle ragazze disponendo che: “Quando un uomo muore e non ha figlio, voi passerete il suo retaggio alla sua figlia. E se non ha figlia, darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se no ha fratelli, passerete l’eredità ai fratelli del padre. E se il padre non aveva fratelli, darete la sua eredità al parente carnale più prossimo della sua famiglia, e questi la possederà”.
Dopo di ciò il Signore disse a Mosè: “Sali su questo monte ‘Avarim e guarda la terra ch’Io ho dato ai figli d’Israele. E dopo averla veduta verrai raccolto alla tua gente anche tu, come è stato raccolto Aron tuo fratello. Poiché vi siete opposti al mio comando presso le acque della ribellione di Cadesh, nel deserto di Tsin, quando l’assemblea si ribellò, anziché santificarmi con l’acqua ai loro occhi. Questa è l’acqua di ribellione di Cadesh, nel deserto di Tsin”.
Mosè, che tante volte intercesse presso il Signore per placarne l’ira contro il Suo popolo, in questa occasione non chiese indulgenza per sé e dev’essere stata veramente dura per lui arrivare a vedere dall’alto la terra promessa e sapere di non potervi entrare. Mosè non chiese per sé perché era consapevole della gloria del ruolo rivestito per aver condotto il suo popolo per tutto quel viaggio, durante il quale il popolo assunse la consapevolezza della propria identità, abbandonando la terra di schiavitù per ricevere la legge del Signore e superare gli ostacoli ed i contrasti frapposti al raggiungimento della meta.
Mosè non chiese per sé ma, ancora una volta, chiese per il popolo, chiese che venisse designata la sua nuova guida: “Destini il Signore, Dio degli spiriti di ogni vivente, un uomo della congrega, il quale esca davanti a loro ed entri davanti a loro, li faccia uscire ed entrare affinché la congrega del Signore non sia come un gregge che non ha pastore”.
Il Signore designò Giosuè e impartì le istruzioni per la sua presentazione e consacrazione. A Giosuè, uomo giovane e forte, animato da spirito battagliero e risoluto sarebbe spettato il compito della conquista della terra promessa.
A questo punto, siamo al capitolo 28, il Signore parlò a Mosè per istruirlo sui sacrifici da presentare al Tempio quotidianamente, su quelli da presentare il Sabato ed in tutte le altre feste dell’anno ebraico. Prosegue la descrizione dei sacrifici anche al capitolo 29, in un crescendo di vittime immolate, la cui consistenza raggiunge negli otto giorni di Succòth quella di un vero e proprio esercito fra tori, montoni ed agnelli.
Tutti questi sacrifici di animali ci indurrebbero a connotarli come una manifestazione di barbarie, difficilmente giustificabile ai nostri occhi, anche per la loro entità, se visti esclusivamente come offerte al Signore. Dobbiamo però ricordarci che queste offerte avevano anche la funzione di provvedere al sostentamento dei Sacerdoti e dei Leviti addetti al funzionamento del Santuario, quindi di un elevato numero di persone e che a tale numero le offerte erano di fatto commisurate.
Questa considerazione ci rende più facilmente comprensibile la ratio di utilità di questi sacrifici così dettagliatamente chiesti e descritti dal Signore.

lunedì 4 luglio 2011

Balac

(Num.22-25)
Il popolo d’Israele, nella sua marcia verso la terra promessa, era giunto ormai a ridosso del regno di Moab.

Balac, re di Moab, che aveva seguito le tappe di questa marcia di avvicinamento, era al corrente delle pesanti sconfitte inflitte da Israele agli altri re della regione, che avevano inutilmente tentato di ostacolarlo. Ora che vedeva Israele ai confini del suo regno Balac era molto preoccupato e disse agli anziani di Midian, suo alleato: “Ora questa moltitudine divorerà tutti i nostri dintorni, come il bue divora l’erba del campo”. Balac era consapevole che le proprie forze erano insufficienti per affrontare e battere un popolo così numeroso ed organizzato e ritenne quindi che fosse necessario ricorrere ad un aiuto soprannaturale. Egli inviò un’ambasceria a Bil’am, che viveva in Mesopotamia ed era noto in tutta la regione per la sua capacità di esercitare poteri di profeta e di mago. Così Balac mandò a dire a Bil’am: “Ecco un popolo uscito dall’Egitto, ricopre la superficie del paese. Esso mi sta di fronte. Ora vieni, maledici per me questo popolo, poiché esso è più forte di me. Forse potrò batterlo e scacciarlo dal paese, giacché so che chi tu benedici è benedetto e chi tu maledici è maledetto”.

Per poter dare una risposta all’ambasceria Bil’am, pur non essendo ebreo, e pur esercitando le arti di mago e profeta, cosa che lo connotava come non credente nel Signore d’Israele, ritenne di dover comunicare proprio con il Signore d’Israele ed il Signore gli disse: “Non andare con loro. Non maledire quel popolo, poiché esso è benedetto”. Bil’am pertanto rispose alla richiesta degli ambasciatori di Balac dicendo: “Andate nel vostro paese, poiché il Signore ha rifiutato di lasciarmi venire con voi”.

Ma quando Balac inviò una seconda ambasceria, offrendo ancora maggiori onori a Bil’am , e chiedendo nuovamente di maledire il popolo d’Israele, allora il Signore disse a Bil’am: “Se questi uomini sono venuti ad invitarti, va’ pure con loro, ma dovrai fare solo ciò che Io ti dirò”.

A questo punto della narrazione abbiamo già alcuni quesiti, ai quali sentiamo di dover dare risposta prima di andare avanti:
Il primo quesito riguarda il perché Bil’am si sia rivolto al Signore degli Ebrei e non ad un’altra divinità, ad esempio quella nella quale lui era credente.
Le risposte possibili sono diverse ma quella che mi sembra più razionale è che Bil’am abbia preferito la strada più diretta. Era evidente, per tutti i successi conseguiti lungo il suo cammino, che il popolo ebraico fosse benedetto dal Signore e che la cosa più conveniente per modificare questa sua condizione non fosse certo quella di mettere in competizione tra loro divinità diverse, ma che fosse invece da esplorare presso il Signore d’Israele se la benedizione di cui quel popolo godeva potesse essere sospesa o cessare.
Il secondo quesito è come fosse possibile che Bil’am conoscesse il nome del Signore d’Israele e come sia stato possibile che il Signore gli abbia parlato. Ricordiamoci, a questo proposito, quante volte abbiamo letto che il Signore disse a Mosè di dire ad Aron. Quindi il Signore, che molto raramente ha parlato persino ad Aron, che pure era il suo Gran Sacerdote, ora, appena interpellato, parla a Bil’am, mago e profeta non ebreo.
Credo che la spiegazione non sia tanto quella a posteriori, secondo cui il Signore è intervenuto per dire a Bil’am cosa dovesse fare, perché questo rientrava nel generale disegno divino. No, io penso che la chiave della spiegazione sia a priori, è Bil’am che ha assunto l’iniziativa di chiedere al Signore se fosse possibile maledire il Suo popolo. Ma, se è così, significa che Bil’am, pur profeta e mago non ebreo, aveva la capacità di comunicare con il Signore.

Prima di lavarcene le mani, dicendo che si tratta di un racconto fantastico del quale occorre tenere in conto solo il significato, facciamo dei passi intermedi per arrivare a comprendere quale sia il livello massimo comprensibile della plausibilità razionale del racconto.
Il dialogo di Bil’am con il Signore avviene in sogno.
Nel Tanak molti personaggi sognano ed altri interpretano i sogni. I personaggi che sognano non sono solamente ebrei: infatti anche il Faraone sogna, Nabucodonosor sogna. Il sogno avviene solitamente in una fase del sonno in cui il controllo sulla nostra anima è attenuato e l’anima ha la possibilità di mettere in atto le proprie facoltà percettive e comunicative.
E’ una fase molto delicata questa che vede l’anima allontanarsi dal corpo per poi ritornarvi al risveglio. La preghiera del risveglio mattinale recitata dagli ebrei dice: “Modè anì, riconosco davanti a te, sovrano, vivente ed eterno, che mi hai reso la mia anima misericordiosamente. Grande è la tua fiducia”.
Sappiamo anche che esistono altre modalità, oltre quella naturale del sonno, delle quali i sensitivi possono servirsi per raggiungere lo stato in cui l’anima si allontana dal corpo, aumentando la propria sensibilità e le proprie percezioni. Pensiamo molto semplicemente ai racconti di molte persone sottoposte ad interventi chirurgici in anestesia totale; essi parlano di questo distacco dell’anima dal corpo e delle sensazioni di lieta lucidità e completezza che accompagnano questa esperienza. I sensitivi hanno anche capacità di raggiungere uno stato di trance in autoipnosi, e realizzano esperienze di allontanamento dell’anima, che rendono possibile vivere percezioni altrimenti inarrivabili.

Una persona mi raccontò una volta il meccanismo ipnotico per ottenere questo allontanamento dell’anima. Egli era comodamente seduto su una poltrona e cominciò a rilassarsi , fino a raggiungere uno stato in cui non c’erano più pensieri nella sua mente. Raggiunto questo punto di vuoto, si ritrovò sulla sponda di un lago, all’ombra di frasche dense e ombrose, e vedeva davanti a sé lo specchio delle acque immobili e mute. Aveva nelle mani una canna da pesca con un amo luminoso e brillante sospeso alla lenza. Fissava l’amo e cominciò a farlo oscillare in modo sempre più ampio verso lo specchio delle acque del lago. Il punto più vicino sfiorava quasi la sua persona ed il punto più lontano si proiettava lontano sullo specchio delle acque del lago. Il suo sguardo seguiva l’amo nelle sue oscillazioni, senza abbandonarlo mai, fino al punto di massima estensione. Cominciò a percepire, nel punto di maggior distanza, l’attimo in cui l’amo rimaneva immobile prima di tornare indietro, e vide in quell’attimo il punto dello specchio dell’acqua in cui l’amo si sarebbe immerso se l’avesse lasciato libero. Si concentrò allora nell’oscillazione seguente, con lo sguardo attaccato all’amo che si allontanava rapidamente e nello stesso istante in cui esso raggiungeva l’estremo più lontano, liberò la lenza e l’amo colpì lo specchio d’acqua e passò sotto la sua superficie e la sua anima insieme ad esso.
Un attimo prima di colpire lo specchio d’acqua la sua anima provò il terrore del pensiero che forse non avrebbe più saputo tornare indietro. Un attimo dopo essa provò la gioia di trovarsi in un altro mondo, reale come quello che aveva lasciato, ma assolutamente diverso nelle sensazioni, nei pensieri nei sentimenti. L’unico punto fermo della sua anima rimaneva la sua identità, uguale a quella che aveva sempre avuta.
Quella persona concluse il suo racconto dicendomi: “L’importante perché la propria anima non si perda è rimanere saldamente attaccati all’amo al quale ci eravamo aggrappati”.

Ed allora ecco che, con queste premesse, diventa plausibile il fatto che Bil’am abbia posseduto le capacità necessarie ad interloquire con il Signore d’Israele.
Ma subito dopo la figura di Bil’am riceve nella narrazione un pesante ridimensionamento. Egli infatti, dopo aver ricevuto le parole del Signore, si alzò la mattina, sellò la sua asina e andò con i principi di Moav, senza precisare loro che egli avrebbe fatto solo quello che il Signore gli avrebbe detto. Per ostacolare i proponimenti di Bil’am, che parevano orientati per la pronuncia della maledizione del popolo d’Israele, il Signore inviò un proprio emissario per fermarlo. Tre volte si presentò l’emissario con la spada sguainata sulla strada percorsa da Bil’am e per tre volte Bil’am non lo vide, mentre lo vide la sua asina, cha scartò bruscamente fuori dal sentiero e gli salvò la vita.
Per tre volte Bil’am bastonò la sua asina, rimproverandola per gli scarti che aveva compiuto, finché il signore aprì la bocca dell’asina che disse: “Non sono io la tua asina sulla quale hai cavalcato da quando esisti fino ad oggi? Ho io mai usato di farti così?”. A quel punto il Signore aprì gli occhi a Bil’am che vide l’inviato del Signore, il quale gli disse: “Perché hai battuto la tua asina già tre volte?Ecco io ero uscito per esserti di ostacolo, perché la tua vita è contraria a me, L’asina mi vide e mi scansò già tre volte. Ove non m’avesse scansato, avrei ucciso te e lasciato in vita lei”.

L’episodio induce ad una riflessione sulla figura di Bil’am. Il profeta, il mago, conoscitore di uomini e di Dei, che ha la capacità di dialogare con il Signore, si rivela come colui che non appena si allontana dalle istruzioni che il Signore gli ha dato, non vede più e la facoltà di vedere tocca ora alla sua asina, con un significato che da un lato evidenzia le carenze dell’uomo, per quanto dotato egli sia di poteri e facoltà degni di nota, ma dall’altro rende onore all’asina, proprio all’animale tanto utile ma tanto poco apprezzato.

Stavolta Bil’am mostrò di aver compreso le parole del Signore e quando, giunto a Moav, si trovò davanti a Balac gli disse: “Eccomi venuto da te. Ma ora, potrei io dire la minima cosa? Ciò che il Signore mi porrà in bocca quello solo io dirò”.
Ed egli terrà fede a quanto il Signore gli aveva detto. Per tre volte Balac tenterà di fargli pronunciare la maledizione per il popolo d’Israele e per tre volte la bocca di Bil’am pronuncerà invece la benedizione del popolo del Signore.
“Ma tovù ohalécha Yaakòv, mishkenotécha Israél! Come sono belle le tue tende, Yaakòv, le tue residenze, Israel”. La benedizione di Bil’am viene recitata ogni volta che si entra al bet hakenésset in ricordo della distinzione operata dal Signore per il popolo d’Israele tra tutti i popoli della terra.
Balac, sconcertato ed irritato per il fallimento delle aspettative che egli aveva riposto nella venuta di Bil’am, scaccia il mago dalle proprie terre e questi, andandosene, pronuncia la sua ultima profezia a Balac. Verrà un astro da Giacobbe che sottometterà Moav, Edom e Se’ir. Parla quindi della dominazione dell’Assiria, che renderà dura la vita dei popoli sottoposti.

La narrazione ci dice anche di un consiglio che Bil’am avrebbe dato a Balac senza però precisare di che si tratti. I Rabbini spiegano che si tratta di un consiglio segreto col quale Bil’am persuase Balac di corrompere Israele mandando le donne a sedurlo.
Infatti, frutto o meno che fosse del consiglio di Bil’am, il popolo cominciò a fornicare con le figlie di Moav, ed a celebrare ed adorare i loro idoli. Il Signore ordinò allora a Mosè che fossero impiccati pubblicamente tutti i capi del popolo. Mentre venivano giustiziati coloro che avevano seguito il Ba’al di Pe’or, uno dei figli d’Israele presentò una Midianita ai suoi fratelli ed agli occhi di Mosè e di tutta l’Assemblea.
Pinechas, figlio di El’azar, figlio del sacerdote Aron, si alzò e prese una lancia e trafisse d’un colpo insieme l’uomo e la Midianita.
Con questo cessò la strage dei figli d’Israele, che causò ventiquattromila morti.