domenica 26 maggio 2013

Shelach lechà

(Nu.13,1-15,41)

Qui si narra di come il popolo, già uscito dalla terra d’Egitto e messosi in marcia per raggiungere la terra promessa, sia arrivato alle soglie del suo traguardo, senza però raggiungerlo ed abbia ricevuto invece la punizione di dover vagare ancora per quarant’anni nel deserto.
L’abbiamo visto, questo popolo, ricevere la Legge, e sappiamo come abbia proceduto per l’edificazione del Santuario, e conosciamo l’ordinamento secondo cui fu stabilita la celebrazione dei suoi riti religiosi, il suo schieramento sul campo e la procedura e l’ordine adottati per i suoi spostamenti.
Tutto ciò darebbe l’idea di un popolo-esercito organizzato e disciplinato, ma sappiamo anche delle traversie di questa massa di persone in movimento, sappiamo delle lamentele, delle contestazioni, delle nostalgie per la terra di schiavitù, che sin qui hanno costellato il suo percorso.

Ora, arrivati alle soglie della terra promessa, il Signore dice a Mosè:

“Manda degli uomini ad esplorare il paese di Canaan che Io sto per dare ai figli d’Israele. Un uomo per ogni tribù paterna, ognuno sia un preposto fra loro.

Gli esploratori designati partirono quindi con il compito di esaminare le ricchezze del paese, le sue risorse agricole, la fertilità della terra, ma anche per scoprire la consistenza e l’indole delle popolazioni abitanti, nonché la loro organizzazione e se le città esistenti fossero o meno fortificate.
Tornarono dopo quaranta giorni e riferirono che il paese era veramente stillante latte e miele, perché era fertile e produceva frutti in abbondanza, però le città erano fortificate e le popolazioni che le abitavano erano forti, e gli abitanti di quella terra apparivano fisicamente come giganti al confronto con loro, che invece sembravano come piccole locuste.

Solamente Caleb e Giosuè, che pure avevano fatto parte del gruppo degli esploratori, si espressero riguardo al possibile conflitto con gli abitanti della terra promessa dicendo che non bisognava nutrire alcun timore perché il Signore era con il popolo di Israele.

Ma il popolo mostrò di non avere fiducia nel Signore e di non avere il coraggio e la determinazione necessari per la conquista della terra promessa. Nuovamente cominciarono i lamenti ed i proponimenti di tornare nella terra d’Egitto, dove dopo tutto non avrebbero corso il rischio di essere passati a fil di spada da popolazioni agguerrite e di vedere le proprie donne ed i propri figli diventare prede di guerra.

A questo punto ci viene da pensare: ma chi mai potrà sperare di raggiungere una meta a lungo desiderata, se non è in possesso del coraggio e della determinazione necessari a superare gli ostacoli che si frappongono al suo raggiungimento? Come possiamo affrontare una prova che ci si presenta davanti se non abbiamo fiducia nella possibilità di superarla? Nella nostra vita quotidiana sono molte le “terre promesse” da conquistare, gli obiettivi al cui raggiungimento si frappongono ostacoli. Sono gli esami a scuola, i concorsi o le selezioni per le posizioni lavorative, gli obiettivi di lavoro nei quali crediamo e che vogliamo realizzare. Sono la famiglia, i figli, l’aiuto che riusciamo a dare loro. Ecco tutte queste cose vanno fortemente volute e vanno conquistate, quindi con fiducia e determinazione, e dobbiamo essere consapevoli del fatto che senza queste qualità tutto resterà affidato al caso, nella migliore delle ipotesi, ovvero tutto sarà alla mercé dei nostri avversari.

Il popolo d’Israele aveva l’organizzazione necessaria per compiere l’impresa, ma aveva perso il coraggio di battersi contro gli altri popoli e soprattutto aveva perso la fiducia nel fatto che il Signore, schierato dalla sua parte, lo avrebbe portato alla vittoria.

Il Signore dispose allora la punizione per il suo popolo, stabilendo che nessuno di quegli uomini, dall’età di vent’anni in su, ad eccezione di Caleb e Giosuè, sarebbe mai entrato nella terra promessa e che il popolo avrebbe continuato a vagare ancora per quarant’anni nel deserto, prima di potervi accedere.

Il Signore dettò quindi le disposizioni riguardanti i sacrifici, che il popolo avrebbe dovuto effettuare, quando fosse finalmente entrato nella terra promessa. I sacrifici di animali e di farinacei, di olocausto e di shelamim, offerti sia da parte del popolo, sia da parte degli stranieri che, dimorando insieme, sarebbero stati soggetti alle medesime norme ed agli stessi diritti.

Molte volte la Torà fa riferimento a questi stranieri, che vivono in mezzo al popolo d’Israele e che perciò sono soggetti alle medesime leggi e questo ci fa pensare che la loro presenza doveva essere numericamente significativa, che molti dovevano essersi uniti al popolo d’Israele a partire dall’uscita dall’Egitto e durante il viaggio.

Ci fa pensare anche, attualizzando il viaggio e dando ad esso il significato di un percorso personale che dura tutta una vita, che è irto di ostacoli, ma ci conduce ad una nuova condizione di consapevolezza della fiducia nel Signore e della forza che da ciò ci deriva. Ed è la presenza dello straniero che ci consente di connotare come universale tutta la narrazione, potendo sussistere altrimenti una visione limitativa connotante il popolo eletto esclusivamente limitato al solo popolo ebraico.

Segue poi l’episodio dell’uomo trovato di Sabato nel deserto a raccogliere legna e condotto davanti a Mosè ed Aronne. Per quest’uomo il Signore dispose la morte per lapidazione da eseguirsi fuori dall’accampamento. La punizione, che a prima vista potrebbe apparirci eccessivamente severa e feroce, deve giustificarsi considerando che il Sabato costituisce il Santuario d’Israele, il giorno del Signore, che ci ama, ed al quale dobbiamo rispetto, obbedienza e amore.

La parashà si conclude con i versetti che sono la parte finale dello Shemà: i figli d’Israele facciano delle frange agli angoli delle proprie vesti, affinché vedendole ricordino ed eseguano tutti i precetti che il Signore ha dato loro, senza deviazioni per seguire il proprio cuore o i propri occhi, che li renderebbero infedeli.

Sto pensando ad un libro scritto da Susanna Tamaro qualche anno fa, che si intitolava “Va’ dove ti porta il cuore”, che parrebbe in chiara opposizione alla linea comportamentale che ci dice di anteporre ad ogni cosa il rispetto dei precetti dettati dal Signore. In realtà la Tamaro intendeva esprimere la preferenza che si deve assegnare al sentimento rispetto alle indicazioni del razionale, ma sicuramente intendeva che si dovesse seguire il cuore, senza lasciare a casa il cervello. Ma anche qui c’è da intendersi sul significato di sentimento e sul significato di razionale, parole al giorno d’oggi tanto inflazionate da averne smarrito il significato. "Sentimento" non è passione, sentimento è ciò che affiora di noi, quando, soli con noi stessi, allontaniamo ogni passione, ma anche ogni preconcetto, per scoprire quello che c’è di amore autentico, non quello inflazionato e mercificato con il quale oggi si etichettano narcisismi ed egoismi, ma quello che ci fa desiderare il bene dell’altro come preminente su ogni nostra esigenza personale, bene dell’altro che si realizza in silenzio anche con il nostro sacrificio e la nostra sofferenza, ma che pur così ci ripaga con la gioia immensa di attuare amore.

L’altro termine, la parola “razionale” si presenta a prima vista come asettica, parrebbe andare a braccetto con la parola “giustizia” e invece non è così. Quando diciamo che una data scelta o una data posizione è razionale dovremmo scavare per capire a che cosa risponde questo concetto di razionalità, se questo razionale sia in realtà il frutto di preconcetti sociali o di convenienza, e vada quindi a connotarsi più propriamente come frutto di un egoismo.

Ecco che allora il cerchio si chiude: il cuore e gli occhi di cui parla la Torà, sono le passioni, violente ed effimere, episodi sui quali non può costruirsi una vita, ma che invece causano deviazioni che allontanano dalla fiducia nel Signore.

Ma il sentimento vero, quello profondo, duraturo, incrollabile , quello che costa sacrificio, quello che a volte sembra non premiare, ecco questo sentimento, liberato dal razionale di convenienza, questo è il distillato della vera natura umana, quella verso cui dovremmo tendere universalmente, nonostante le deviazioni numerose che nella nostra vita noi facciamo perché siamo umani e siamo fallibili. Ma la consapevolezza di quale sia la verità sarebbe già un grande risultato da raggiungere. E il sentimento, quello vero, quello maiuscolo, è allineato con la Torà.



Haftarà di Shelach lechà
(Gios.2,1-2,24)

Giosuè mandò due uomini ad esplorare il paese alle cui soglie erano giunti ed in particolare la città di Gerico. I due andarono e, giunti in città, trovarono ospitalità presso una prostituta di nome Rachav.. Di ciò giunse voce al re di Gerico, che mandò a dire a Rachav, che facesse uscire dalla sua casa i due uomini, che erano venuti ad esplorare tutto il paese. La donna però rispose che i due erano andati via e che ella non sapeva dove fossero. Essa invece li aveva nascosto in soffitta in mezzo alla legna. Cessato il pericolo, la donna chiese ai due esploratori di ricordarsi di lei e della sua famiglia, risparmiando la loro vita quando il Signore avrebbe consegnato la città al loro popolo, e li aiutò quindi a fuggire. Gli uomini nell’accomiatarsi dissero alla donna che certamente la sua famiglia sarebbe stata risparmiata e che lei perciò avrebbe dovuto legare, in segno di riconoscimento, una matassa di filo rosso alla finestra della sua casa. Così fece la donna, mentre i due esploratori tornarono da Giosuè e riferirono tutto ciò e dissero che gli abitanti erano disfatti dalla paura del popolo d’Israele.

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