domenica 10 marzo 2013

Vaikrà

(Le.1,1-5,26)

E chiamò”, con queste parole inizia il terzo libro della Torà, il Levitico. Il libro è formato da una sequenza di gruppi di capitoli che trattano argomenti che sono in successione logica coordinata e che in gran parte interessano i sacerdoti appartenenti alla tribù di Levi:

a) I capitoli da uno sette trattano dei vari tipi di sacrifici che sono l’olocausto, il sacrificio incruento o oblazione, il sacrificio pacifico o di contentezza, il sacrificio di espiazione, il sacrificio di riparazione.

b) I capitoli da otto a dieci riguardano l’inizio del culto e quindi la consacrazione degli arredi sacri, dell’altare e dei sacerdoti e narrano anche dei primi sacrifici e dell’errore commesso da Nadab e Abiu, figli di Aron, nell’offerta dell’incenso.

c) I capitoli da undici a quindici trattano delle leggi della purità sia degli animali, sia delle azioni e di alcuni stati particolari della vita e danno le norme per la purificazione e la riammissione al cerimoniale di culto della comunità.

d) Il capitolo sedici è dedicato al rituale del giorno dell’espiazione.

e) I capitoli da diciassette a ventisei trattano delle leggi di santità e contengono prescrizioni riguardanti il Santuario, prescrizioni morali, prescrizioni rituali, in gran parte riguardanti i sacerdoti, e poi prescrizioni liturgiche con le date delle feste religiose.

f) Il capitolo ventisette infine reca prescrizioni riguardanti i voti e indica la misura delle tariffe e dei riscatti.

La nostra parashà dunque inizia con il compiere l’elencazione e la descrizione dei vari tipi di sacrifici da presentarsi al Santuario, che potevano essere:

a) di olocausto e quindi consistenti in animali da ardersi completamente in offerta al Signore;

b) di oblazione, che consistevano in offerte non cruente e di tipo farinaceo non fermentato, delle quali una parte veniva arsa in offerta al Signore e la rimanente era di appartenenza di Aron e dei suoi figli;

c) “shelamim”, pacifico o di contentezza che consisteva nell’ardere in offerta al Signore il grasso, la coda, le interiora, i reni, la rete del fegato;

d) “chattat”, di espiazione per una mancanza commessa inavvertitamente, che avveniva, come per il sacrificio di contentezza, con l’arsura del grasso e delle altre parti , ma in più prevedeva l’arsura del resto della carcassa da compiersi in un luogo puro fuori dal campo;

e) “asham”, di riparazione o di pentimento per essersi contaminati con impurità, o per aver contravvenuto ad un giuramento, o aver defraudato il prossimo, o aver commesso una rapina, che poteva essere cruento, con aspersione del sangue intorno all’altare dei sacrifici, o non cruento, come per l’oblazione, a seconda del tipo e della gravità del peccato commesso.

La parola “korban” è usualmente tradotta in italiano con il termine “sacrificio”, che esprime l’atto con il quale ci priviamo di qualcosa e sottintende una sofferenza che questa privazione provoca all’offerente. Analogamente il termine usato in italiano per tradurre la parola “teshuvà” è “pentimento”, e anche questo termine sottintende uno stato di sofferenza per avere avuto comportamenti giudicati, con il senno di poi, non più condivisibil . Ora è bene puntualizzare che i concetti di “sacrificio” e “pentimento”, espressi dai due termini in italiano, sono estranei allo spirito della “Torà”.

Korban” e “Teshuvà” esprimono infatti, rispettivamente, il desiderio di riavvicinamento ed il ritorno al Signore. I due termini pertanto non assumono una connotazione negativa che si prefigga di umiliare l’individuo ed i suoi comportamenti per rimarcarne la pochezza rispetto alla grandezza del Signore, bensì si propongono, in modo positivo, di esaltare l’aspirazione ed il ritorno dell’essere umano all’essenza divina dalla quale egli proviene.

Soffermandoci ora sull’aspirazione umana al ritorno verso la santità, resta da comprendere la funzione del “Korban” , che è l’atto materiale e concreto con il quale l’offerente manifesta il suo desiderio e la sua volontà di ritorno alla santità. Ci si può chiedere per quale motivo questo atto materiale sia ritenuto necessario e perché non sia invece giudicato sufficiente l’intimo convincimento e il desiderio del ritorno ad una condizione di condivisione della santità.

Segnalo al proposito la citazione riportata da Rav Jonathan Pacifici nel suo commento a questa parashà redatto nell’anno 5760. Il “Sefer Hachinuch”, cioè il “Libro della formazione”, che è un trattato attribuito a Aharon Halevi di Barcellona di commento alle 613 “mitzvot”, ed a cui è caro il principio secondo il quale “i cuori vanno appresso alle azioni”, spiega che il processo del ritorno al Signore, come ogni altra cosa nella “Torà” non può rimanere fondato solamente sul piano delle idee perché queste, come tali, sono volatili: solo l’azione riesce ad incidere nel cuore dell’uomo tracciando la retta via.

Assodata quindi la necessità di un’azione concreta che esprima il desiderio del ritorno alla santità, resta da capire perché questa azione debba consistere nel sacrificio di un animale. Sempre il “Sefer Hachinuch” spiega che il corpo dell’essere umano e quello degli animali sono in pratica equivalenti e che è la ragione l’elemento che distingue l’essere umano dall’animale:

…siccome il corpo dell’essere umano esce dalla categoria della ragione nel momento della trasgressione, egli deve sapere che entra in quel momento nella categoria degli animali … e per questo è stato comandato di prendere un pezzo di carne come lui e di portarlo nel luogo scelto per l’elevazione della ragione e cancellare il suo ricordo … affinché disegni nel suo cuore con forza che la sua questione di un corpo senza ragione è cancellata ed annullata completamente, e gioisca nella sua parte di anima raziocinante che gli ha concesso e che essa esiste per sempre.

Per comprendere appieno la “mitzva” del sacrificio animale è da tener presente che, dopo il diluvio, fu consentito al genere umano di nutrirsi di alcuni animali “kasher”, alla stregua dei prodotti vegetali della terra, sicché gli animale allevati dall’uomo furono considerati come un “raccolto” alla pari dei prodotti della terra, necessario al sostentamento e disponibile per l’offerta al Signore.

Il “Sefer Hachinuch” afferma la coincidenza dell’anima umana con la sua capacità di discernimento. In particolare la volontà umana “razon” assume rilevanza nell’ambito delle “Karbanot” in quanto tendente al conseguimento della pacificazione. Con questo ultimo passaggio quindi il “Korban” viene identificato come lo strumento per la pacificazione tra l’uomo e il Signore.

Questo naturalmente finché è esistito il Tempio. La distruzione del Tempio ad opera dei Romani nel 70 e.v. ha reso tecnicamente impossibili i sacrifici, giacché la “Torà” imponeva che questo fosse l’unico luogo in cui fosse possibile effettuarli. Da allora il sacrificio è stato sostituito dalla preghiera, quale concreta manifestazione del desiderio di ritorno alla santità.



Haftarà di Vaikrà
(estratto da Is.43,21-44,23)

Il tuo antico padre ha peccato, e coloro che intercedono per te hanno mancato verso di Me. Ed Io ho reso profani i principi consacrati, ed ho abbandonato Giacobbe alla distruzione ed Israele agli oltraggi.

Ricorda questo, Giacobbe, ricordalo Israele, perché tu sei Mio servo; ti ho creato perché sia Mio servo, Israele, non dimenticarti di Me. Io annullo le tue mancanze come una nube, annullo i tuoi peccati come il fumo; ritorna a Me perché Io ti salvo. Cantate, o cieli, perché il Signore ha compiuto prodigi, innalzate grida di gioia, o terre, situate in basso, prorompete in canto, monti, selve e loro alberi, perché il Signore redime Giacobbe e si mostra glorioso con quello che fa in Israele.

Nessun commento:

Posta un commento