
Padre Desbois ha dedicato la sua attività di questi ultimi anni alla ricerca della storia nascosta dell'eccidio di migliaia e migliaia di ebrei in piccoli borghi e foreste dell'Ucraina e di tutta l'Europa Orientale. E' stato premiato da Yad Va-shem e ultimamente l'Università di Bar-Ilan, a Ramat-Gan, gli ha assegnato una laurea honoris causa.
Il 18 gennaio scorso, presso l’Università Gregoriana alla presenza di una delegazione del Gran Rabbinato di Israele e di una numerosa rappresentanza diplomatica internazionale, Padre Patrick Desbois ha proceduto alla lettura pubblica del tema “The Holocaust by Bullets”, l’olocausto con le pallottole.
L’attività di Padre Desbois si è svolta in Ucraina, partendo dai luoghi ove suo padre era stato prigioniero durante il conflitto mondiale. Sono state individuate, da lui e dai suoi collaboratori, fosse comuni con i resti di un eccidio di proporzioni superiori ad ogni previsione. Fin’ora le fosse comuni in Ucraina sono oltre settecento e si calcola che i cadaveri contenuti siano almeno un milione e mezzo. L’opera di Padre Desbois consente la scoperta dei luoghi e delle dimensioni dell’eccidio, ma non potrà arrivare all’individuazione delle singole persone trucidate ed alla compilazione delle liste dei loro nomi. Non ci sarà la prova della morte di ogni singolo individuo e del luogo ove è avvenuta.
Sono in vita ancora gli ultimi testimoni della strage, le ultime persone che potranno dire “ricordo che la fossa iniziava qui, andava per di là e finiva laggiù”. Tra qualche hanno non ci sarà più nessuno a fornire testimonianza.

Poi ci sono le domande, quelle fatte ai testimoni : “Perché non ne avete mai parlato prima?”, domanda che non è una domanda, perché la risposta vera, nell’intimo, la sanno tutti.
Le risposte date completano l’ipocrisia : “Perché nessuno me l’ha chiesto!”
Poi c’è la domanda chiave, quella che si colloca nell’ambito dell’argomento di attualità: “Si poteva fare qualcosa per impedire o fermare l’olocausto?” e pare vogliano dire: “Ma Pio XII poteva fare qualcosa per fermare l’olocausto, o lo potevano fare le nazioni alleate in guerra contro le potenze dell’Asse?” .
Le verità sono a volte amare, a volte impietose, a volte feroci ed urticanti.
Qualcuno all’epoca ha fatto qualcosa, è esistito un Paese nella sfera d’influenza della Germania nazista dove il rastrellamento e la deportazione, pur ordinati da Berlino, non sono riusciti; dove neanche un ebreo di quella nazione è stato ceduto alla macchina dello sterminio.
Una storia sconosciuta, avvenuta in un Paese lontano: la Bulgaria. Tra le poche tracce che ne restano, due brevi comunicati radio.
Il primo è di Radio Berlino, che il 20 maggio 1943 annunciava, con burocratica sicurezza, l'imminente deportazione dei ventimila ebrei di Sofia, una delle tante tappe previste nella “Endloesung der Judenfrage”, la “soluzione finale del problema ebraico” decisa l'anno prima nella villa a Wannsee.
Il secondo è della Bbc. Il 24 maggio, il suo servizio internazionale informava di una manifestazione di protesta a Sofia. Migliaia di persone in piazza avevano impedito la partenza dei convogli nazisti. La deportazione non aveva avuto luogo. Una ribellione, in un Paese occupato, nell'angolo più sperduto della guerra, seguiva di un mese l'insurrezione del ghetto di Varsavia. Poi, però, non si seppe più nulla.
A maggio i nazisti ordinarono ai 20 mila ebrei di Sofia di presentarsi alla stazione il 24 maggio, giorno di Cirillo e Metodio, inventori dell'alfabeto cirillico, festa nazionale.
Ma nella Bulgaria già da qualche mese qualcosa stava cambiando. Dimitar Peshev era vicepresidente del Parlamento bulgaro e già nel marzo del 1943, informato della imminente deportazione di 48.000 ebrei bulgari, si era adoperato affinché re Boris III ed il governo disponessero la sospensione dei treni per Auschwitz.

Il 24 maggio, a Sofia, successe un evento unico in tutta Europa. A gruppi, gli ebrei cominciarono a manifestare. Alcuni si recarono alla grande sinagoga, altri a quella del quartiere popolare di Yuchbunar, dove il rabbino promosse una manifestazione. Venne deciso di marciare verso il palazzo reale. Partirono in poche centinaia, ma dalle case di Sofia molti cominciarono a scendere in strada. I manifestanti divennero migliaia, i gruppi comunisti clandestini tra i più attivi. La stazione venne presidiata, mentre il corteo affrontava la polizia e gli attoniti ufficiali delle SS. Ci furono 400 arresti, ma i treni rimasero vuoti. Il governo autorizzò solamente lo sfollamento degli ebrei dalla capitale verso le campagne.
I responsabili dell’operazione comunicarono a Himmler che “i bulgari mancano della illuminazione ideologica dei tedeschi. Vivendo da troppo tempo con armeni, greci e zingari, il popolo bulgaro non vede nell'ebreo difetti che giustifichino misure speciali contro di lui”.
Nei mesi successivi continuarono a riferire a Berlino che anche nelle campagne gli ebrei erano “ben accolti” e che “non c'era nulla da fare”. Nell'agosto del 1944, con l'avvicinarsi dell'Armata Rossa, le leggi antisemite vennero revocate: alla fine della guerra non un solo ebreo bulgaro era stato deportato.
L’episodio dimostra che qualcosa poteva farsi, ma non da parte di qualcuno che doveva venire da fuori, ma da parte del popolo tutto che avrebbe potuto proteggere la comunità dei propri ebrei.. Che lezione la piccola Bulgaria ha dato a tutta Europa!
Se si vuole veramente qualcosa si deve agire e rischiare, ma le nazioni civili non l’hanno fatto e non solo per codardia, ma perché non hanno voluto farlo. Questa è la risposta urticante all’ipocrisia di una domanda tendente alla liberazione da responsabilità!
Riporto al proposito la recensione del libro “Perché l'olocausto non fu fermato. Europa e America di fronte all'orrore nazista” di Theodore S. Hamerow, i cui contenuti sono in linea con quanto ho appena detto.
“E' ormai noto che la notizia dello sterminio sistematico degli ebrei ad opera dei nazisti circolava in Europa e negli Stati Uniti fin dal 1942. Eppure ci vollero tre lunghi anni prima che si ponesse fine alla barbarie del genocidio. Nel frattempo, nessuna azione militare specificamente finalizzata a sabotare la macchina nazista dell'orrore. Nessuna iniziativa diplomatica esplicitamente rivolta a fermare la mano degli aguzzini. Anzi, l'accoglienza di rifugiati ebrei in fuga dalla Germania fu resa ancor più difficile e le porte delle frontiere si chiusero per loro quasi ermeticamente. Perché? Theodore Hamerow fornisce a questo inquietante interrogativo storico una risposta sgradevole ma molto precisa: l'Olocausto non fu fermato prima perché anche le democrazie occidentali furono percorse al loro interno da una fortissima ondata di antisemitismo, che impedì ai governi di prendere misure concrete in soccorso degli ebrei. Perfino negli Stati Uniti, si tentò di far passare le notizie sullo sterminio per semplice propaganda e la questione ebraica come un problema locale. Frutto di un vastissimo lavoro d'archivio, il libro di Hamerow documenta per la prima volta in modo sistematico perché l'Occidente lasciò mano libera alla follia omicida nazista. Con una conclusione amara: pur sconfitto, Hitler in un certo senso ha vinto perché è riuscito a spazzare via gli ebrei dall'Europa.”
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