lunedì 1 agosto 2011

Devarim

(Deu.1-3,22)
Alle soglie della terra promessa Mosè, secondo quanto il Signore gli aveva comandato, rivolse al popolo un discorso, con il quale espresse il riepilogo delle vicende che avevano vissute lungo tutto il percorso dell’esodo dall’Egitto.

Rammentò in particolare la decisione della nomina dei giudici e quanto ebbe a raccomandare ad essi: “Ascoltate le questioni che sorgeranno fra i vostri fratelli e giudicate con giustizia fra un individuo ed il proprio fratello o uno straniero. Non abbiate riguardi nel giudicare, porgete ascolto al piccolo come al grande, non abbiate paura degli uomini poiché la giustizia appartiene a Dio. La cosa che vi sembrerà al di sopra delle vostre possibilità la sottoporrete a me ed io la ascolterò”.
Parole sono queste. Parole che lette d’un fiato sembrano così ovvie da non meritare un attimo di riflessione. Siamo talmente avvezzi ad esercitare l’ingiustizia, o a convivere con essa, da arrivare ad innescare un meccanismo automatico di salvaguardia, che nega che nel nostro agire si sia mai verificata ingiustizia. Eppure ingiustizia è la nostra supponenza, ingiustizia è il privilegio del nostro egoismo, ingiustizia è il non ascolto dell’altro, ingiustizia è il disprezzo dell’altro, ingiustizia è il non amore.
Ingiusti perché aridi, ciechi, sordi. Oppure ingiusti perché intimoriti, plagiati, perché abbiamo rinunciato ad essere padroni del nostro pensiero e delle nostre azioni. Perché abbiamo perduto il senso della nostra responsabilità, quella responsabilità, che fa di noi degli esseri umani e non delle belve.
Potremmo essere ingiusti anche per simulazione, per recita, per impersonare una figura che stimiamo forte a confronto con la debolezza e l’insignificanza che riteniamo sia la nostra reale connotazione.
La giustizia, disse Mosè, appartiene a Dio ed a Lui renderemo conto, non agli uomini.

Proseguendo nella narrazione Mosè ricordò anche la mancanza di fiducia che il popolo ebbe a manifestare, al ritorno degli esploratori ed ascoltando il loro resoconto. Ciò fu causa della punizione divina, che portò al protrarsi della peregrinazione nel deserto per altri quarant’anni ed all’esclusione di un’intera generazione dall’accesso alla terra promessa.
Fu mancanza di fiducia, fu scoramento, fu fiacchezza. Come poteva un popolo così svuotato e demotivato conquistare un paese, senza credere né nelle proprie forze, né nel sostegno del Signore?
La storia del genere umano, non solo quella del popolo ebraico, è costellata di guerre sante, dove la presenza di Dio al proprio fianco è d’obbligo e genera il fanatismo che centuplica le forze e che conduce alla vittoria.

Rammentò quindi Mosè la fase finale di avvicinamento alla terra promessa e gli attraversamenti dei territori dove erano insediati altri popoli. Attraversamenti richiesti generalmente con parole di pace, come furono quelle rivolte al re di Cheshbon: “Lasciami passare attraverso la tua terra, soltanto sulla strada io camminerò, non devierò né a destra né a sinistra; tu mi venderai per denaro il cibo ed io mangerò; acqua mi darai per denaro ed io berrò; soltanto lasciami passare a piedi, come fecero per me i figli di Esaù che abitano in Se’ir, ed i Moabiti che stanno in ‘Ar, fino a che io passi il Giordano, dirigendomi verso la terra che il Signore Dio nostro dà a noi”.
Era un atteggiamento estremamente rispettoso della proprietà e della sovranità altrui, che trova le sue radici nei comportamenti dei popoli di pastori, come fino a quel momento era il popolo ebraico, nei riguardi dei territori dei popoli agricoltori, nei quali è d’obbligo non produrre danni e quindi camminare sulle strade.
Anche questo è un insegnamento purtroppo in gran parte perduto al giorno d’oggi e nel nostro paese, dove si deve constatare che la cosa comune è un concetto generalmente non percepito e la cosa dell’altro, se non vigilata, è esposta al danneggiamento.

Infine la narrazione si riferisce all’assegnazione alle tribù di Ruben, Gad e parte di quella di Manasse dei territori ad est del Giordano ed a ciò che Mosè comandò loro: “Il Signore vostro Dio vi ha dato in possesso questa terra, voi passerete armati all’avanguardia dei vostri fratelli figli d’Israele, tutti uomini valorosi. Le vostre donne ed i vostri figli ed il vostro bestiame soltanto (io so che avete gran numero di bestiame) rimarranno nelle città che io ho assegnato a voi, fino a che il Signore vostro Dio concederà quiete ai vostri fratelli come a voi ed anche essi possederanno il territorio che il signore vostro Dio è per dare a loro al di là del Giordano. Allora tornerete ognuno alla proprietà che io vi ho assegnato”.
Il comportamento di queste due tribù e mezza sostanzia la prova che il popolo non è soltanto un insieme di tribù ma costituisce ormai una nazione e che la solidarietà nazionale ha assorbito gli interessi delle singole tribù. Questo popolo litigioso e contestatore nei momenti nodali della sua storia ritrova la sua unità e la coscienza di costituire questa unità.

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