domenica 4 marzo 2012

Purim: assimilazione o isolamento?

Esiste un popolo sparso e diviso tra i popoli, in tutte le province del tuo regno, e le sue leggi sono differenti da quelle di ogni altro popolo e non eseguiscono le leggi del re e al re non giova tollerarlo. Se al re piace si scriva che lo distruggano, e io peserò diecimila talenti d’argento agli amministratori dell’erario da versare nel tesoro del re.” (Ester 3, 8 e 9)

Con queste parole il perfido Haman tenta di ottenere dal re l’editto che ordini la distruzione del popolo ebraico.

Il resto della storia lo conosciamo: la regina Ester, mettendo a rischio la propria vita, intercede presso il re ed ottiene la salvezza del suo popolo e la condanna del perfido Haman.

Ricordiamoci che a Babilonia era stata deportata l’elite del popolo ebraico, quella parte cioè della popolazione che il vincitore aveva giudicata utile perché dotata nelle scienze, nelle arti, nei mestieri. Queste persone si erano quindi bene inserite nella società babilonese, che era una società multietnica in ragione della vastità dell’impero, arrivando a conseguire oltre che una certa agiatezza anche cariche pubbliche. Rammentiamoci anche del giovinetto Daniele che, cresciuto a corte, arriva a ricoprire l’incarico di capo di tutte le province di Babilonia (Dan.2,48).

La Meghillà di Ester ci dice che Haman fu indotto nel suo proposito di distruzione del popolo ebraico dal comportamento irrispettoso di Mardocheo, il quale si era rifiutato di prestargli omaggio inchinandosi davanti a lui. Ma , se andiamo ad analizzare le parole che Haman dice al re, troviamo altre due motivazioni: la prima, che serve a legittimare l’ordine di distruzione che il re avrebbe dovuto emanare, consiste nel fatto che il popolo ebraico non esegue le leggi del re, ma ne ha di proprie differenti; la seconda invece è la motivazione che ha spinto Haman a perseguire il suo perfido proposito ed è la prospettiva del saccheggio dei beni degli ebrei, dal quale egli avrebbe ricavato, oltre la propria fortuna personale, anche i diecimila talenti d’argento da versare alle casse del re.

Le vicende della Meghillà si ripeteranno più volte nella storia del popolo ebraico e delle persecuzioni cui sarà sottoposto. Qui le leggi emanate dal re e che gli ebrei non seguono , detto chiaramente, sono tutte quelle che contravvengono la normativa religiosa e che quindi assumono per l’ebreo la connotazione di idolatria. Idolatria però non è solo adorare altri dei, idolatria è anche contravvenire, ad esempio, alle regole alimentari, che sono espresse dalla Torà, idolatria è lavorare il Sabato, perché anche questo è comando del Signore. Gli altri popoli che vengono a contatto con il popolo ebraico non si spiegano queste diversità e le interpretano come volontà degli ebrei di non avere contatti con loro e di voler costituire come una lobby che cura i propri interessi culturali e di affari, tenendone fuori gli altri, i gojim.

Queste incomprensioni appaiono anacronistiche al giorno d’oggi, in un mondo dove la conoscenza e la comunicazione sono divenute in tutti i campi prerogative largamente accessibili a tutti. Viene da chiedersi se l’incomprensione sia dovuta esclusivamente a preconcetti da parte degli altri popoli o se anche nell’atteggiamento e nei comportamenti degli ebrei verso i gojim ci sia qualcosa che non funziona.

Che la religiosità del buon ebreo sia un fatto molto impegnativo e molto esigente nei suoi stessi confronti è un fatto noto. E’ una delle religioni più ossessive, che regola praticamente tutte le azioni dell’essere umano con una miriade di precetti positivi e negativi. I rituali ebraici risultano poi incomprensibili ai gojim a meno che non siano conoscitori della lingua ebraica nella quale sono celebrati. L’accesso stesso alle Sinagoghe non è semplice, ufficialmente per motivi di sicurezza, ma all’atto pratico è interdetto ai gojim.

Mi chiedo cosa veramente la Torà intenda per popolo ebraico e cosa rappresenti l’Esodo nell’esperienza di ciascun essere umano. Parlo di Esodo perché è in questo libro che nasce l’ebraismo come religione ed è ebreo chi, conosciuta la schiavitù della propria esistenza, intraprende il viaggio della propria vita attraversando le difficoltà e le crisi nel deserto per arrivare a vedere la terra promessa, la finalità della propria esistenza.

La Torà dice che si unirono agli ebrei nel viaggio verso la terra promessa anche degli Egiziani ed anche elementi di altre popolazioni. Peraltro la Torà parla anche di popolazioni che devono essere distrutte, massimamente quelle che occupano la terra di Canaan. Per comprendere esattamente cosa ci ha detto la Torà e non cadere in una interpretazione razzistica occorre tenere a mente che una cosa la Torà focalizza come pericolo mortale e quindi da distruggere: l’idolatria. Sono popoli da combattere quelli che esercitano il culto di falsi dei e sono da non frequentare per il pericolo che la loro idolatria possa contagiare il popolo ebraico. Si manifesta invece accoglienza verso quei soggetti che aderiscono all’ebraismo e ad esso si convertono, accoglienza totale al punto che non è consentito dopo la loro conversione rammentare la loro condizione precedente.

Si dice che l’ebraismo non faccia opera di proselitismo e questa è una realtà pressoché generale. Si dice quindi che l’ebraismo non bussa alle porte altrui per cercare proseliti, ma si dice anche che se qualcuno bussa alla sua porta questa viene aperta. Non mi pare però che questa accoglienza avvenga con ragionevole facilità.

Si ribatte a questa critica sostenendo la necessità di mantenere integre le proprie tradizioni al fine di non smarrire la propria identità. Non mi sembra una risposta centrata, giacché la perdita della propria identità si verifica a mio parere non quando un altro soggetto ne acquisisce una simile alla mia, ma quando io frequentando il mondo esterno, che non ha e non vuole avere la mia identità, la smarrisco.

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