mercoledì 28 marzo 2012

Tzav

(Le.6,1-8,36)

Anche questa parashà, come la precedente, tratta dei sacrifici che si compiono al Santuario. La differenza consiste nel fatto che Vaikrà è indirizzata all’offerente, mentre nella parashà di Tzav si tratta degli ordini rivolti ai sacerdoti.

La narrazione della parashà inizia con Il Signore che impartisce a Mosè la legge dell’olà, cioè dell’olocausto, del tutto bruciato. L’olocausto potrà ardere sull’altare dei sacrifici per tutta la notte fino al mattino, quando il sacerdote, indossati gli abiti di lino, provvederà a raccoglierne la cenere presso l’altare, per portarla poi, indossati altri abiti, fuori dall’accampamento in un luogo puro. Il fuoco dell’altare non dovrà spegnersi mai.

Molteplici quindi potranno essere le specie di sacrificio, diversi i motivi per cui esso si presenta, diverse le modalità con cui si offre, ma una cosa deve essere costante e immutabile, ed è il fuoco dell'altare su cui il sacrificio deve presentarsi. L’insegnamento personale sotteso da questa prescrizione è che diversi possono essere i nostri sentimenti, diverse le vie o i motivi che ci spingono a ricercare l’avvicinamento al Signore, ma la disposizione dell'animo deve essere sempre uguale.

Ripetutamente la Torà ci mostra il fuoco come l’elemento che avvolge la presenza del Signore o dei suoi messaggeri; in un fuoco appare il Signore a Mosè sul roveto; in un fuoco racchiuso in una nube Egli scende sul Sinai; in un fuoco si posa sul Santuario quando esso è inaugurato. Questo fuoco è anche quello che arde in noi quando ci sentiamo attratti verso il Signore e proviamo il desiderio di compiere il bene e amare i nostri simili. Sarà questo il fuoco che dovremo rinnovare ogni giorno della nostra vita a partire dal nostro risveglio quando ringraziamo il Signore per averci restituito la nostra anima, ancora una volta rinnovata e purificata.

Prosegue la parashà con il dettare la legge per l’offerta farinacea, della quale una parte sarà bruciata sull’altare, mentre ciò che resta sarà destinato al sostentamento di Aron ed i suoi figli. Ogni figlio maschio di Aron potrà mangiarla sotto forma di pani azzimi in un luogo sacro.

I sacerdoti presenteranno al Signore un’offerta farinacea che verrà interamente arsa. L’offerta sarà presentata quotidianamente dal Sommo Sacerdote mentre la presentazione da parte degli altri sacerdoti avverrà nel giorno della loro unzione. Faranno inoltre i sacerdoti il sacrificio di chattat, di espiazione, scannando l’offerta animale nello stesso luogo in cui viene scannato l’olocausto e il sacerdote che presenta il chattat ha diritto di precedenza nel mangiarne la carne, poi la carne viene divisa tra tutti i sacerdoti che sono di turno al Santuario nel giorno della presentazione del sacrificio.

Il sacrificio di asciam verrà compiuto scannando l’animale e spargendone il sangue intorno all’altare. Il grasso. La coda i due reni e la membrana del fegato saranno interamente arsi sull’altare. Il rimanente potrà essere mangiato dai sacerdoti di turno. L’asciam, che è come il chattat e ne segue le medesime leggi, appartiene al sacerdote che compie l’espiazione.

Le pelli degli animali offerti in olocausto restano di appartenenza dei sacerdoti che effettuano i sacrifici e dei sacerdoti di turno.

Per queste mitzvot l’ordine viene dato usando il verbo zav, cioè di comandare ai Coanim di fare una certa cosa in un certo modo. I Coanim eseguiranno quindi perché comandati e non per libera adesione e perciò con l’umiltà derivante dalla sottomissione al comando del Signore. I Coanim perciò sono privilegiati in mezzo al popolo d’Israele, ma devono essere consapevoli del fatto che il loro privilegio è rigorosamente finalizzato alla celebrazione del culto Divino. Il sacerdote è garante della continuità del servizio del Santuario ed affinché non insuperbisca per l’avere indossato le vesti sacerdotali, deve svolgere come primo compito un lavoro umile e cioè rimuovere dall’altare la cenere del giorno precedente. L’insegnamento è rivolto a tutti noi affinché non sia l’esteriorità a nutrire la nostra religiosità, ma le azioni, anche se costano sacrificio, così come rimuovere la cenere costa al sacerdote la perdita del candore delle sue vesti.

E questa è la legge del sacrificio cruento di shelamim che si presenti al Signore. Se qualcuno lo presenterà come rendimento di grazie presenterà oltre al sacrificio cruento di ringraziamento pani azzimi intrisi nell’olio e pani azzimi di forma allungata unti con l’olio e fior di farina ammollita in olio bollente, cotto in pani intrisi nell’olio. Insieme con pani lievitati presenterà il suo sacrificio, oltre al sacrificio di shelamim di ringraziamento.” (Le.7,11-7,13)

Shelamim sono le offerte di pacificazione, cioè offerte di animali compiute volontariamente. La radice verbale che dà il nome all’offerta viene dalla parola shalom, pace. Una parte dell’offerta viene arsa sull’altare e la rimanente viene consumata dal Sacerdote e dall’offerente. Si realizza così l’armonica pacificazione tra la Divinità e celebrante e offerente. Ma il termine shelamim viene però anche dalla radice shallem, integro, perché l’offerente non intende espiare una trasgressione, bensì vuole perfezionarsi e rendere partecipe il Signore ed il prossimo della propria gioia.

Nella categoria dei shelamim rientra l’offerta di ringraziamento korban todà. I Saggi hanno individuato quattro categorie di persone che sono tenute a presentare un korban todà: colui che è sopravvissuto ad un viaggio nel deserto (o ad un viaggio pericoloso), alla prigione, ad una malattia grave o ad un viaggio per mare. L’importanza di questa offerta e la sua attualità derivano dal fatto che il Midrash (Vaikrà Rabbà 9:7) sostiene che in futuro non ci sarà più bisogno di offerte espiatorie perché Israele non peccherà più. Continueranno però ad essere presentate offerte di ringraziamento. Le offerte di ringraziamento sono quindi il cardine del servizio del prossimo Santuario e lo studio delle loro regole è un’importante occasione di preparazione per il futuro oltre che di riparazione per il presente.

I Maestri hanno approfondito il concetto di ringraziamento rammentando che fu Leà la prima a ringraziare il Signore e lo fece in occasione della nascita del suo quarto figlio, cui fu posto il nome di Jeudà. Il nome Jeudà è formato da cinque lettere. Quattro sono le lettere del nome del Signore, più la lettera dalet (valore numerico quattro) che secondo i Maestri esprime i quattro punti cardinali e quindi tutta la terra. Jeudà è colui che porterà il dominio di D-o su tutti punti cardinali poiché da lui discenderà il Messia. Sembra quindi che ringraziare sia un operazione da compiersi quando riceviamo qualche cosa in più rispetto a ciò che speravamo o riteniamo di aver meritato.

La penultima benedizione della Amidà, che oggi sostituisce il sacrificio quotidiano, è la benedizione di modim (noi ti ringraziamo). Essa è l’unica per la quale l’officiante non può essere delegato dal pubblico: i Maestri hanno stabilito che mentre lo shaliach zibbur pronuncia tale benedizione il pubblico reciti il modim derabbanan, un apposita formula di ringraziamento. Questo perché il ringraziamento deve necessariamente essere personale.

Quando noi sapremo ringraziare il Signore quotidianamente, perché avremo compreso che tutto quello che Egli fa è solo bene allora apriremo le porte al mondo futuro. In questo senso il dominio del Signore e persino il Suo Nome non sono completi fino a che non ci sarà la redenzione finale. La redenzione, le cui radici si individuano nella nascita di Jeudà, progenitore del Re Messia, nasce da un atto di umiltà. Nasce dal fatto che Leà insegna a ringraziare.

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